Il
termine entropia viene dall'unione di "energia" e la parola greca
"tropos" che significa trasformazione, evoluzione. Un nuovo termine
potrebbe essere "cotropia" per intendere un'evoluzione cooperativa.
Il
termine lifeware vuole rappresentare l'elemento di 'consapevolezza' e libero
arbitrio che non è presente nel software e nell'hardware.
Il
termine coevoluzione implica un cambiamento o evoluzione negli enti in causa,
determinato reciprocamente in modo attivo da entrambe le parti. Non vi è quindi
semplicemente un 'agire simultaneo' tra due o più enti, ma vi è nel termine
'coevoluzione' l'implicita condizione che tale agire provochi cambiamenti
evolutivi nell'altra parte.
Il
secondo termine, mutuale, deriva dalla biologia e viene usato per definire quei
sistemi specifici in cui due specie diverse interagiscono tra loro in modo tale
da determinare una coevoluzione reciproca che fornisce ad entrambe benefici.
In
particolare questo aspetto (che sarebbe dovuto essere interpretato come
'implicito' nel termine interattività) è quasi sempre stato trascurato per
favorire e garantire benefici esclusivi a una determinata classe economica o
politica, limitandosi a operare una forma di trasmissione ‘verticale’ di
segnali informativi invece di un modello orizzontale di 'comunicazione'
collettiva.
Premessa
Nel
‘900 si è sviluppata la consapevolezza che la produzione di oggetti, idee o
eventi, anche quando siano un atto individuale, sono comunque:
-
una rielaborazione del patrimonio collettivo umano (un passo evolutivo)
-
artefatti dipendenti dalla struttura del contesto in cui sono prodotti
Dovendo
sintetizzare in modo generico, i recenti sviluppi della biologia evolutiva,
forti delle scoperte negli ambiti disciplinari più svariati, sembrerebbero
indicare una inseparabilità dell’artefatto dallo schema di relazioni entro cui
si sviluppa.
La
direzione dell’arte del ‘900 ci porta alle soglie del 2000 in uno stato delle
cose per cui l’opera (oggetto, idea o evento) non può essere più isolata in un
artefatto simbolico o metaforico, ma ‘vive’ nella prassi coevolutiva che lega
inscindibilmente soggetti, oggetti, schemi e comportamenti in zone
auto-organizzate e autogestite che emergono spontaneamente.
Si
scopre che la singola cellula è proprietaria di un sistema neurale proprio
(vedi le ricerche nel campo delle nanotecnologie di S. Hameroff in “Ombre della
mente” di R. Penrose, 1994) e di come allo stesso tempo la cellule (eucariota)
sia il risultato evolutivo di una simbiosi tra organismi differenti (vedi
“Microcosmo” di L. Margulis, 1986).
Come
nelle recenti interfacce neurali l’immagine passa da simbolo a modello di un
comportamento (vedi D. Parisi), allo stesso modo gli schemi di coevoluzione
mutuale sostituiscono le carenti e arrugginite potenzialità ‘comunicative’ di
un sistema dell’arte basato sull’oggetto o evento metaforico.
Inoltre
emerge un nuovo conflitto.
Da
una parte l’apparato economico e industriale che spaccia nelle nuove tecnologie
(in particolare in quelle in cui il confine tra la macchina e l’organico tende
a svanire) un’ipotetica capacità di possedere (o essere tramite di) una
coscienza consapevole (fallimento già verificato nelle ricerche sulla
‘intelligenza artificiale’ e che quelle sulla ‘vita artificiale’ tengono
prudentemente a distanza dalle proprie finalità di ricerca). Un’ipotesi che
crea uno stato psicologico di impotenza passiva di fronte a un nuovo
ipoteticamente in grado di creare rimozioni e sostituzioni meccaniche della
coscienza individuale.
Dall’altra
la rivendicazione della propria autonomia individuale, del sostenere il diritto
a (e contemporaneamente la consapevolezza della propria forza di) operare
scelte individuali per restare (coevolvendovi mutualmente, ovvero garantendo il
beneficio proprio e altrui) all’interno dello schema o di sottrarsene. La
consapevolezza che innesti biotecnologici o culturali sono strumenti più deboli
(e comunque in grado di essere gestiti dal) del libero arbitrio individuale.
La
prima parte usa le tecnologie industriali insieme a quelle culturali per
costruire scenari sociali in cui l’individuo assiste in contemplazione
estatica, ma passiva, all’emergere del superorganismo e insieme ad esso di
feticci, stereotipi e artefatti di super-individui per lui alieni ed alienanti.
Al
contrario la seconda pratica e costruisce attivamente zone di attrazione
collettiva, transita nelle nuove tecnologie rifiutando di essere costretto in
un’unica identità o di servire da superstar o simbolo metaforico di un concetto
nel sistema delle merci e dello spettacolo.
Non
serve più nell’arte mostrare se stessi come opera, bensì diventa necessario o
spontaneo l’operare per garantire la sopravvivenza dello schema che si è
contribuito a far emergere e in cui si coevolve mutualmente.
Lifeware
non significa far diventare la vita un collage di protesi meccaniche o
culturali, ma il difendere e far emergere il libero arbitrio e l’autonomia
individuale come qualità principale della vita in un contesto evolutivo in cui
il limite tra organico ed inorganico, culturale e biologico è di tipo
esclusivamente etico e operativo.
La storia
La
concezione scientifica del XVII secolo, con Cartesio, Galileo, Newton, ...,
sostituendo una visione della natura come organismo unico (di derivazione
aristotelica) con quella di una natura/macchina, pone in atto una tendenza
(avviatasi con l’invenzione della stampa) a sottrarre alla natura le qualità
spirituali e immateriali per inserirla all’interno di valori e punti di vista
laici (vedi F. Capra, “La rete della vita”, 1997, pag. 30). Tali valori e
metodi, tipicamente deterministici e meccanici, portano avanti un’idea di
diffusione del sapere che ha nel ‘700 con l’Enciclopedia una sua chiara
esemplificazione.
Si
pone dunque una “strana” distinzione per cui i valori democratici dei metodi
moderni di classificazione e distribuzione del sapere sembrano essere in
alternativa a un’idea dinamica del mondo ovvero un’idea di enti in stretta
relazione e le cui qualità non possono essere valutate separatamente.
Oggi
assistiamo a un momento di sintesi dialettica tra il riduzionismo materialista
e la visione sistemica nel tentativo di trarre i punti di vista più
interessanti e utili da entrambe le parti.
