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Azione globale |
Come portavoce ufficiosa del movimento noglobal, Naomi Klein vuole che si smetta di chiamarlo noglobal: "L'ironia dell'etichetta imposta dai mass media è che il movimento sta facendo diventare la globalizzazione una realtà concreta, forse anche più di quanto fanno le multinazionali". Gli attivisti di tutto il mondo stanno costruendo una rete di contatti globale: "Dai senza terra in Brasile agli insegnanti in Argentina, dai lavoratori dei fast food in Italia agli immigrati che raccolgono i pomodori in Florida".
A dire il vero, a Naomi Klein non piace neanche l'idea di essere definita una portavoce. "Questo movimento non ha leader nel senso tradizionale, ma solo persone decise a imparare e a condividere". Comunque sia, Naomi Klein è tra gli interpreti più lucidi della storia e delle motivazioni del movimento.
Per il movimento sono tempi duri.
Tu parli di criminalizzazione del dissenso dovuta all'imperativo della guerra
al terrorismo. Ma d'altra parte è anche un buon momento per la lotta
alle multinazionali, visto che l'opinione pubblica si è schierata contro
l'avidità della classe dirigente. Dunque: sono tempi felici, infelici,
o entrambe le cose?
Direi che stiamo vincendo la battaglia delle idee ma stiamo perdendo la guerra. Certamente molte tesi che appartenevano solo al movimento oggi stanno diventando opinioni condivise da tutti.
Per esempio quelle sulla deregolamentazione?
Sulla deregolamentazione e sull'autoregolamentazione delle aziende. È stato evidente al vertice della terra di Johannesburg. Negli ultimi dieci anni l'idea di cambiamento politico che circolava negli ambienti di governo e delle Nazioni Unite era: niente bastone, solo carota. Fornire incentivi, fare pubbliche relazioni e dare premi di buona condotta, ma senza cercare di regolamentare i comportamenti peggiori. Questo presuppone una dose straordinaria di credulità da parte dell'opinione pubblica. E sappiamo che ce n'è stata in abbondanza nell'ultimo decennio. Ma decisamente la situazione sta cambiando.
Detto ciò, anche se oggi l'idea che le imprese si possano dare delle regole da sole è un'assurdità, la presa di coscienza non si sta traducendo in regole create nell'interesse dei cittadini e nella definizione di standard vincolanti. A Johannesburg si è continuato a parlare solo di "obiettivi volontari" e di "collaborazione". Le uniche regole stabilite sono quelle che proteggono gli azionisti, nessuna serve a proteggere i lavoratori o l'ambiente. Dunque stiamo vincendo la battaglia delle idee ma stiamo perdendo la guerra, forse perché non abbiamo saputo riflettere seriamente sul potere e su come avviene il cambiamento politico.
Per molti di noi, di sinistra, la questione è ancora trovare ragioni vincenti, mettere ordine nei fatti, mostrare l'evidenza dei torti, o semplicemente verificare le prove. E forse non pensiamo al fatto che non cambierà niente finché non cominceremo davvero a organizzare contropoteri in grado di bilanciare l'impunità diffusa nelle grandi aziende o nello stato.
Modelli forti
Da dove bisogna cominciare? Con quali modelli?
Esempi di movimenti forti ce ne sono. Quelli che stanno avendo gli effetti più importanti sul potere sono in America Latina. Negli ultimi sei mesi hanno cominciato a parlarne anche il New York Times e il Washington Post: in America Latina c'è una fortissima reazione contro il neoliberismo. Spesso se ne parla in modo superficiale, come di un aumento dell'antiamericanismo. Ma in realtà si tratta di una sfiducia totale nelle politiche neoliberiste, dovuta a ciò che hanno prodotto.
L'Argentina è l'esempio migliore. Per tutti gli anni novanta il paese è stato un allievo modello, con una forte crescita economica ed enormi investimenti privati. Ma quello che non si è detto è che dietro queste belle storie le disparità aumentavano. Si facevano soldi con privatizzazioni che comportavano licenziamenti di massa. Era un falso boom, come gli altri falsi boom degli anni novanta, la new economy e il caso Enron.
