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Nota dell'autore
Nella storia dell’uomo non è mai stata così breve, in termini di possibilità e di tempo, la distanza tra le fantasticherie più ardite e la loro realizzazione nell’esperienza quotidiana. Parlo naturalmente dell’esperienza di un abitante di un paese sviluppato dal reddito anche medio-basso, perché al contrario la distanza tra i livelli di vita, e quindi le esperienze possibili a un campesino del Chiapas (così, per fare un esempio) e quelle riservate a un cittadino di New York, Berlino, Parigi o Milano, è oggi sicuramente molto maggiore della distanza che c’era tra un contadino cinese e un abitante di Atene o di Roma nel IV o nel I secolo a. C. Ma le forze unificanti della cosiddetta “globalizzazione” implicano che il nostro immaginario, quello occidentale, detti legge a livello mondiale, come la nostra economia. E l’immaginario, nel nuovo modo di produzione con cui il capitalismo ha riformato se stesso negli ultimi vent’anni, è diventato direttamente, al contrario che nel passato, una forza produttiva. Perciò la nostra capacità di realizzare fantasticherie influenza, in ultima analisi, anche la vita del contadino del Chiapas. Questo l’EZLN lo sa benissimo, ed è per questo che si muove come si muove, dalla selva Lacandona alle reti telematiche. Per questo, forse, oggi non è così ozioso - se mai lo è stato - indagare una sezione strategicamente decisiva dell’immaginario occidentale come quella del rapporto con le macchine. Questo libro non si propone un obiettivo così ambizioso; vuole solo presentare una rassegna e qualche considerazione collaterale su una figura forse bizzarra, ma - io credo - molto significativa, che nasce nell’ambito di questo rapporto: la figura dell’ibrido uomo-macchina. Perché, ancora una volta, quella che fino a trenta o quarant’anni fa era una figura puramente fantastica, oggi si avvia a essere sempre più, in qualche modo, un’esperienza quotidiana. Come ogni tecnologia sufficientemente sviluppata, secondo Arthur C. Clarke, è indistinguibile da una magia, così ogni metafora, nel mondo postfordista, sembra destinata a letteralizzarsi. Il primo terreno di questa letteralizzazione, come nel racconto di Kafka, è il nostro corpo. Perché l’“era dell’immateriale” non significa affatto la fine del corpo. Forse il corpo virtuale non ha sangue e carne, ma esso è solo un luogo di transito da un sangue e una carne a un altro sangue e a un’altra carne. Magari con qualche circuito in più. Quindi anche l’immaginario tecnologico si inscrive oggi, molto materialmente, nel nostro sistema nervoso: come aveva visto quasi quarant’anni fa, in ironica e quasi assoluta solitudine, James G. Ballard, e come è oggi esperienza quotidiana. E di questo tenta di parlare questo libro.