.D: Ritiene che Internet possa essere uno strumento valido di
democratizzazione e di ridistribuzione del potere? In che modo?
R: Intanto bisognerebbe vedere se abbiamo bisogno di
una redistribuzione del potere o non piuttosto di una sua abolizione,
o almeno di un suo radicale cambiamento di natura. Il fallimento delle
rivoluzioni politiche e sociali tentate nel XX secolo dalla componente
comunista del movimento operaio (che hanno realizzato una gestione del
potere altrettanto, se non più, autoritaria di quella delle democrazie
plebiscitarie fasciste o populiste) non cancella la debolezza strutturale,
sul lato della partecipazione alla vita politica, delle democrazie rappresentative
che sono l'eredità delle rivoluzioni borghesi del XVII e XVIII
secolo. Ma al di là di questo, confesso che qualche anno fa avrei
risposto “sì” con più nettezza alla prima
di queste due domande. Le posizioni che attualmente stanno avendo più
successo sul rapporto fra reti telematiche e democrazia sono da un lato
quella espressa dalla cosiddetta Californian Ideology, che vorrebbe
superare i limiti della democrazia rappresentativa costruendo un legame
diretto (tramite la rete) fra la base elettorale e le élite politiche;
dall'altro quella dei democratici alla Al Gore, che vede nella rete
uno strumento per rinsaldare i rapporti fra eletti ed elettori resi
più difficili dalla frammentazione della vita contemporanea e
dalla fine della produzione fordista. La prima posizione, che in America
è stata espressa più chiaramente da Ross Perot e Newt
Gingrich, mi pare pericolosissima, perché esprime una forma di
populismo o peronismo telematico, in cui la partecipazione della base
alla vita politica si esprimerebbe in forma plebiscitaria, sulla base
di risposte secche (sì o no) a domande semplificate poste direttamente
al “popolo” dal caudillo di turno - e servirebbe a eccitare
ulteriormente la deriva razzista, xenofoba, law and order, che percorre
in questi anni le società occidentali. La seconda mi sembra molto
debole, perché vede la rete semplicemente come uno strumento
diverso per realizzare la tradizionale “partecipazione”
degli elettori alla vita politica senza mutare i meccanismi di quest'ultima,
e non affronta davvero i mutamenti strutturali (nei processi produttivi,
negli stili di vista, nell'immaginario) di cui le tecnologie digitali
sono state strumento e indice (ma non causa). Nessuna delle due posizioni
affronta davvero il tema centrale del rapporto fra democrazia e rete,
che è il concetto e la pratica di “comunità”.
Per il momento, soltanto le minoranze più politicizzate delle
comunità hacker si pongono questo problema, che è quello
di legare la questione della partecipazione dei cittadini alla formazione
di comunità (non solo più territoriali) che esprimano
e organizzino bisogni, utilizzando la rete come strumento non solo organizzativo,
ma di crescita culturale e politica, di individuazione collettiva dei
problemi più urgenti e delle loro soluzioni. È evidente
che tutto questo presuppone una concezione di libertà dell'informazione
e del sapere che le attuali classi dirigenti - né politiche né
economiche - non favoriscono affatto, e anzi tentano di negare, vedendo
nel cittadino il puro terminale passivo di campagne di marketing tese
a fargli acquistare dei beni e dei servizi, e non un soggetto che ha
il diritto di gestire autonomamente la propria vita.
D: Quali soluzioni si sentirebbe di proporre per il problema
del digital divide, che si riscontra non soli tra i paesi industrializzati
e non, ma anche nelle fasce meno abbienti dei paesi tecnologicamente
avanzati?
R: Sicuramente non la ricetta demagogica “un
computer in ogni scuola” o “un computer in ogni capanna”
(a seconda dei contesti), anche perché spesso queste sedicenti
campagne di “alfabetizzazione informatica” servono solo
per sbarazzarsi di fondi di magazzino o computer obsoleti, e salvarsi
la coscienza a poco prezzo (parlo di governi e/o industrie). Il problema
dell'arretratezza tecnologica del terzo e quarto mondo è globale,
non è puramente tecnologico (e quindi non verrà risolto
agendo solo sul lato delle tecnologie), ma è economico, culturale
etc. E soprattutto dipende dal fatto che l'industria dei paesi sviluppati
ha organicamente bisogno di paesi sottosviluppati in cui decentrare
la produzione fruendo di manodopera a molto più basso costo,
non sindacalizzata etc. Con costi umani in quei paesi indicibili, è
vero; con conseguenze sulla stabilità mondiale nefaste anche
per i paesi sviluppati, è vero (l'11 Settembre insegna). Ma questo
è solo un aspetto della cecità del capitalismo, e del
diabolico doppio legame che esso stesso produce fra i popoli del mondo:
fa balenare un livello di benessere, di ricchezza e di consumi sfarzoso
(per le condizioni di vita delle popolazioni dei paesi sottosviluppati),
ma poi impedisce ai destinatari del proprio messaggio l'accesso a quei
beni e a quei consumi (basti pensare allo scandalo delle medicine AIDS
vendute a prezzi statunitensi nei paesi dell'Africa). Quindi non ci
potrà mai essere una soluzione del digital divide finché
la politica globale degli USA, del FMI, e anche del WTO, sarà
quella che è oggi. I movimenti mondiali contro la globalizzazione
capitalistica dovrebbero farsi carico anche di questo problema ed elaborare
proposte che vadano nel senso di un accesso alla tecnologia e alle comunicazioni
per gli abitanti del terzo e quarto mondo senza dover pagare un prezzo
ai monopoli statunitensi dell'informatica. Credo che in questo senso
sistemi operativi come Linux possano avere una grande funzione.