ECONOMIA | |POLITICA|HACKTIVISM|ETICA E DIRITTI| |
Il flop del marchio Usa |
Il flop del marchio Usa
Quando la Casa Bianca ha deciso che era arrivato il momento di affrontare l'ondata di antiamericanismo in tutto il mondo, non si è rivolta a un diplomatico di carriera. Tenendo fede alla filosofia dell'amministrazione Bush, secondo cui il settore privato è meglio di quello pubblico, ha reclutato uno dei massimi manager di Madison Avenue, la strada delle grandi aziende. Come sottosegretario di Stato per la Diplomazia pubblica e le relazioni pubbliche, l'incarico affidato a Charlotte Beers non era di migliorare i rapporti con gli altri paesi bensì di ridefinire l'immagine degli Stati Uniti all'estero. La Beers non aveva alcuna esperienza diplomatica, ma aveva occupato la poltrona più alta in due importanti agenzie di pubblicità, J. Walter Thompson e Ogilvy & Mather, e aveva lavorato per ogni tipo di marchio, dal cibo per cani ai trapani elettrici. Adesso le veniva chiesto di mettere il suo talento a disposizione della più grande di tutte le sfide del marketing: vendere gli Stati Uniti e la loro guerra al terrorismo a un mondo sempre più ostile.
Inevitabile incomprensione
La nomina di una pubblicitaria ha ovviamente sollevato alcune critiche, ma il
segretario di Stato Colin Powell le ha ignorate. "Non c'è nulla
di sbagliato a prendere qualcuno che sappia come vendere qualcosa. Noi stiamo
vendendo un prodotto. Abbiamo bisogno di qualcuno che sappia ridare un'immagine
alla politica estera statunitense, ridare un'immagine alla diplomazia".
Inoltre, ha aggiunto Powell, "è merito suo se ho cominciato a comprare
il riso Uncle Ben's".
Allora perché, a cinque mesi da questa nomina, la campagna per il nuovo "marchio Usa" sembra nel caos? In diverse occasioni la Beers è stata accusata di prendersi gioco della realtà. E quando a gennaio è andata in Egitto per migliorare l'immagine degli Stati Uniti presso gli opinion maker arabi, le cose non sono andate diversamente. Muhammad Abdel Hadi, giornalista del quotidiano Al Ahram, è uscito dall'incontro con la Beers frustrato per il fatto che la donna sembrava più interessata a parlare di vaghi valori americani che non di specifiche politiche Usa. "Per quanto ti sforzi di fargli capire una cosa", dice Hadi, "non ci riesci".
L'incomprensione è probabilmente derivata dal fatto che la Beers concepisce l'immagine negativa degli Stati Uniti più o meno come un problema di comunicazione. Malgrado tutta la cultura globale che si diffonde da New York, Los Angeles e Atlanta, e malgrado uno possa vedere al Cairo la Cnn e a Mogadiscio il film Black Hawk Down, gli Stati Uniti non sono ancora riusciti, come dice la Beers, ad "arrivare in questi posti per raccontare la nostra storia".
In realtà il problema è proprio l'opposto: l'operazione di marketing è stata fin troppo efficace. Gli studenti possono recitare a memoria le posizioni americane a favore della democrazia, della libertà e delle pari opportunità con la stessa facilità con cui associano McDonald's allo svago familiare e Nike alla bravura atletica. E si aspettano che gli Stati Uniti tengano fede alle loro affermazioni. Se milioni di persone sono arrabbiate è perché secondo loro la politica americana ha tradito queste promesse. Malgrado il presidente Bush insista nel dire che i nemici dell'America non ne sopportano la libertà, la maggior parte dei critici degli Stati Uniti non si oppone affatto ai valori che l'America sbandiera in tutto il mondo. Ciò contro cui puntano il dito è l'unilateralismo americano contrario al diritto internazionale, le crescenti diseguaglianze nella distribuzione della ricchezza, la mano pesante con gli immigrati e le violazioni dei diritti umani (ultimissimo esempio, Guantanamo). La rabbia non deriva solo dalla realtà dei fatti ma anche dalla chiara percezione di una pubblicità falsata. In altre parole, il problema dell’America non è il suo marchio che difficilmente potrebbe essere più forte ma il suo prodotto.
Branding e politica
Il rilancio del marchio Usa incontra anche un altro ostacolo, più profondo,
e riguarda la natura stessa del branding, della politica del marchio. Allen
Rosenshine, presidente di Bbdo Worldwide, ha scritto di recente su Advertising
Age che un branding vincente "richiede un messaggio meticolosamente costruito
e trasmesso con coerenza e disciplina". Verissimo. Ma Naomi Klein vive
a Toronto, in Canada. Scrive regolarmente per il Globe and Mail e, in Italia,
per Internazionale. Il suo libro No Logo è stato pubblicato da Baldini
& Castoldi. i valori che la Beer è incaricata di vendere sono la
democrazia e la diversità, valori profondamente incompatibili con questa
"coerenza e disciplina". A questo bisogna aggiungere che molti dei
paesi più critici verso gli Stati Uniti si sentono obbligati ad allinearsi
al governo americano. Insomma, la campagna di branding di Washington potrebbe
ritorcersi contro gli Usa, e anche malamente.
