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D: Attualmente si assiste ad una netta contrapposizione tra
favorevoli e contrari alla Rete, da parte dei quali, rispettivamente,
viene beatificata o demonizzata. Come è possibile, a suo avviso,
favorire un avvicinamento alla Rete che superi tali estremismi?
R: Da un certo punto di vista la polarizzazione delle
posizioni tra favorevoli e contrari è inevitabile, e mi sembra
tra l'altro che gli argomenti (se non l'intensità della polemica)
stiano mutando rispetto anche solo a dieci o cinque anni fa. Mi sembra
anche che la presa di questi argomenti sul pubblico vari a seconda della
posizione sociale, della formazione culturale e dell'età dei
destinatari di questi messaggi. Ritengo, per esempio, che le posizioni
dei “contrari” alla rete abbiano ancora una certa influenza
solo tra la popolazione di età più elevata. Molti di coloro
che hanno più di cinquant'anni, almeno in Italia, innanzitutto
sono in genere poco informati sulle nuove tecnologie (se non con l'informazione,
spesso cattiva, che fanno giornali e televisione), poi hanno una formazione
culturale (specialmente nel nostro paese) che tende a non considerare
la tecnologia in genere come cultura, e da ultimo (last but not least)
incontrano delle effettive difficoltà nell'apprendimento dell'uso
del computer, anche a bassi livelli. Tutti fattori che rendono difficile,
presso queste fasce di età, contrastare le posizioni “apocalittiche”
che le tengono lontane dal computer e dalla rete. Per le generazioni
più giovani (e giovanissime), che apprendono più facilmente
e sono in genere più “entusiaste”, ci sarebbe semmai
da fare un lavoro nel senso opposto, correggendo e sfatando una serie
di miti faciloni diffusi dalla propaganda degli entusiasti (facilità
di trovare lavoro, di costruire ricchezze, e così via).
D: Secondo lei, è giustificato l'atteggiamento tecnofobo
di alcuni intellettuali? Perché si sentono ‘minacciati’
dalle nuove tecnologie?
R: Perché Platone si sentiva minacciato dalla
scrittura (che pure usava, come tutti gli “intellettuali”
della sua epoca)? Una reazione del genere si è sempre verificata,
anche di fronte a tecnologie comunicative non così “epocali”
come quelle digitali, seppur anch'esse innovative: per esempio il telefono,
la radio o la televisione. Molti intellettuali hanno l'impressione che
la nuova tecnologia comunicativa distrugga la cultura in quanto tale,
perché identificano la cultura con il mondo delle tecnologie
comunicative con cui si sono formati loro. Anche Platone faceva un errore
del genere quando criticava la scrittura (nel Fedro, per esempio): vedeva
con grande lucidità in che cosa la scrittura avrebbe alterato
il rapporto dell'uomo con la cultura e con la vita quotidiana - per
esempio riducendo l'importanza della memoria nell'apprendimento - ma
non riusciva a vedere come, sulla base di quel nuovo strumento comunicativo
ed espressivo, si sarebbe prodotta una trasformazione, e non una distruzione,
della cultura. Va detto che Platone era più giustificato degli
intellettuali tecnofobi contemporanei, perché viveva all'inizio
della rivoluzione alfabetica, e in un'epoca in cui i ritmi di sviluppo
delle tecniche (di ogni tipo) erano ancora molto lenti. Noi viviamo
a cinque secoli dalla rivoluzione gutenberghiana, che fu il coronamento
e l'apoteosi dell'egemonia della scrittura alfabetica nelle nostre società,
a tre secoli scarsi dal dispiegarsi della rivoluzione industriale, a
quasi cinquant'anni dal manifestarsi dell'ultima fase di quella rivoluzione,
che ha accelerato in maniera incomparabile col passato i ritmi dell'innovazione
tecnica. Abbiamo gli scritti di Mumford, di Innis, di McLuhan, una tradizione
di studi (recente quanto si vuole) di sociologia della comunicazione:
dovremmo quindi essere ormai più assuefatti, per così
dire, alle fenomenologie del mutamento. La questione a cui la ricerca
dovrebbe dedicarsi, a mio parere, anche al di là della cerchia
ristretta degli specialisti in teoria della comunicazione, è
invece se le tecnologie digitali rappresentino davvero o no un “superamento”
della scrittura come medium egemone e strutturante il brainframe dell'uomo
contemporaneo.
Detto questo, devo dire che gli intellettuali tecnofobi servono (a leggerli
cum grano salis) per segnalare e studiare alcuni pericoli delle nuove
tecnologie, che esistono e che di solito gli intellettuali tecnofili
(almeno i più entusiasti: un nome per tutti, Negroponte) sottovalutano
perché convinti (a torto, secondo me) che il dispiegarsi dell'uso
di queste tecnologie nella società riassorbirà automaticamente
tutte le deformazioni e le storture che le caratterizzano in questa
prima fase (per citare una delle più importanti, la confusione,
che un uso poco cosciente della rete può indurre, fra quantità
e qualità dell'informazione). Le posizioni tecnofobe vanno prese
sul serio: criticate, rovesciate certo, ma non va negato ciò
che in quelle posizioni rappresenta una comprensione del potenziale
innovativo delle tecnologie digitali. I tecnofobi vedono questa innovazione
come una catastrofe, ma almeno la registrano. Confesso che, più
che le posizioni di Postman o di Virilio, temo quelle di chi, come Maldonado,
per tenersi equidistante fra tecnofili e tecnofobi si adopera a cercare
di dimostrare che il digitale non è poi così innovativo
come si crede, e limita la “positività” dell'uso
delle nuove tecnologie agli ambiti in cui esse servono a far meglio
cose che si facevano anche prima (scrivere, disegnare). Anche Umberto
Eco a volte esprime convinzioni del genere. Ma, come l'importanza della
scrittura consistette nel fatto che rendeva possibili cose impossibili
con l'oralità, così l'importanza del digitale sta nel
fatto che rende possibili performance sensoriali e intellettuali impossibili
con la scrittura o con le tecnologie analogiche dell'immagine.