L'America Latina ha risposto
con modelli organizzativi nuovi e interessanti, capaci di contrastare gli effetti
di queste politiche economiche, ma senza ricadere nell'abusata retorica marxista.
Non si tratta di dire "lavoratori di tutto il mondo unitevi": che
senso ha quando la disoccupazione è al 40 per cento e un'intera generazione
di persone non ha mai avuto un lavoro o un contratto?
Dove i cittadini ragionano in base al nuovo contesto, senza usare vecchi contenuti per una vecchia struttura, i contropoteri sono interessanti ed entusiasmanti. In Uruguay, Paraguay, Ecuador e Bolivia intere comunità, dai nonni ai bambini, sono impegnate nelle campagne che hanno fermato le privatizzazioni. Ecco cosa c'è di diverso oggi. Nel nord del mondo abbiamo molto da imparare da questa idea di organizzazione, di sindacalismo sociale.
Qual è l'esempio più
riuscito?
Negli ultimi sei mesi ci sono stati movimenti vincenti per bloccare le privatizzazioni in tutta l'America Latina. Hanno cominciato in Bolivia quando hanno cacciato la Betchel. Era il 2000. Ma la notizia di questo successo si è diffusa lentamente.
Negli Stati Uniti è arrivata dopo
un secolo.
Anche in America Latina: è stata come isolata. Negli ultimi due anni
il movimento di movimenti ha semplicemente diffuso storie di successi. Siamo
isolati dai nostri stessi successi. E allora siamo più propensi a credere
che non esista nessuna narrazione alternativa. Ma il movimento di resistenza
in Argentina, gli esperimenti di democrazia partecipativa in Brasile e perfino
la resistenza di Chávez in Venezuela hanno dato coraggio ai cittadini.
Storicamente la sinistra ha commesso
l'errore di scegliere un certo settore della popolazione come una sorta di avanguardia,
tenendo separati i lavoratori, privandoli delle loro radici, allontanandoli
dalle loro famiglie e comunità dicendo: "Queste sono le persone
che guideranno la rivoluzione e ci porteranno al cambiamento politico".
In Argentina i piqueteros hanno formato dei sindacati di disoccupati. Non potevano
fermare le fabbriche perché erano già stati licenziati, così
hanno occupato le strade dove si trasportavano le merci. Per settimane e mesi
di fila, intere famiglie hanno trasformato le strade in baraccopoli ambulanti.
È stato il loro modo d'organizzarsi a guidare l'esplosione popolare del
20 dicembre scorso, quando hanno fatto cadere il governo argentino e in due
settimane hanno visto passare cinque presidenti. Dopodiché sono praticamente
scomparsi dai giornali e nessuno sa davvero cosa succede oggi in Argentina.
Ma è stata un'esplosione di democrazia partecipativa: c'è stato
di tutto, dalle fabbriche occupate agli ospedali chiusi che sono stati riaperti
dai medici licenziati. È un contropotere incredibile, alternativo a uno
stato che è fallito.
Opportunità mancate
Questa versione della storia, questa narrazione, non è certo quello che
sentiamo raccontare nel ricco nord. Abbiamo storie simili?
In Canada c'è un rinnovato interesse per la politica locale. Negli ultimi anni il peso maggiore della globalizzazione economica, si tratti di tagli al welfare, all'edilizia popolare, all'istruzione o all'assistenza sanitaria, è finito sulle città piccole e grandi. Per qualche anno ci sono state amministrazioni comunali depoliticizzate e pronte ad attuare questi tagli. Oggi mi sembra che nelle città stia emergendo un atteggiamento molto più conflittuale. Ci sono molti giovani che per buoni motivi non credono nella politica dei partiti, ma cominciano a interessarsi alla politica locale con l'idea che se puoi controllare l'amministrazione scolastica, se puoi controllare il consiglio comunale, allora puoi trasformare la città in un luogo di resistenza, puoi opporti ai tagli di spesa.
Negli Stati Uniti c'è
un esempio di attivisti che hanno saputo usare il tracollo di aziende come Enron
e WorldCom per produrre dei cambiamenti?