Il
perfezionamento del microscopio nel XIX secolo conduce verso una visione
meccanica della biologia (F. Capra, op. cit., pag. 34). Le nanotecnologie potrebbero
rischiare di creare una nuova tendenza in tale direzione, ma l’attuale unione
del mondo organico con quello meccanico potrebbe sottintendere a un equilibrio
tra i differenti paradigmi.
La
scienza distingue le parti (meccanico/organico) al suo interno facendo di volta
in volta prevalere la fisica sulla biologia e viceversa. Ma la questione va
posta tra due parti diverse: la “scienza” e la “vita”.
Il
campo del ‘non detto’ è di pari valore e merito di quello del ‘dicibile’.
E’
giusto formulare ipotesi o promuovere ricerche. E’ giusto finanziarle. Ma allo
stesso modo è giusto finanziare (in modo equivalente!) e promuovere le pratiche
quotidiane ‘apparentemente’ anonime e non formulatrici di senso.
La
microbiologia, embriologia e teoria cellulare del XIX secolo formulano (in
particolare nel libro di J. Loeb “La concezione meccanica della vita”) un’idea
di spiegazione meccanica della vita (F. Capra, op. cit., pag. 35). sebbene il
padre della medicina moderna, Claude Bernard, fornisca una visione dell’organismo
come sistema in equilibrio permanente rispetto alle variazioni dell’ambiente
precorrendo dunque il concetto di omeostasi di W. Cannon negli anni 20 del
nostro secolo (F. Capra, op. cit., pag. 34).
I
romantici, in particolare Goethe, vedono la natura come un tutto e si
interessano agli aspetti morfologici. Anche Kant descrive il carattere di
relazione tra le parti e per primo introduce il concetto di ‘autorganizzazione’
dell’organismo in relazione al contesto (F. Capra, op. cit., pag. 32)
Siamo
nel periodo a cavallo tra XVIII e XIX secolo quando nascono le prime forme di
servomeccanismi (termostato) ma anche i primi telai a schede perforate.
Secondo
Kevin Kelly (“Out of Control”, 1994) il servomeccanismo è il precursore delle
moderne forme di macchine autorganizzate (computer,...).
Secondo
i biologi ‘organicisti’ del XX secolo “il tutto è maggiore della somma delle
sue parti” poiché, oltre alla fisica e alla chimica, va aggiunto il concetto di
‘organizzazione’ e di ‘rapporti organizzati’ (a differenza dei vitalisti che
aggiungono invece una non ben chiara entità, forza o campo immateriale) (F.
Capra, op. cit., pag. 36).
In
questa direzione si sviluppa un interesse verso gli aspetti morfologici di
creazione, organizzazione e evoluzione delle forme.
In
tal senso, l’opera d’arte, se deve rappresentare la vita, non può essere
isolata in un oggetto o evento unico. L’opera d’arte va invece intesa come il
sistema di auto-organizzazione spontanea di più enti e delle loro relazioni nel
tempo.
La
chiave di svolta dal paradigma della meccanica classica a quello della dinamica
non lineare si ha con la Teoria della Relatività e in seguito con la meccanica
quantistica nel modo in cui questa metta in discussione la logica classica
tramite la possibilità di sovrapposizione ‘simultanea’ di stati diversi per lo
stesso ente. La meccanica quantistica prevede approcci non di tipo ‘analitico’
ma di tipo ‘sintetico’. Paradossalmente tutto ciò può essere rappresentato in
una metafora usata da Schrodinger nel suo libro ‘Cos’è la vita’ in cui gli
ingranaggi di un orologio sono paragonati ai cromosomi e l’orologio stesso a un
organismo.
E’
evidente che esiste in atto una dialettica tra meccanico e organico.
C.
Langton, nell’introduzione al convegno “Vita Artificiale” del 1987, illustra
procedimenti scientifici che senza l’ausilio di materiali organici e dunque
attraverso simulazioni computazionali, dimostrano come sia possibile spiegare
“in che modo comportamenti di tipo biologico emergano dalle interazioni di
basso livello entro una popolazione di primitivi logici” (“Sistemi
intelligenti”, anno IV, n. 2, agosto 1992, pag. 200). Mi preme sottolineare
come ciò non implichi l’emergere di una forma di consapevolezza.
Allo
stato delle attuali ricerche ciò sarebbe una pretesa eccessiva. R. Penrose in
“Ombre della mente” (1996) assume che la consapevolezza sia il risultato di uno
stato coerente quantico della materia organica e che, dunque, il paradigma
scientifico della matematica, della logica, etc., debba confrontarsi con la
materia organica, la struttura delle cellule, dei microtuboli e con le
dinamiche complesse degli organismi.
Secondo
Penrose la coscienza è un fenomeno ‘non computazionale’ ma può essere spiegato
all’interno di una nuova biologia e della fisica quantistica. Quest’ultima, per
le sue conseguenze, accetta come possibile al suo interno l’esistenza della
contraddizione (sovrapposizione quantistica).
Il
sapere coevolutivo è un sapere ‘quantico’ che nella sua indeterminazione
prevede delle sovrapposizioni non previste dalla logica classica.
In
tale direzione sembrano essere auspicabili dei modelli computazionali che
simulano i processi matematici della biologia.
Processi
di auto-apprendimento bottom-up, reti neurali, algoritmi genetici, automi
cellulari, sono modelli computazionali che convergono verso tale direzione.
Per
quanto sistemi deterministici, tali modelli computazionali hanno bisogno di un
supporto organico, biologico. Un supporto che non sia solo l’hardware del
sistema, ma che sia parte del processo che viene integrato e contaminanato
dalle sue potenzialità indeterministiche e principalmente coevolutive.
Il
‘lifeware’ è un sistema che si avvale di ogni nuova scoperta della fisica (i
dimeri di tubulina e le loro potenzialità quantiche all’interno del
citoscheletro dei neuroni, i biocomputer, le nanobiologie e le nanotecnologie)
integrandole con i processi di tipo computazionale descritti sopra.
Non
solo, lifeware non è semplicemente un nuovo modello di macchina, lifeware è
un’idea di sapere come ‘sistema coevolutivo’; una rete rizomatica in cui la
comunicazione implica la coevoluzione di ogni parte.