Nel mondo delle aziende, quando la sede centrale ha stabilito "un'identità di marchio" questa viene applicata con precisione militare in tutte le operazioni della società. L'identità di marchio può adattarsi alle preferenze linguistiche e culturali locali (come McDonald's che in Italia serve gli spaghetti), ma le sue caratteristiche fondamentali - estetica, messaggio, logo - restano immutate. Questa coerenza è ciò che i brand manager amano chiamare "la promessa" di un marchio: è l'assicurazione che, ovunque andiate nel mondo, la vostra esperienza in un Wal-Mart, un Holiday Inn o un parco a tema della Disney sarà confortevole e familiare. Tutto quel che minaccia questa omogeneità affievolisce la forza complessiva di un'azienda. Ecco perché l'altro lato del vendere entusiasticamente un marchio è perseguire legalmente e in modo deciso chiunque provi a fare il furbo, per esempio contraffacendone i prodotti o diffondendo su internet informazioni indesiderate.
Logiche diverse
A livello di base il branding consiste in messaggi unidirezionali rigorosamente
controllati, trasmessi nella loro forma più patinata e poi sigillati
da chi vorrebbe trasformare questo monologo aziendale in un dialogo sociale.
Gli strumenti più importanti per lanciare un marchio forte possono essere
la ricerca, la creatività e la progettazione, ma subito dopo le leggi
sulla diffamazione e il copyright sono i migliori amici di un marchio.
Quando i brand manager trasferiscono le loro abilità dal mondo aziendale a quello politico portano invariabilmente con sé un certo fanatismo per l'omogeneità. Per esempio, quando a Wally Olins, cofondatore della società di consulenza Wolff Olins, è stato chiesto il suo giudizio sul problema d'immagine dell'America, egli si è lamentato che la gente non ha un'unica, chiara idea di cosa il paese rappresenti, bensì decine se non centinaia di idee "confuse nella testa delle persone in modo quanto mai singolare. Si trovano così individui che contemporaneamente ammirano e detestano l'America, spesso nella stessa frase".
Dal punto di vista del branding sarebbe certamente seccante se ci trovassimo contemporaneamente ad ammirare e detestare il nostro detersivo per il bucato. Ma quando si passa al nostro rapporto con i governi, soprattutto il governo del paese più potente e ricco al mondo, una certa complessità è sicuramente nell'ordine delle cose. Avere opinioni conflittuali sugli Stati Uniti - ammirarne la creatività, per esempio, ma provare fastidio per i suoi doppi standard - non significa che siete "confusi", per usare l'espressione di Olins, ma che state attenti.
Inoltre, gran parte della rabbia rivolta contro gli Stati Uniti deriva dalla convinzione - espressa senza indugi in Argentina come in Francia, in India come in Arabia Saudita - che gli Stati Uniti richiedono già troppa "coerenza e disciplina" agli altri paesi e che, sotto l'ostentato impegno a favore della democrazia e della sovranità, sono profondamente intolleranti rispetto alle deviazioni dal modello economico noto come "il Consenso di Washington". Che queste politiche, così vantaggiose per gli investitori stranieri, siano imposte dal washingtoniano Fondo monetario internazionale oppure attraverso accordi internazionali sul commercio, in genere i critici degli Stati Uniti ritengono che il mondo sia già troppo influenzato dal marchio di governo dell'America (per non parlare dei marchi dell'America).
Uniformità e diversità
C'è un altro motivo per stare attenti a non confondere la logica del
branding con il governare. Quando le aziende cercano di dare alla loro immagine
una coerenza globale, fanno una cosa normale. Ma quando i governi fanno lo stesso,
possono apparire decisamente autoritari. Non è una coincidenza che i
leader politici più interessati a imporre la loro immagine e quella del
loro partito siano stati anche allergici alla democrazia e alla diversità.
Pensate ai murales giganti e ai libretti rossi di Mao. E pensate a Hitler, un
uomo completamente ossessionato dalla purezza dell'immagine: all'interno del
suo partito, del suo paese, della sua razza. Storicamente è stato questo
il rovescio della medaglia dei politici che cercavano di imporre la coerenza
del marchio: informazione centralizzata, media controllati dallo Stato, campi
di rieducazione, epurazione dei dissidenti e così via.
La democrazia, per fortuna, ha altre idee. A differenza dei marchi forti, che sono prevedibili e disciplinati, la democrazia è disordinata e indisciplinata, se non dichiaratamente ribelle. Beers e colleghi possono aver convinto Colin Powell a comprare il riso Uncle Ben's creando un'immagine del marchio attraente, ma gli Stati Uniti non sono fatti di chicchi di riso identici o di hamburger seriali.
Il più forte "attributo del marchio" del paese, per usare un termine del mondo della signora Beers, è il suo abbracciare la diversità, un valore che ora la Beers sta cercando paradossalmente di imporre con uniformità nel mondo, come con uno stampino. Il tentativo non solo è futile ma anche pericoloso: la coerenza del marchio e la vera diversità umana sono antitetici; l'uno cerca l'uniformità, l'altro celebra la differenza; l'uno teme tutti i messaggi improvvisati, l'altro abbraccia il dibattito e il dissenso.
Applausi educati
Di recente, in un discorso a Pechino per cercare di vendere il marchio Usa,
il presidente Bush ha affermato che "in una società libera la diversità
non equivale al disordine. Il dibattito non equivale al conflitto". Il
pubblico ha applaudito educatamente. Il messaggio sarebbe potuto risultare più
convincente se questi valori avessero trovato più spazio nelle comunicazioni
dell'amministrazione Bush con il mondo esterno, a livello di immagine e, soprattutto,
di scelte politiche.
Perché, come il presidente Bush mette giustamente in evidenza, la diversità e il dibattito sono la linfa della libertà. E sono nemici del branding.