Hacktivism. La libertà nelle maglie della rete
di A. Di Corinto e T.Tozzi |
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2.3.2.Era
dell’Accesso? |
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Jeremy Rifkin,
economista americano, autore di libri come La fine del lavoro e il
più recente L’era dell’accesso, non condivide l’idea di chi considera
Internet un mezzo che può contribuire a riavvicinare i paesi più poveri
ai paesi più avanzati: «Quando si parla della Grande Rete, del commercio
elettronico, bisogna sempre ricordare – sottolinea Rifkin – che il
62 per cento della popolazione mondiale non ha mai fatto una telefonata.
E che il 40 per cento non ha ancora la possibilità di utilizzare l’energia
elettrica». Tuttavia,
a suo parere, le nuove tecnologie hanno modificato fortemente il sistema
economico inaugurando l’era dell’accesso, inteso non solo come accesso
alla rete di relazioni del cyberspazio, ma anche come un sistema di
mercato, dove relazioni e scambi si fondono e la vita commerciale
è organizzata in modo completamente diverso. In primo ruolo
per la minor rilevanza, nelle attività economiche, dell’aspetto geografico
e per la nuova centralità delle esperienze e delle relazioni. Il fatto
nuovo secondo Rifkin è «la transizione dal mercato alle reti», che
garantiscono l’accesso al consumo di un bene, senza che questo coincida
con il suo possesso. Infine, l’attuale
modo di produzione della ricchezza fa leva sulle diversità culturali
e gli stili di vita, trasformati tuttavia in attività a pagamento.
Non si vende più una merce, ma l’accesso a un’esperienza dietro il
pagamento di una tariffa. In questo
sistema, la proprietà dei mezzi di produzione perde di peso, perciò
nella società cybernetica, lo spartiacque non è più il possesso ma
l’accesso. I nuovi ricchi – i privilegiati – sono coloro che possono
accedere alla Grande Rete, tutti gli altri sono tagliati fuori, espropriati
del presente e del futuro. Nella new economy, non è più importante
distinguere tra chi è proprietario di qualcosa e chi non possiede
nulla. Il vero divario è tra chi può utilizzare le nuove tecnologie,
tra chi ha l’accesso al cyberspazio, e chi non ce l’ha. Di conseguenza,
in una situazione di questo tipo il divario tra i paesi ricchi e quelli
poveri diventa sempre più grande, dando il via a un isolamento sempre
maggiore. In questo
nuovo «capitalismo culturale» il vantaggio competitivo è dato dal
«capitale intellettuale», cioè da una spiccata capacità nella comunicazione.
L’attività produttiva diretta è delegata a un ramificato sistema di
appalti che conserva elementi preindustriali di produzione e di organizzazione
e spesso tutte le rigidità della società fordista. Se il lavoro manuale
e lo sfruttamento non scompaiono è altrettanto vero che la fonte della
ricchezza risiede sempre più nelle idee e nel renderle produttive,
ma per far questo è necessario creare comunità. La concentrazione
del sapere è un rischio del «capitalismo culturale». E non riguarda
solo il monopolio che hanno alcune imprese sulle biotecnologie o quello
di Bill Gates nel software. È possibile
allora un nuovo contratto sociale che permetta all’enorme massa degli
esclusi di poter «accedere»? Conoscenza
e Mercato Se questa
situazione già prelude a nuovi conflitti, altri ne emergono per il
controllo dei nuovi territori digitali, delle risorse della rete e
dei settori economici ad esse collegati. La rete è
infatti un potente strumento per produrre, distribuire e vendere merci
e servizi di tipo nuovo. E se non si può dire che la rete rappresenti
una nuova tecnologia o un nuovo media poiché assomma tecnologie preesistenti,
integrate in un lungo processo evolutivo, è tuttavia possibile dire
che l’economia che essa genera è di tipo nuovo. È un’economia della
conoscenza. La conoscenza
reticolare è un fattore economico e il suo valore è un valore di connessione:
pian piano che la rete cresce, aumentano le informazioni in circolazione,
aumentano le conoscenze e le relazioni. È questa la nuova economia.