Quelli
che per Aristotele sono “piccoli accidenti non sostanziali”, ovvero le
differenze strutturali e morfologiche di un oggetto da cui se ne ricava il
relativo concetto, potrebbero dare al contrario luogo, in un’idea di mente
relazionale a modelli del pensiero totalmente differenti a livello generale.
La
differenza minima da sola è insignificante, ma se è abbinata a innumerevoli
altre differenze minime, con esse diventa fondamentale. Se il pensiero, anzi la
verità sta nel dialogo delle cose, bisogna sempre ipotizzare le conseguenze di
ogni singolo evento in relazione a molte altre.
Se
il sapere non è un’entità astratta, di tipo linguistico e convenzionale in
senso nominalista, ma se è ‘in re’, nelle cose, allora ogni forma del sapere
sarà, a seconda della cosa in cui è, differente da ogni altra. Non solo, non
sarà qualcosa di immutabile, ma seguirà l’evoluzione di tale cosa, sarà in
divenire e il suo divenire dovrà confrontarsi con un’evoluzione di tipo
‘culturale’, in stretta relazione con un’evoluzione di tipo biologico, fisico,
chimico, ...
Nel
medioevo la forma della scrittura si ‘adeguava’ alle logiche linguistiche delle
culture orali; la scrittura, per quanto fosse strutturata gerarchicamente in
modo molto rigido, era sapere ‘interpretato’, ovvero mediato tramite continui
rimandi di citazioni e commentari ad altri testi oppure da un ‘maestro’ che lo
trasmetteva fornendone la propria interpretazione. Analogamente oggi cultura e
biologia sono strettamente connesse. In particolar modo un essere vivente può
essere considerato, citando Pietro Omodeo (da “Biologia evoluzionistica”,
1995), percorso da un “flusso di informazione che rende possibile autocontrollo
e controllo nei vari settori dell’attività dell’organismo”. Scrive ancora
Omodeo che “come i processi digestivi debbono essere interpretati sulla base
dei principi della dinamica e non della meccanica, e i processi metabolici
sulla base della termodinamica e non della sola chimica qualitativa, così è
divenuto necessario interpretare il divenire degli organismi anche e
soprattutto in base ai principi e ai teoremi della teoria dell’informazione”. A
sua volta tale ambito richiama le ricerche sulla comunicazione di massa e la sociologia,
in particolar modo come evolva il concetto di informazione in seguito alle
critiche verso la Teoria dell’Informazione di Shannon interpretata come teoria
della trasmissione anziché della comunicazione di un messaggio.
La cultura
Come
spiega Dawkins nel libro “Il gene egoista” del 1976, le idee sono virus (memi)
in grado di replicarsi e evolvere nel cervello delle persone.
La
vita degli uomini dipende sempre più dalla struttura sociale anziché
dall’ambiente naturale che li circonda.
E’
la struttura sociale (i supermercati, etc.), anziché gli alberi, a fornire il
cibo.
La
cultura che sovrintende e organizza la struttura sociale è divenuto un fattore
necessario all’interno dei tipi di relazioni mutualistiche necessarie al corpo
umano per sopravvivere.
La
cultura è un organismo biologico in competizione/cooperazione con gli altri
organismi.
Il
confine tra la fine di un organismo e l’inizio di un altro è inesistente o
convenzionale ai sensi percettivi di ogni singolo organismo.
Il
corpo umano definisce i suoi limiti in base alle sue capacità sensoriali. Se si
definisce la mente come un organo sensoriale allora anche il concetto di corpo
può espandersi fino ai confini spazio/temporali della cultura.
Il
progresso si muove nella direzione del superamento della necessità per il corpo
dei limiti imposti dal mondo ‘naturale’.
La
scoperta del fuoco ha eliminato la dipendenza dal ciclo giorno-notte per poter
vedere e riscaldarsi.
L’agricoltura
e le conseguenti scorte alimentari hanno eliminato la dipendenza dell’alimentazione
dalle stagioni.
L’urbanizzazione
ha eliminato la necessità dello spostamento nello spazio.
Le
simulazioni audiovisive e le telecomunicazioni hanno eliminato la necessità
della presenza materiale nello spazio per percepire un evento.
L’evoluzione
della cultura scientifica e sociale sembra muoversi nella direzione di
un’autonomia della mente dai limiti materiali che il corpo incontra nel mondo
naturale.
La
cultura, il linguaggio, le forme mediali hanno più possibilità di realizzare un
progetto che non la forza bruta.
Le
relazioni e le reti rizomatiche messe in opera dalle prassi culturali, fanno
emergere ‘meccanismi virtuali’ grazie ai quali pochi individui in gruppo
realizzano quello che non sarebbe riuscito a molti individui non correlati
attraverso la cultura (è interessante in questo senso ciò che sono riusciti a
fare alcune migliaia di scienziati che collegati in rete sono riusciti a
decrittare in tempi ristretti un algoritmo di codifica che sembrava
inespugnabile se non in tempi lunghissimi, vedi Enciclopedia Britannica del
1996).
La
mente umana diviene un nuovo potente organo sensoriale.
Un
organo cooperativo, in grado di svilupparsi acquisendo informazioni da altre
menti.
La
mente umana non è il cervello, ma è il corpo umano in relazione con un insieme
di pensieri collettivi (memi) che evolvono all’interno delle architetture
individuali.
L’arte
è un prodotto della cultura e con essa evolve.
Se
l’arte del passato si risolveva in oggetti materiali che fungevano da ‘media’
culturali, l’arte del presente si avvale di ogni sviluppo della cultura e le
sue opere diventano sistemi di relazioni collettive in coevoluzione.
L’opera
nel presente è determinata dalle connessioni e dalla loro qualità mutualista.
Quello
che nel passato si risolveva attraverso un supporto materiale nel presente si
risolve nella qualità della trama, nella sua flessibilità e capacità di
evolvere.
La
sopravvivenza di un’opera non è data dalla resistenza di un materiale, ma dalla
sua capacità di mantenersi stabile in uno stato di criticità auto-organizzata.
La coevoluzione
Ci
sono due motivi specifici al fatto per cui preferisco usare il termine
‘coevoluzione mutualista’ al termine ‘interattività’.
Il
primo è che il termine interattività è stato associato dal mercato negli ultimi
anni a qualsiasi cosa, all’interno delle nuove tecnologie informatiche,
prevedesse da parte dell’utente una semplice azione all’interno di percorsi
prestabiliti.
