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Naomi Klein contro il marchio del potere |
Naomi Klein contro il marchio del potere
Era la fine di marzo del 1998. Alla Greenbriar High School di Evans, in Georgia, era arrivato il gran giorno: Coke Day. Tutti gli studenti indossavano magliette della Coca-Cola per partecipare a un concorso sulla migliore campagna promozionale a favore del gigante delle bollicine: in palio c'erano 500 dollari. Ed ecco che Mike Cameron, un diciannovenne piuttosto anticonformista, si presenta a scuola con addosso la maglietta della Pepsi. Risate e pacche sulle spalle? Niente di tutto questo: la preside, Gloria Hamilton, lo sospende seduta stante. Potenza del marchio.
Allora Naomi Klein, giornalista canadese ormai famosa nel mondo, aveva 28 anni, era una perfetta sconosciuta e stava scrivendo il suo primo libro, "No Logo", diventato in seguito la Bibbia del popolo di Seattle (appena uscito in Italia da Baldini&Castoldi, 454 pagine, 32.000 lire). Inserì la storia di Mike Cameron nel quarto capitolo, alla voce "Il branding dell'istruzione", per far capire come ormai il potere delle grandi corporation avesse travolto ogni resistenza, invaso ogni interstizio della vita sociale americana.
E noi europei, Naomi, come ci vede? Siamo messi altrettanto male?
«Quando racconto la storia di Cameron a un uditorio europeo, di solito
la gente ride con una vaga aria di superiorità, come a dire: "Qui
non potrebbe mai succedere". E' la stessa arietta di superiorità
che prendiamo noi quando ci riferiscono dei successi elettorali di Berlusconi
in Italia. Ma a ben vedere si tratta di due facce della stessa medaglia. Una
esemplifica la penetrazione del marketing nel mondo della scuola, che dovrebbe
esserne schermato, l'altra nel mondo della politica. Non ci vedo una grande
differenza».
Eppure la reazione europea contro la mercificazione di ogni aspetto della vita
a prima vista sembrerebbe più energica. Guardiamo la guerra francese
contro i McDonald's o quella britannica contro gli organismi transgenici...
«E' difficile fare paragoni. Da canadese posso affermare che una certa
distanza dal mondo delle grandi corporation, come ce l'abbiamo noi rispetto
agli Stati Uniti e come ce l'ha anche l'Europa, fa bene. D'altra parte spesso
ho avuto la sensazione che in Europa ci si opponga all'invasione dei prodotti
di massa più per sciovinismo che per autentica comprensione del pericolo.
Non a caso il movimento contro la globalizzazione è partito da Seattle.
E una delle prime aziende a lanciare campagne pubblicitarie basate su immagini
di lifestyle piuttosto che sul prodotto è proprio un brand italiano:
Benetton».
Che cosa suggerisce per combattere contro lo strapotere dei marchi?
«Niente di eclatante: alla base di tutto c'è l'allargamento della
consapevolezza. E' importante che la gente capisca il gioco delle grandi corporation:
con la fine del prodotto, diventato solo una parentesi secondaria nella catena
commerciale, relegato all'elaborazione di terzi in stabilimenti sperduti nei
Paesi in via di sviluppo, è nato il nuovo mondo del branding, dove la
produzione più importante diventa quella dell'immagine. Ma le campagne
di pressione contro le multinazionali non si possono basare sui boicottaggi,
perché non si può pretendere da un operaio a salario minimo che
compri solo cibi biologici carissimi, o dalla ragazzina di periferia che faccia
chilometri per una maglietta pur di non entrare nel supermercato dietro casa».
Insomma, attenzione agli atteggiamenti alternativi-chic?
«Esattamente. Anche il terzomondismo-chic va preso con le pinze: bisogna
stare attenti a non imporre la chiusura di fabbriche dove gli operai vengono
sfruttati, ma piuttosto puntare a migliorare le loro condizioni di lavoro, favorendo
la nascita di organizzazioni sindacali anche in zone dove per questo si rischia
la galera. Altrimenti, chiusa la fabbrica, quelli che ci lavoravano staranno
peggio di prima».
Lei di questi argomenti se ne intende, visti i precedenti in famiglia...
«Sì, mio nonno ha organizzato il primo sciopero alla Walt Disney,
mio padre e mia madre erano dei radicali di sinistra, tanto che da ragazzina
li contestavo con il mio consumismo. A 15 anni ero schiava dei brand, ma a poco
a poco mi sono accorta che avevo torto. Certo, con i miei figli non sarei così
severa come sono stati loro con me: si rischia di suscitare reazioni contrarie».