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Io sono uno che capisce lentamente, e scrive ancora più lentamente (e i miei editori ne sanno qualcosa). Perciò sono circa vent’anni che mi arrabatto intorno alla stessa costellazione di temi, cercando di capirla meglio e di sviscerarne nuove implicazioni. Nel 1985 pubblicai un libretto, con le edizioni Theoria, che aveva lo stesso titolo di questo. Volevo scrivere una grande storia degli automi, e mi ritrovai a parlare di qualcosa di cui, almeno in Italia, all’epoca non parlava quasi nessuno. Nello stesso anno (coincidenza che mi onora, anche se non significa nulla) usciva negli Usa il “Cyborg manifesto” di Donna Haraway, ma io lo seppi - e lo lessi - solo qualche anno più tardi, grazie a Liana Borghi. Intanto era uscito Neuromancer, poi era scoppiato il cyberpunk, avevo conosciuto Decoder, mi ero messo a frequentare le BBS e, dopo poco, a studiare le realtà virtuali. Tutto questo, va da sé, prima di Internet. Ma di ciò non vi poteva essere traccia in quel libretto, che pure continuava a circolare, ed ebbe anche una seconda edizione, nel 1991, sempre con il vecchio testo, restando in catalogo in tutto dieci anni. A me non sarebbe mai venuto in mente di rimetterci le mani, ma quando Raf Valvola e Gomma me lo proposero, l’idea mi piacque. Avevo continuato a scrivere, nel frattempo, perché è praticamente l’unica cosa che so fare, ma forse era venuto il momento di riprendere quel libretto e vedere come lo si potesse usare, a quindici anni di distanza. Io non so se fosse davvero, come alcuni mi hanno detto in questi anni, un libro che “anticipava i tempi”. Fatto sta che, rileggendolo, non mi sembrava dicesse enormi cazzate. Qualche imprecisione c’era, e l’ho corretta, qualche tema l’ho riformulato in modo un po’ diverso (soprattutto nel capitolo 5, perché non si poteva far finta che quindici anni non fossero passati, in un campo come l’Intelligenza Artificiale); però abbiamo pensato, la ShaKe e io, di riproporre sostanzialmente il testo con la stessa struttura del 1985, perché la base, tutto sommato, era quella. Questa è perciò la prima parte del libro (“L’alba dell’ibrido moderno”). La seconda, “Il cyborg postfordista”, cerca invece di sintetizzare quello che è successo nel frattempo su questo tema, nel mondo e nella mia riflessione. E contiene perciò dei punti di vista e delle proposte di lettura inediti - almeno per me - che propongo al lettore. Ecco come Il cyborg torna oggi a circolare nella collettività, da cui in fondo è nato. Mi piacerebbe che ancora una volta i suoi lettori, come hanno fatto quelli precedenti, lo utilizzassero per spingerlo avanti, o di lato, per imboccare sentieri di lettura anche diversi dai miei, per torcerlo a significati o usi non necessariamente compresi nelle mie intenzioni. Perché non so se sono mai riuscito a esprimerlo compiutamente da qualche parte, ma per me le idee sono sempre state - e continuano a essere - strumenti di lotta collettivi, che nascono da un processo sociale e a cui qualche individuo, più portato di altri a questo lavoro, dà una forma provvisoria che poi, entrando in circolo, crea altri percorsi mentali e altri circuiti cognitivi e pratici. Ed è per questo, per chiudere, che sono particolarmente contento che questa nuova edizione del Cyborg esca con la Shake: anche se non era nato qui, in qualche modo quel libro è tornato a casa.