L’utente
interattivo (per il mercato) è diventato qualcosa di simile al signore che nel
classico esempio di Searle mostra simboli cinesi in risposta a domande fatte in
cinese, in base a istruzioni che gli dicono quali simboli mostrare in risposta
ad altri simboli, senza però spiegargliene il significato.
Apparentemente
per un osservatore esterno il signore sembra parlare il cinese, ma di fatto lui
non conosce il cinese e non capisce ciò che sta facendo.
Gli
strumenti ‘interattivi’, così come sono stati proposti dal mercato, non
forniscono ne ‘consapevolezza’ ne reale ‘comunicazione interattiva’.
Poiché
il termine è oramai troppo pesantemente associato a determinati strumenti
tecnologici, preferisco usare i termini ‘coevoluzione mutualista’ per mostrarne
le differenze.
Il
secondo motivo per cui preferisco usare tali termini è perché in modo più intuitivo
descrivono alcune caratteristiche che il termine ‘interattività’ da solo non
copre.
La
prima caratteristica è che il termine coevoluzione implica un cambiamento o
evoluzione negli enti in causa, determinato reciprocamente in modo attivo da
entrambe le parti. Non vi è quindi semplicemente un ‘agire simultaneo’ tra due
o più enti, ma vi è nel termine ‘coevoluzione’ l’implicita condizione che tale
agire provochi cambiamenti evolutivi nell’altra parte.
Il
secondo termine, mutualista, deriva dalla biologia e viene usato per definire
quei sistemi specifici in cui due specie diverse interagiscono tra loro in modo
tale da determinare una coevoluzione reciproca che fornisce ad entrambe
benefici.
In
particolare questo aspetto (che sarebbe dovuto essere interpretato come
‘implicito’ nel termine interattività) è quasi sempre stato trascurato per
favorire e garantire benefici esclusivi a una determinata classe economica o
politica e per limitarsi a operare una forma di trasmissione ‘istituzionale’
anziché di ‘comunicazione’ collettiva.
Previsioni - libero arbitrio -
comunicazione
Ritengo
che la ricchezza del dialogo comunicativo sia da situare nelle continue
‘previsioni’ che emittente e ricevente mettono in atto sulla base delle loro
esperienze e sulle continue ‘deformazioni’ volontarie (ma spesso anche
involontarie) operate sui messaggi per stabilire la comunicazione.
La
ricchezza e l’evoluzione delle idee nella storia sociale è la conseguenza non
solo di accordi e deduzioni sul sapere, ma anche di ‘equivoci’, il risultato di
un’interpretazione deformata (dunque non fedele) del significato originario
della teoria a cui ci si rifà.
Le
differenze e in esse gli errori di comprensione sono storicamente produttivi e
benefici allo stesso modo delle identità e delle interpretazioni fedeli.
Rispetto
a tale ipotesi di ‘meccanismo’ di capacità di fare previsioni, e dunque il
possedere una forma di coscienza, ritengo che le pur innovative e notevoli
teorie esposte sulla creatività nei modelli di comportamento neurale sebbene annuncino una positiva evoluzione
delle interfacce uomo/macchina non siano sufficienti a far giudicare come
interattivi tali meccanismi (intendendo per interattività una reale messa in
atto dello scambio comunicativo tra due enti), ma che si rimanga dipendenti dai
comportamenti possibili di un meccanismo ‘egoista’. Egoista poiché produce
risposte determinate dalla sua struttura in modo meccanico anziché come
risultato dialettico tra la sua struttura e la capacità di produrre previsioni
sull’emittente o ricevente; un egoismo che è tale solo in quanto risultato di
sistemi complessi di emergenza di comportamento indotti dall’equipe che ha
costruito il meccanismo, attraverso un tipo di scienza che non è ancora in
grado di assegnare consapevolezza alle macchine. L’evoluzione, la mutazione, la
novità, in tali sistemi non è una scelta volontaria, bensì meccanica.
Ciò
che manca ancora alle macchine (ciò che effettivamente hanno cercato, per
adesso in modo fallimentare, di realizzare gli scienziati dell’intelligenza artificiale)
è la coscienza; intendendo in essa la capacità di fare previsioni, sintesi e
scelte in modo individuale e spontaneo rispetto agli input che le provengono
dall’esterno e dunque mettere in atto un processo di comunicazione che implica
un grado (seppur parzialmente deformato) di comprensione di ciò che l’esterno
voleva significare.
Non
credo dunque che le macchine (almeno quelle che sono annunciate dalle recenti
ricerche sulla vita artificiale) non abbiano una coscienza o non comprendano i
messaggi, ma credo che (rispetto al punto di vista umano) siano stupide, ovvero
abbiano un campo di esperienza talmente ristretto del mondo (o meglio talmente
diverso dal nostro) da limitare le possibilità comunicative tra noi e le
macchine a aspetti minimi e parziali del panorama possibile della comunicazione
tra due o più individui.
Questo
per quello che riguarda la comunicazione ‘fedele’. Poiché però ritengo che
anche la comunicazione parzialmente o totalmente deformata possa avere
conseguenze, ritengo che vi siano delle possibilità di crescita della nostra
esperienza nel dialogo anche con macchine secondo il nostro punto di vista
‘stupide’.
Il
rischio è un fenomeno di ‘alienazione partecipativa’ in quanto l’egoismo della
macchina esclude una partecipazione attiva dell’individuo che non riceve
risposte ai suoi messaggi quanto interpretazioni libere o preprogrammate della
macchina sul mondo.
Fino
a quando le macchine non avranno una coscienza (di tipo umano) è necessario che
la comunicazione sociale non sia di tipo meccanico, ma integri l’uso della
macchina a quello della coscienza umana.
La
rete Internet (nei suoi aspetti di chat o conferenze) è interessante perché in
essa, seppur integrata e mediata da un’interfaccia meccanica, vi è la presenza
di altri individui con coscienza umana con cui stabilire comunicazione. Al
momento in cui questa possibilità di reale interattività venisse meno (per
motivi di censura, accesso, legislativi, economici, etc.) o sostituita
‘totalmente’ da agenti meccanici (vedi i knowbot o i cosiddetti software ‘push’
se usati al posto degli individui in modo totale) ciò che rimarrebbe di
Internet non sarebbe più una rete , ma un circuito di una enorme macchina
complessa assolutamente alienante e asservita a scopi funzionali di scarso
interesse per l’uomo.
In
tal senso le interfacce devono essere fluttuanti.
In
quanto devono mediare l’organico con il meccanico.
E
l’organico non solo per le sue capacità spontanee e auto-organizzanti di
evolvere, ma anche per le sue qualità morali di libero arbitrio.
E’
per questo che ritengo le reti interessanti solo se aperte a situazioni
cooperative e coevolutive quali sono per esempio i centri sociali, i movimenti
in genere e qualsiasi altra forma libera, spontanea e collettiva di uso delle
reti.
Questo
secolo è stato improntato dallo sviluppo di nuovi paradigmi coevolutivi della
comunicazione, ma soprattutto della creazione del sapere e dalla
sperimentazione artistica.
La
storia dell’arte del novecento è la storia di gruppi che hanno creato
relazioni, operato e partecipato a movimenti collettivi che valgono solo nella
loro complessità non riducibile alle singole parti.
L’opera
d’arte del novecento è in questo senso coevolutiva. Ed è inseparabile da
storie, concetti, idee, relazioni e movimenti sociali che si sono susseguiti
nel tempo.
L’emergere
della libertà di tali idee, della loro forza e umanità risiede nella loro
struttura assolutamente spontanea e correlata.
La
coevoluzione in atto non è riducibile a una singola macchina, individuo oggetto
o idea.
Dobbiamo
muoverci e produrre nel tutto. Altrimenti avremo bellissime opere e bellissime
macchine che arrugginiscono separate da potenti e enormi emozioni umane
inespresse e alienate.
“Noi
pensiamo sempre ‘anche’ col corpo, e poiché i computer non hanno un corpo siffatto,
i problemi realmente umani saranno sempre estranei alla loro intelligenza”.
(F.Capra, op. cit., pag. 83).
Una
radicalizzazione di tale considerazione sulla corrispondenza tra forma-corpo
(morfogenesi?) e pensiero rischia di cadere in una radicalizzazione di
differenziazioni di specie attraverso la semplice struttura del corpo.
Va,
credo, saputa intuire una possibilità di essere in relazione tra due strutture
(in questo caso uomo/corpo e macchina) e di come il pensiero dell’una influenza
l’altra al punto da non poterle separare e distinguere con certezza. Sono
differenze di gradi e variabili spazialmente e temporalmente.
Vi
sono aspetti del pensiero della macchina e dell’uomo che non corrispondono, ma
tali aspetti evolvono e mutano nel tempo in modo tale da rendere una loro
descrizione come un entità dinamica in continua oscillazione che necessita
quindi di una terminologia “sfumata” e in continua riformulazione.
Le
macchine stanno sempre più avvalendosi di strutture con un corpo biologico e
viceversa gli uomini tendono sempre più a modellare o a “riparare” il proprio
corpo con l’ausilio di tecnologie e protesi meccaniche.
L’assemblaggio
‘meccanico’ di parti biologiche nella metafora del Golem o del Frankenstein ha
possibilità di successo? E nel caso il corpo risultante va considerato una
macchina o un uomo? E il pensiero di un corpo biotecnologico sarà il pensiero
di una macchina o di un uomo?
E’
giusto assegnare, o cercare di farlo, il libero arbitrio alle macchine?
Che
genere di enti sarebbero delle macchine ‘organiche’ in possesso di un loro
libero arbitrio?
Sarebbero
uomini o macchine?
Il
libero arbitrio è una qualità unicamente ‘umana’?
Se
così non fosse e se fosse possibile far emergere il libero arbitrio a un
meccanismo, saremmo di fronte a una nuova specie evolutiva o sarebbe
un’evoluzione della specie umana?
Solo
se si accetta che la comunicazione è tale solo se implica l’evoluzione
dell’emittente insieme al ricevente (e dunque un feedback che produca effetti
evolutivi e dialettici) si può garantire la fluidità dei sistemi sociali, la
loro evoluzione e evitare una cristallizzazione su valori ‘assoluti’.
Se
si accetta di definire comunicazione (in quanto ‘evocativa’) la trasmissione
‘unidirezionale’ di un messaggio (pur con conseguenze ‘evolutive’ nel
ricevente), si rischia di creare una separazione dell’essere individuale
(dell’emittente) che non è più contingente e immanente alle situazioni
quotidiane, bensì un alter ego separato e virtuale che potrebbe rischiare di
sovrapporsi all’essere deformandone le qualità oltreché le necessità
prettamente ‘umane’.
Il
linguaggio, così come i vari media, sono possibili estensioni del corpo che
possono favorire la comunicazione. Tale comunicazione però non può più esistere
nel momento in cui venga cessato ogni tipo di legame con l’individuo che li ha
usati per comunicare.
La
cultura può essere essa stessa un’estensione ‘biologica’ del corpo in grado di
produrre e stimolare evoluzione negli individui, ma quando la cultura è
separata dall’individuo diventa un secondo organismo, diverso e di una specie
non umana.
Credo
che sia possibile l’esistenza di nuove specie evolutive, risultato degli
incroci tra individui, macchine e culture, ma l’essere e la specie umana devono
mantenere una loro ‘autonomia’.
Credo
sia necessario il dialogo con ogni possibile forma di vita e questo è
l’obiettivo primario delle ricerche sulla vita artificiale (C. Langton in “Vita
artificiale”, 1989), ma l’individuo deve avere una sua autonomia e libero
arbitrio che lo distingua e gli permetta di distinguersi da ciò che lo
circonda. In modo equivalente la comunicazione è a mio avviso definibile solo
quando vi sia la reale partecipazione e conseguente evoluzione tra individui e
in particolare tra emittenti e riceventi.
L’arte
delle strade ha sollevato il coperchio dei musei e delle biblioteche.
Ha
riportato la conoscenza e la comunicazione a vivere ed evolvere nel quotidiano.
La
sottrazione progressiva e la separazione del sapere dalla vita ha creato una
forma di classificazione e di meccanica nella comunicazione che, per rendere
immortale il sapere, ne ha sacrificato la dimensione individuale in una forma
di alienazione succube alle logiche economiche e politiche relative alla
nascita delle forme di Stato sviluppatesi tra il 1600 e il 1700.
L’arte
delle strade è l’esplosione della conoscenza e della comunicazione disposta a
deperire seguendo i ritmi biologici che uniscono corpo e mente, materia e
cultura in quell’unità autonoma definita individuo.