Poiché la conoscenza non è un bene scarso è possibile produrre valore
a partire dalla sua costante innovazione. Questa innovazione si genera
in complesse filiere sociali entro cui operano gli individui. I processi
di terziarizzazione dell’economia e la smaterializzazione delle merci
riconfigura il rapporto fra impresa e individuo. L’individuo è al
centro della nuova produzione di merci nel senso di Rifkin. Secondo Rees
Mogg, con la rete l’individuo potrà sottrarsi al controllo dello stato
e vendere prodotti e servizi liberamente sul mercato globale dando
luogo a un «friction free capitalism». Se il valore
di connessione è creato a partire dalla socialità e dalla cooperazione
degli utilizzatori della rete, esso dipende da una sfera di relazioni
sociali. È per questo che si dice che il modello open source è economicamente
più efficiente del modello basato sulla proprietà del sapere. Un prodotto
open source, infatti, è tale che l’utente può manipolarlo, appropriarsene
e scambiarlo. Nel passaggio da un utente all’altro esso acquista valore
secondo criteri diversi da quelli delle merci deperibili e scarse.
La circolazione di questa merce preziosa dipende dai suoi canali:
infrastrutture, server, sistemi operativi, browser e software. Le
differenze nell’accesso a questi strumenti si traducono nella differenza
di accesso alla conoscenza. Inoltre questi mezzi influenzano il comportamento
degli utenti, perché gli strumenti software sono essi stessi dei modelli
cognitivi e relazionali. Per questo
si cerca di imporre degli standard, ambienti cognitivi composti di
linguaggi e procedure, cosa possibile solo se l’informazione circola
e viene copiata. Una volta imposto lo standard è possibile guadagnare
non solo direttamente dal suo acquisto/utilizzo, ma è possibile farlo
anche a partire dalla vendita di servizi supplementari, offrendo non
solo manuali ma attenzione, assistenza e interazione comunicativa. La circolazione
di queste informazioni prelude alla costruzione di comunità produttive,
come dice Rifkin. Le aziende hanno capito che i mercati digitali sono
creati dalle comunità. Le comunità sono composte da soggetti che sono produttori e consumatori dei beni relazionali
che la nuova economia sforna. Questi prodotti creano le economie del
desiderio che sfruttano la socialità per creare merci immateriali.
Gli hacktivisti
e l’accesso Il divario
digitale che divide gli info-ricchi dagli info-poveri sta ridisegnando
la mappa del pianeta secondo una linea di frattura dove l’ineguale
accesso alle tecnologie determina di nuove disuguaglianze sociali:
l’impossibilità di accedere alle opportunità offerte dalla convergenza
dei mezzi di comunicazione diventa fonte di nuove povertà. Alle numerose
iniziative di discussione e alle diverse ipotesi di intervento per
contrastare le povertà digitali – come la Ict Task Force chiesta da
Kofi Annan e la Dot Force, cioè la Digital Opportunity task Force
proposta al G8 di Okinawa – non hanno finora corrisposto azioni concrete.
I motivi sono molteplici. Se nel mondo
occidentale il divario interno può essere efficacemente aggredito
da adeguate politiche nazionali, ad esempio attraverso l’adozione
di software libero nelle scuole e nella pubblica amministrazione (vedi
la proposta del prof. R.Meo) 27 e con
il riciclo di vecchi computer che con il free software possono dare
le stesse prestazioni degli ultimi modelli commerciali, a livello
mondiale permane il problema degli standard nazionali da adottare,
ancora subordinati a una logica commerciale per quanto riguarda la
scelta dell’hardware e del software. Rimane il fatto che nei paesi
in via di sviluppo che si dice potrebbero giovarsi dell’innovazione
tecnologica, mancano luce e acqua e non solo le infrastrutture di
comunicazione. I problemi
però non finiscono qui, in quanto spesso l’ineguale accesso alle nuove
tecnologie di comunicazione e segnatamente a Internet – che assomma
il telefono, la radio la televisione e la carta stampata – dipende
da scelte politiche di stati sovrani. È il caso della Cina, dell’Iran,
di Cuba e di molti altri paesi (vedi www.rsf.org.). Un problema di
non facile soluzione in quanto questi stessi paesi considerano il
controllo della rete una questione di sicurezza nazionale e per questo
filtrano o bloccano ai cancelli Internet dei loro stati le informazioni
e i siti indesiderati perché destabilizzano la loro cultura e il loro
modo di vivere.
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