Ci sono un mucchio di iniziative positive, ma la mia impressione (e lo dico come qualcuno che non ha trascorso molto tempo negli Stati Uniti) è che ci sia troppa frammentazione. Dobbiamo ammettere di aver perso molte opportunità negli ultimi mesi, dopo il fallimento della Enron e la crisi di credibilità delle imprese, e penso che ci sia ancora troppa esitazione. Dopo l'11 settembre teniamo tutto dentro, e non siamo abbastanza coraggiosi, proprio ora che l'opinione pubblica condivide molte posizioni sostenute fino a poco tempo fa solo da qualche sito web contro le multinazionali.
Cosa dovrebbe cambiare?
Dovremmo essere molto più arrabbiati. C'è stata troppa moderazione nella nostra risposta al furto generalizzato e alla politica mafiosa.
Cambiamenti concreti
Cosa dici a chi è di nuovo in fermento – per la guerra al terrorismo
o la crisi delle multinazionali – ma non sa come impegnarsi? Ai cittadini
che non vanno alle manifestazioni perché gli sembrano stereotipate e
che non votano perché gli sembra inutile?
Negli ultimi anni c'è stata una
crescita esponenziale dell'impegno politico, è emersa una nuova generazione
di militanti. Centinaia di migliaia di persone hanno partecipato alle manifestazioni.
La paralisi di cui parli è legata in parte all'essere schiacciati dall'ampiezza
del problema.
Non bastano una manifestazione e un boicottaggio. La strada per colmare i divari
sociali passa attraverso l'azione diretta. Dobbiamo far assaggiare ai cittadini
un altro modo di essere che spezzi la passività; dobbiamo chiedere un
cambiamento e realizzarlo concretamente. Per esempio ridare energia elettrica
al Sudafrica, usare il proprio corpo per fermare uno sfratto in Canada, occupare
la terra. È questo che ha galvanizzato persone di tutto il mondo.
L'attivismo locale spesso non è considerato abbastanza serio. Io credo che sia una forma di azione diretta autenticamente di base. Non un'azione simbolica all'esterno di un summit, in cui decidi di farti arrestare e di scontrarti con la polizia, ma un'azione diretta che avrà un effetto reale, si tratti di dare un tetto a qualcuno o fermare un'espulsione, dare acqua o elettricità o terra. E questi movimenti di base sono sempre più collegati in una rete globale. A Seattle c'erano collegamenti tra organizzazioni non governative, studenti, anarchici; ma mancavano proprio tra le persone più direttamente colpite da queste politiche. Per ovvi motivi, chi ha difficoltà d'accesso alle tecnologie e ha l'urgenza di lottare per un tetto non sarà necessariamente disposto a compiere azioni di portata internazionale.
Si è sviluppata così una tensione tra attivismo globale e locale. Le proteste globali stavano diventando sempre più astratte. Era sempre più difficile spiegarne i contenuti. E cresceva il risentimento tra le persone di tutto il mondo che subivano sul campo gli effetti di queste politiche e contestavano tutte le risorse investite per saltellare ai vari summit, mobilitare i manifestanti, pagare gli autobus e anche le spese legali. Ma penso che attraverso momenti di scambio come il forum sociale mondiale o le campagne di Via Campesina cominciamo a vedere un cambiamento.
L'ho avvertito molto chiaramente a Johannesburg. Oltre ai vari incontri tra le ong ci sono state varie iniziative dedicate ai senza terra. È stata la prima volta che ho visto una cosa del genere: il Movimento dei lavoratori senza terra e la Via Campesina da El Salvador, dall'India, da ogni parte dell'Africa, tutti impegnati a scambiarsi racconti su riforme agrarie e rivendicazioni di terre, a discutere all'infinito di Mugabe e così via. Questo probabilmente è uno degli sviluppi più incoraggianti.
Alternative realizzabili
Nel tuo nuovo libro, Fences and windows, dici di aver cercato di documentare
una fase della storia di questo movimento di movimenti, senza prevedere cosa
potrà succedere in seguito. Ma… cosa potrà succedere? Nascerà
una rete globale a partire da questi movimenti locali?