La
tecnologia delle reti, ma andando oltre, il concetto stesso di sistema sociale
in rete, ha permesso alle due forme culturali, meccaniche e dinamiche, tipiche
del linguaggio della scrittura e della parola orale, di riunirsi attraverso una
dialettica in cui i codici genetici della cultura, i memi (quella forma di vita
biologica immateriale che è sostanza di ogni individuo attraverso la cultura)
sono in inscindibile relazione ed evoluzione con l’indeterminazione evolutiva
della sostanza biologica materiale.
Nelle
recenti interfacce neurali, ma più in generale nel concetto emergente di opera,
il comportamento e la prassi sostituiscono il simbolo, in quanto sintesi di un
nuovo modello di relazioni e in divenire.
Ma
il comportamento non può essere a sua volta una forma di emergenza meccanica
finalizzata a scopi funzionali seppur attraverso procedimenti induttivi e
sintetici del percorso scientifico, ma deve essere in grado di riflettere
l’autonomia, il libero arbitrio e la consapevolezza dell’individuo.
E’
il libero arbitrio mediato dalla consapevolezza che produce la possibilità di
fare previsioni. E tali previsioni sono il cuore che pilota le deformazioni
dell’informazione producendo come risultato il grado di comunicazione.
Il
concetto stesso di sistema sociale in rete implica un’inscindibile relazione di
ogni unità individuale organica con il mondo dell’inorganico.
La
vita emerge dalle relazioni di molteplici sistemi in rete e tali sistemi
possono essere anche artefatti meccanici.
Bisogna
imparare a convivere e rispettare ogni forma di diversità anche quella della
materia, poiché è con esse che coevolviamo.
Ma
dobbiamo mantenere ben ferma in noi l’idea per cui l’individuo per vivere ha
bisogno di comunicazione e questa non può esistere senza comprensione e dunque
‘volontà’ di convivenza.
Senza
tali qualità si hanno forme di vita ‘egoiste’ che possono creare alter ego di
noi nello spazio immateriale e che saranno forme alienate dalla comunicazione e
in esso controproducenti e deteriori per l’evoluzione della specie umana.
L’interfaccia fluttuante
I
sensi sono non solo l’interfaccia con il mondo (il filtro tra noi e l’esterno)
ma ne sono allo stesso tempo il ‘legame’.
I
sensi stringono relazioni con il mondo che rendono noi e il mondo tra loro
interdipendenti.
In
particolare con le nuove forme di comunicazione i sensi sono potenziati e in
grado di estendersi, duplicarsi e mutarsi non solo per raccogliere o emettere
informazioni, ma per creare una rete intricata e complessa di legami che
rendono noi e il mondo un unico organismo complesso. Un organismo composto di
differenze più che di unità.
Allo
stesso modo l’interfaccia non va intesa come un semplice filtro di traduzione
tra enti diversi, ma è la connessione, il legame che li tiene uniti rendendoli
l’uno dipendente dall’altro secondo pesi maggiori o minori in relazione alle
molteplici altre connessioni che ciascun ente mette simultaneamente in atto con
numerosi altri enti ognuno dei quali in grado di influire sul peso degli altri.
L’interfaccia
(e la comunicazione) non è un semplice filtro di traduzione e attribuzione di
senso e decodifica, ma è contemporaneamente uno stretto legame di coevoluzione
tra gli enti relazionati.
Fare
un software che prevede la cooperazione tra utente e macchina è estremamente
difficile a causa delle logiche stesse di programmazione e costruzione
dell’hardware fino ad ora adottate.
E’
necessaria dunque una riformulazione di tali linguaggi e di tali modelli
progettuali, che renda possibile creare “interfacce cooperative” in modo
semplice e veloce. Le reti neurali sono un passo in tale direzione. Un passo
necessario ma non sufficiente. Ora si tratta di comprendere che l’interfaccia e
i programmi non sono qualcosa di esclusivamente meccanico e matematico, ma
devono includere altre zone e discipline: la psicologia, la sociologia,
l’etologia, la biologia, l’etica, ... ma soprattutto devono essere integrate in
un utilizzo personalizzato e relazionato con le situazioni contingenti cui sono
finalizzate.
Come
un libro in una biblioteca è una forma di sapere ‘separato’ dagli individui e
dallo stesso autore, allo stesso modo ogni software e ogni computer non può
essere progettato separatamente dall’autore e dall’utente.
Non
si può pensare a software creati in scala per un’unica tipologia di uso.
Ma
ogni interfaccia deve essere relativa alla situazione per cui viene creata e
dunque l’interfaccia deve nascere dal dialogo tra programmatore/i e utente/i e
tale rapporto non deve mai venire meno al punto che l’utente possa essere in
grado di essere programmatore esso stesso e dunque di riprogrammare l’interfaccia
e viceversa. L’interfaccia deve essere fluttuante, ovvero in grado di evolvere
nel tempo e in base alle relazioni e al dialogo con gli utenti.
Identità multiple
Accettare
un’identità significa conferire validità a un metodo specifico di classificazione
dell’essere.
Significa
accettare che la propria determinazione sociale e ogni sua possibile mutazione
possono situarsi solo all’interno del codice di classificazione accettato.
La
nostra vita è complessa, al punto da richiedere identità molteplici ovvero
sovrapposizioni continue di un numero indefinito di codici e metodi di
classificazione della medesima.
Una
legge che imponga alla vita un’unica chiave di lettura è ‘inaccettabile’.
L’identità
unica dell’individuo è la conseguenza del paradigma scientifico meccanico di
classificazione del sapere. Attualmente viviamo in una società di relazioni
complesse basate sulla dinamica dei rapporti. Il digitale, ultima uscita della
meccanica è costretto a dialogare, confrontarsi e interagire con l’analogico,
garantendo nel fare questo le qualità indeterminate dell’essere.
la cooperazione
Il
termine ‘lifeware’ è il tentativo di mettere in relazione produttiva le
discipline biologiche e umanistiche con quelle meccaniche e scientifiche.
