Ecco dunque perché Archeologie del virtuale. In primo luogo perché
le trasformazioni del modo di produrre e di consumare immaginario sono
state così veloci e travolgenti che le testimonianze anche solo
di dieci anni fa sembrano parlare una lingua diversa dalla nostra, richiedono
quasi una filologia aliena perché possano essere collegate, tra
loro e con i fenomeni dell’oggi, perché possano narrarci
la loro storia. In questo senso il termine “archeologia”
è qui usato sempre come metafora, ma in un modo più vicino
al suo significato corrente, che non in quello, molto più preciso,
che gli diede Michel Foucault nel suo libro del 1969. Eppure qualche
vicinanza alla foucaultiana Archeologia del sapere la si potrebbe trovare
anche nelle pagine che seguono. All’inizio di quel libro, Foucault
pone con chiarezza la questione della continuità e della discontinuità
nella ricerca storica, in particolare nella storia delle idee, per concludere
che non esiste un vero e proprio conflitto fra “struttura”
e “divenire”, perché la discontinuità “è
contemporaneamente oggetto e strumento della ricerca.” Quando
Foucault scrive che oggi “la storia tende all’archeologia”,
perché trasforma i documenti in monumenti (e su questa base propone
il suo “metodo archeologico” contrapposto alla tradizionale
“storia delle idee”), mi sembra che ciò vada letto
proprio come il riconoscimento che ricercare i punti di trasformazione
dell’immaginario implichi “concepire l’Altro all’interno
del tempo del nostro pensiero.” È quello che, a tratti,
e senza l’uso rigoroso delle categorie foucaultiane di “formazione
discorsiva” e “campo enunciativo”, il lettore troverà
nelle pagine che seguono. Nella rilettura (o riscrittura) dei romanzi
di Ballard e Gibson, del cinema di fantascienza ad effetti speciali,
delle embrionali teorie sul superamento della scrittura, non ho mai
tentato di inseguire il segreto di un’origine, ma solo di descrivere
un processo che si pone sempre ai confini fra oggetto di discorso e
pratiche della soggettività.
Ciò mi sembrava tanto più necessario in quanto l’oggetto
di questa “archeologia” è l’insieme delle pratiche
e dei discorsi che vanno oggi sotto il nome di “virtualità,”
pratiche e discorsi che più di altri, credo, abitano e percorrono
questa interzona fra soggetto e mondo. L’“era del virtuale”
sta già sviluppando i suoi effetti prima ancora che si possa
essere sicuri che essa sia davvero una nuova epoca, o che non sia la
prosecuzione più accentuata della modernità, e prima che
si conoscano con una certa precisione le sue caratteristiche. È
evidente, tuttavia, che l’esplodere dell’uso (spesso impreciso,
a volte scorretto) del termine “virtuale” in questi ultimi
anni abbia a che fare con una espansione del “possibile”
nella tarda modernità. “Il ‘fatto’ principale
del XX secolo è il concetto di possibiltà illimitata,”
notava Ballard già nel 1974, nella prefazione all’edizione
francese di Crash. Ma che differenza c’è tra “virtuale”
e “possibile”? Nella tradizione filosofica il virtuale non
si contrappone al reale - come fa il possibile - ma all’attuale.
Il possibile, secondo Deleuze (Differenza e ripetizione), è un
reale senza esistenza: potrebbe esistere, ma ancora non esiste, e forse
non esisterà mai. Il virtuale, invece, è un campo di possibilità,
che produce i suoi effetti anche prima di diventare attuale (nel linguaggio
comune, di “essere realizzato”). Scrive Deleuze in Conversazioni: