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Non c'è pace senza lotta Next week, rebels will march on Mexico City demanding rights for the country's indigenous people. But they will not fire a single shot, for this is a new kind of revolution. Naomi Klein describes the appeal of the Zapatistas and their 'voice' Marcos
Berlusconi is trying to close the cities to protest, real or imagined Introduzione di Naomi Klein per il GasCD, compilation di 32 artisti che prende il nome dai lacrimogeni usati contro i manifestanti a Quebec-City e Genova. I ricavati delle vendite italiane a Radio Gap.
Dimostrazione di Londra valida per risollevare il morale e per attrarre l’attenzione dei media.  
The Zapatistas are trouncing the president in popular appeal  

Non c'è pace senza lotta

Su un pezzo melmoso di terra occupata alla periferia di Buenos Aires, Florencia Vespignani mi parla del suo imminente tour di sensibilizzazione negli Stati Uniti, dove parlerà con studenti e attivisti dei movimenti di resistenza argentini.
“Ho un po’ paura”, confessa. “Della guerra?”, domando. “No, dell’aereo. Qui di guerre ne abbiamo in continuazione”. Florencia ha 33 anni e fa parte del Movimiento de trabajadores desocupados (Mtd), una delle decine di organizzazioni di lavoratori disoccupati, noti come piqueteros, che sono emerse dalle macerie dell’economia argentina.

Quando descrive la vita come una guerra non è una metafora. In un paese dove oltre la metà della popolazione vive in povertà e ogni giorno muoiono di fame 27 bambini, Florencia ha semplicemente imparato che se vuoi restare vivo devi scendere in strada e combattere: per ogni tozzo di pane, per ogni matita di chi va a scuola, per ogni notte di riposo.
Nella prospettiva del Fondo monetario internazionale (Fmi) i piqueteros sono i danni collaterali del neoliberismo: un’esplosione casuale che è avvenuta quando le privatizzazioni in serie si sono combinate a misure “shock” di austerità. A metà degli anni novanta centinaia di migliaia di argentini sono rimasti senza stipendio, senza sussidi e senza pensione. Ma anziché scomparire nelle baraccopoli che circondano Buenos Aires, si sono organizzati in combattivi sindacati di quartiere. Strade e ponti sono stati bloccati finché il governo non ha pagato i sussidi di disoccupazione; le terre abbandonate sono state occupate per costruire case; oltre un centinaio di fabbriche chiuse sono state riaperte dai loro dipendenti. L’azione diretta è diventata l’alternativa ai furti e alla morte.

Ma non è questo il motivo per cui Florencia descrive la vita in Argentina come una guerra. La guerra è quello che succede dopo, quando lei e i suoi vicini osano sopravvivere: le visite di teppisti armati, gli sfratti brutali dalle terre e dalle fabbriche occupate, la raffigurazione dei piqueteros come pericolosi terroristi, gli attivisti uccisi dalla polizia. C’è infatti un tacito accordo che i politici locali devono rispettare per essere degni di ricevere nuovi capitali stranieri dall’Fmi: devono mostrare di essere disposti a usare la forza per controllare i settori della popolazione danneggiati da queste politiche. In breve, il tentativo disperato di milioni di argentini di restare vivi è una minaccia alla ripresa dell’economia e deve essere fermato.

Ha scritto di recente John Berger: “Senza soldi ogni bisogno umano quotidiano diventa una sofferenza”. In Argentina ogni tentativo di alleviare questa sofferenza sta diventando un crimine. Questa è la guerra di cui parla Florencia, e quando il prossimo mese andrà negli Stati Uniti avrà il difficile compito di cercare di farlo capire ad attivisti quasi esclusivamente interessati a far finire un altro tipo di guerra, una guerra dove la strategia è “colpire e spaventare”.

Penso agli appelli per la “pace” che arrivano dall’Europa e dal Nordamerica. Qui il messaggio contro la guerra risuona con forza e il 15 febbraio decine di migliaia di argentini hanno partecipato alla giornata di mobilitazione per la pace. Ma quale “pace”? Cosa significa la pace in un paese dove il diritto che più bisogna difendere è il diritto a combattere? In Argentina, per esempio, o anche in Sudafrica e nel resto del mondo i movimenti sociali, anziché destinare le loro energie agli sforzi per assicurarsi il cibo, un lavoro e un pezzo di terra, sono costretti a dedicare il loro tempo a combattere la guerra a bassa intensità contro la loro stessa criminalizzazione.

Tutti vogliamo la pace
La grande ironia è che in realtà questi movimenti combattono la vera guerra contro il terrorismo, non con l’ordine pubblico ma fornendo alternative alle tendenze fondamentaliste che esistono dove c’è vera disperazione. Sviluppano tattiche che permettono alle persone più emarginate di soddisfare i loro bisogni senza ricorrere al terrore: bloccando le strade, occupando terreni abbandonati, opponendosi agli sfratti.

Il 15 febbraio è stato più di una manifestazione: è stato la promessa di costruire un movimento contro la guerra davvero internazionale. Se così sarà, nordamericani ed europei dovranno affrontare la guerra su tutti i fronti: opporsi a un attacco all’Iraq rifiutando allo stesso tempo l’idea che i movimenti sociali siano etichettati come terroristi. L’uso della forza per controllare le risorse dell’Iraq è una versione estrema della forza usata per tenere aperti i mercati e continuare a ricevere i pagamenti del debito da paesi come l’Argentina e il Sudafrica. Dove la vita quotidiana è guerra, le persone che si oppongono con forza a questa brutalità sono i militanti per la pace.

Perché tutti noi vogliamo la pace. Ma ricordiamoci che non l’avremo senza lottare.

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