E’
l’ipotesi di creare una rete tra i vari ambiti disciplinari che dimostri
l’impossibilità di discernere le tecnologie dalla mente umana (nella loro
capacità bidirezionale di influenzarsi reciprocamente, vedi P. Levy, “Le
tecnologie dell’intelligenza”, 1990), l’impossibilità di creare all’interno di
un’unica disciplina (il calcolo computazionale e dunque tutte le discipline
discendenti dirette della matematica: informatica, cibernetica, logica, ...),
una teoria in grado di dare consistenza ai propri assiomi (vedi R. Penrose, op.
cit.) e dunque la necessità di affiancare tali ambiti a quelli della nuova
fisica e chimica emergente (la meccanica quantistica, le nanotecnologie, vedi
Hameroff in “Vita Artificiale”, 1989), ai loro nuovi mezzi di osservazione
(vedi la tecnica di microscopia STM e ATM in “Bioelettronica e nanotecnologie
per la bioingegneria”, 1992) con quelli di una nuova biologia (vedi Dawkins,op.
cit., e “Biologia evoluzionistica”, 1995) e di come questa attinga a piene mani
dalle formule matematiche e dai modelli di simulazione che ruotano intorno agli
emergenti studi sulla ‘vita artificiale’ (vedi S. Kauffman in “Le Scienze”
quaderni, aprile 1996 e tutta l’attività dei laboratori di Santa Fè nel New
Mexico in M. Waldrop, “Complessità”, 1987).
Di
come la paleontologia e l’etologia possono essere aree del sapere e della
ricerca che possono fornire contributi fondamentali non tanto per ‘capire’,
quanto per far evolvere nuove ‘ipotesi’ su ciò che siamo, sulle dinamiche
sociali e sui concetti infine di etica e di estetica.
Penso
sia necessaria la capacità di far interagire i tratti comuni ad ambiti e
discipline differenti quali la biologia, l’arte, la matematica, sociologia, la
fisica, la chimica, la psicologia, la paleoantropologia, religione, l’etologia
e tante altre materie ancora, rilevando in ognuna di queste discipline le
caratteristiche relative agli elementi relazionali, cooperativi ed evolutivi di
un determinato ente.
La
capacità di affrontare i problemi dell’epigenesi all’interno di strutture
complesse sia di tipo organico, che inorganico e persino culturale.
Trovare
quale siano i tratti caratteristici in grado di unire in un’ottica evolutiva e
cooperativa il patrimonio strutturale, culturale e semantico di un determinato
ente.
Credo
che la ‘vita artificiale’ debba occuparsi anche di questo.
L’idea
di cooperazione ha un enorme passato storico, politico e sociologico da cui si
sono sviluppate forme attuali complesse.
L’analisi
dei principi da cui si è sviluppata tale idea non riesce ad avere un’origine
fissa, ma deve per forza di cose fluttuare tra momenti e luoghi storici tra
loro distanti.
Si
può cercare però di trovare delle forme comuni ricorrenti anche in tale idea,
così come nello sviluppo evolutivo di forme di simbiosi mutualista tra specie,
oppure nell’evoluzione di modelli di relazioni tra forze fisiche o chimiche.
Non
si tratta di trovare una ‘regola’ comune, quanto il trovare corrispondenze che
ci permettano e ci aiutino a fare previsioni rispetto a modelli differenti.
Le reti telematiche e la vita
artificiale
Così
come gli studi sulla vita artificiale si muovono nell’ottica di costruire
sistemi complessi assegnando semplici regole di controllo locale da cui
emergono spontaneamente comportamenti complessi globali, in modo analogo è
interessante vedere la regolamentazione delle reti come un comportamento
emergente in primo luogo dal sistema risultante dalle interazioni tra individui
che si auto-controllano in base alle proprie scelte individuali di relazione
sociale e quindi ai loro successi e insuccessi privati di interazione sociale.
Da tali interazioni individuali emergono spontaneamente le ‘netiquette’ che
divengono il ‘patrimonio sociale’ specifico di una singola rete telematica non
scritto ma praticato di fatto.
L’unione
di più reti (dunque il passaggio da un sistema di rete a un altro sistema di
rete che lo contiene almeno parzialmente) crea analogamente l’emergere
spontaneo di regole di comportamento globali, non scritte che derivano dalla
collaborazione di unità che si auto-controllano. Unità nel senso analogico (e
quantistico) anziché digitale: ovverosia un’entità ‘indeterminata’ e fluttuante
di cui si può descrivere lo stato solo nel momento dell’osservazione e
solamente considerandolo all’interno di un insieme di relazioni. Non dunque un
valore discreto e determinato. Un concetto di unità descrivibile, per fare un
paragone, come l’improvviso emergere di un sistema di organizzazione come
avviene per un uragano: riconoscibile ma impredicibile nel senso della
complessità e non linearità del sistema.
L’opera
Nei
primi anni venti il filosofo C.D.Broad coniò la definizione di ‘proprietà
emergenti’ per quelle proprietà che emergono a un certo livello di complessità,
ma che non esistono a livelli inferiori (Capra, op. cit., pag. 39).
Come
è possibile attribuire dei concetti, dei significati a un singolo oggetto
(opera d’arte) quando questi ‘emergono’ chiaramente dalle relazioni messe in
atto in sistemi complessi tra enti molteplici?
Un’emozione,
sia il provocarla che il riceverla è un atto correlato e che non potrebbe
avvenire se non grazie a tali correlazioni tra più eventi, stati e cose. Oltre
all’oggetto che la provoca e al contesto in cui la percepiamo, è fondamentale
lo ‘stato’ interno di noi che la riceviamo. Se non fossimo predisposti in tal
modo non saremmo in grado di riceverla e l’essere predisposti in un determinato
stato è il risultato di una quantità enorme di fattori che hanno ognuno pari
dignità e valore nel provocare tale emozione. Dunque il valore sta nell’oggetto
solo in relazione a ciò che ha provocato il nostro stato e al contesto in cui è
inserito. Dunque non è possibile comprare un’opera pagando un singolo oggetto,
e moltissimi enti, cose e eventi potrebbero rivendicare una parziale paternità
dell’opera acquistata e chiedere dunque di essere ricompensati come colui che
ha prodotto ‘semplicemente’ l’oggetto.
L’arte
evolutiva, prodotto di software di tipo neurale o di ricerche sulla vita
artificiale, se proposta come immagine del risultato non è coerente al nuovo
paradigma scientifico.
La
coerenza con i nuovi paradigmi della scienza implica un tipo di oggetto
artistico fluttuante, rizomatico e in divenire.
In
tal senso non sono opera d’arte le immagini di arte evolutiva, ma lo sono in
modo più chiaro, coerente e operativo la struttura rizomatica dei movimenti di
controinformazione, i centri sociali, le reti telematiche, le ricerche
scientifiche e le relazioni messe in atto tra gli scienziati.