Penso che in gran parte sarà così. Siamo riusciti a definire che cosa c'è davanti a noi: una doppia crisi. Da una parte c'è la crisi economica del neoliberismo. Il suo modello sta fallendo in tutto il mondo. La promessa della globalizzazione è di portare i paesi sottosviluppati nell'economia globale. La realizzazione di queste politiche ha aggravato le diseguaglianze in tutto il mondo. Ha prodotto una serie di crisi nell'economia delle tigri asiatiche, in Europa orientale, in America Latina. L'unico successo che economisti come Jeffrey Sachs possono ancora indicare è la Cina. E non vedono l'ironia del fatto che si tratta di un paese comunista!
E protezionista…
Assolutamente, estremamente interventista: lo sviluppo della Cina non è
in alcun modo il risultato di una formula strettamente neoliberista. Nei paesi
ricchi il modello neoliberista ha creato enorme ricchezza per un'élite,
mentre per la maggioranza della popolazione ha comportato la stagnazione o un
peggioramento della situazione. Perciò non c'è nulla di cui vantarsi.
Siamo riusciti a individuare il problema, ma c'è voluto un bel po' di
tempo. Nella traiettoria triennale che racconto nel libro si passa dalla critica
di alcune mele marce alla critica delle privatizzazioni, poi alla critica del
neoliberismo come viene applicato, fino a capire meglio che è una fase
del capitalismo. In buona parte è questo l'obiettivo delle proteste:
stabilire un nesso tra casi apparentemente isolati per denunciare un sistema
globale.
E il rovescio della medaglia delle politiche
economiche neoliberiste è la crisi globale delle democrazie rappresentative.
Ecco perché i cittadini di tutto il mondo hanno cominciato a bersagliare
le grandi aziende: perché capivano di non essere più ascoltati
dai politici che avevano eletto.
Se prendiamo atto di queste due crisi gemelle, allora troveremo delle alternative.
Se facciamo politica locale non è solo perché abbiamo rinunciato
alla politica statale, ma anche per timore del potere centralizzato. È
il timore di ciò che succede ogni volta che il potere è centralizzato,
si tratti di un governo statalista socialista, di un governo neoliberista o
di un regime fondamentalista religioso.
Ci siamo limitati a indicare ciò contro cui ci battiamo perché la maggior parte di noi sente di non avere la possibilità di andare oltre. Non siamo abbastanza forti per agire. C'è l'idea che si debba elaborare un piano di azione e poi realizzarlo, un po' come succede con i piani aziendali. Ma penso che i cambiamenti politici avvengano attraverso grandi sconvolgimenti. Ci devono essere le condizioni giuste per arrivare a una vera innovazione; cioè, non cominceremo a costruire realmente delle alternative finché non sapremo e potremo credere davvero di essere in grado di realizzarle. Altrimenti è una masturbazione, no?
È per questo che sono ossessionata
dall'Argentina, ossessionata sul serio. Stiamo facendo un documentario sull'Argentina,
ci trasferiremo lì per sei mesi, da novembre ad aprile. L'idea è
vedere come le due crisi gemelle abbiano raggiunto il loro apice in Argentina.
Lo studente modello del Fondo monetario internazionale va completamente allo
sbando, un fallimento oltre ogni immaginazione. Dopodiché arriva un rigetto
della classe politica, superiore, credo, a qualsiasi altra cosa mai vista nella
storia. È talmente intenso, che cambia l'intera narrazione della politica.
Lo slogan che si sente ripetere in tutte le strade dell'Argentina è:
"Que se vayan todos!". Via tutti! È diretto a ogni livello
di governo, alle grandi aziende, alle aziende elettriche privatizzate, alla
corte suprema, a tutto ciò che rappresenta una qualche forma di potere
istituzionalizzato. Una perdita di fiducia totale nella delega politica.
Credo che per l'ampiezza di questa crisi i movimenti di base – i piqueteros, le assemblee di quartiere – produrranno una specie di modello per il cambiamento attraverso l'impegno in una campagna elettorale. Non dico che vinceranno le elezioni e che il paese sarà governato dalle assemblee di quartiere, anche se sarebbe bellissimo. Ma il livello di mobilitazione in Argentina è qualcosa che non ho mai visto. Farà avanzare il dibattito di anni luce. E disegnerà un altro sistema possibile per il resto del mondo.