L’arte
evolutiva non è il feticcio, l’ombra della ricerca ‘seria’ degli scienziati, ma
alla pari e insieme agli scienziati, è ogni sistema che produce relazioni e
ricerche coevolutive di tipo mutualista.
Per
analogia il risultato del convegno del Pecci del 1995 dal titolo “Diritto alla
comunicazione nello scenario di fine millennio” (vedi Strano Network, “Nubi all’orizzonte”,
1996) è stata la conferma di voler difendere il criterio di
‘auto-determinazione’ delle regole di comportamento delle singole reti
amatoriali italiane.
L’unione
libera e auto-regolamentata di tali reti è l’emergere di un’opera d’arte. Un
fenomeno spontaneo a cui partecipano un numero complesso di fattori e
individui.
Un’opera
d’arte che non si appende alle pareti del museo, ma che può vivere in
determinati momenti grazie ‘anche’ all’attività del museo.
In
questo senso il convegno del Museo Pecci è stato un contributo all’esistenza di
un’opera d’arte collettiva.
Questa
è la funzione dei musei nel 2000.
Tale
idea di opera implica la necessità di rispondere a una domanda: Come si
riconosce un sistema opera d’arte?
Devo
dire che questa domanda imposta di per sé il problema nel modo sbagliato.
Se
infatti c’è stato un cambiamento paradigmatico di rilievo nell’arte dagli anni
‘70 a ora esso è stato nel fatto che coloro che proseguivano le ricerche
artistiche precedenti, o ne facevano di nuove, lo facevano al di fuori del
sistema dell’arte e (più o meno consapevolmente) senza porsi problematiche
‘specificatamente’ artistiche.
L’arte
recente (ma in realtà tutto il secolo ha vissuto l’evolversi di ricerche
artistiche in tale direzione) si sviluppa fuori dal contesto ufficiale
dell’arte e ‘soprattutto’ non si pone problematiche di tipo artistico.
In
tal senso la domanda precedente pone l’opera all’interno di un sistema estetico
che non è quello praticato ‘di fatto’ nell’arte contemporanea. Ma cercherò
comunque di darle una risposta in modo sintetico:
L’opera
è un sistema di relazioni in coevoluzione mutuale.
1)
Appare e viene riconosciuta a e da coloro che vi sono coinvolti e che in modo
più o meno determinante contribuiscono alla sua emergenza.
L’evidenza
di tale sistema è qualcosa di descrivibile tramite il linguaggio, ma è anche
uno stato d’animo collettivo percepibile in modo conscio o inconscio a livello
individuale.
L’urgenza
del convegno del Museo Pecci era determinata da una necessità da una parte ‘contingente’
alle recenti evoluzioni legislative italiane che minavano le libertà delle reti
amatoriali, dall’altra dal riconoscimento di una sensibilità collettiva nuova
che potenziava i rapporti sociali attraverso le reti garantendone alcune
qualità fondamentali quale è innanzi tutto il diritto alla comunicazione e
dunque un uso delle nuove tecnologie mediali finalizzato a ciò.
2)
La coevoluzione messa in atto attraverso le relazioni del sistema/opera d’arte
deve essere di tipo mutualista, ovvero ‘deve’ produrre un beneficio per
ciascuna delle parti che viene coinvolta in essa.
Lo
scambio non deve essere di tipo simbiotico, ma mutualista.
Tale
caratteristica è il risultato di una coevoluzione tra enti e individui.
Tale
coevoluzione non segue un’ipotetica via darwinista di selezione naturale, ma è
meglio inquadrata in un’ipotesi lamarkiana di finalità e consapevolezza.
Nello
scambio non sopravvive il più forte, ma gli enti in causa sono in grado di
auto-adattarsi per garantire il proprio beneficio locale in relazione
all’evoluzione del contesto globale.
In
tale ottica lo scambio dei saperi a livello sociale deve avere e essere
portatore di senso e tale senso è tale solo se implica il beneficio di ogni
individualità.
Le
mutazioni individuali non devono essere un risultato casuale all’interno del
sistema evolutivo, bensì quello caotico e complesso emergente da scelte e dal
libero arbitrio individuale (Kant è stato forse non a caso uno dei primi a
usare il termine autorganizzazione).
Alla
visione ‘meccanica’ dell’opera ne va sostituita una complessa per cui la
materia dell’opera sia un insieme di relazioni facenti parte del mondo, che
vengono attivate nel tempo da ogni ente che le determina e che sono in grado di
evolvere secondo dinamiche non lineari e complesse in comportamenti emergenti
che sono la parte apparente del ‘lifeware’, ciò che (in ogni momento in modo
diverso) siamo in grado di esperire nel mondo fenomenico. D’altronde la parte
apparente del lifeware non potrebbe emergere se non esistesse la sua parte materiale
che è costituita dalle relazioni tra gli enti che ne fanno parte.
L’opera
è il lifeware, un’entità inseparabile, e in divenire, composta da relazioni e
comportamenti emergenti consecutivi a tali relazioni.
L’arte
del passato si è evoluta in simbiosi mutualista con il paradigma meccanico,
riflettendone nel campo dell’estetica la sostanza centrale.
L’arte
contemporanea, ma in buona parte l’arte del XX secolo, sta riflettendo i segni
di una mutazione in atto nel paradigma della meccanica.
Raggiunto
il suo punto di crisi con l’intelligenza artificiale (con il suo fallimento) la
scienza sta evolvendo in un nuovo comportamento paradigmatico che la vede
spostare il suo centro dalla meccanica classica alla dinamica non lineare.
La
scienza sta manifestando un interesse crescente verso le materie biologiche, e
il comportamento dei sistemi viventi.
Per
essere più precisi, il confine della vita si è esteso alla fisica e alla
chimica (dunque all’inorganico). E’ stato assunto come possibile parziale
definizione della vita la scoperta di comportamenti emergenti nelle forze e
nella materia. Comportamenti che evolvono spontaneamente un proprio carattere
autonomo, auto-organizzato, caotico ed infine e soprattutto auto-replicabile.
Le
relazioni all’interno di sistemi complessi diventano oggetto della ricerca
scientifica e con essi coevolve mutualisticamente un nuovo paradigma artistico
che ha nell’equazione arte=vita la sua più alta ed efficace descrizione. L’arte
del novecento esce dall’oggetto e dalla sua logica meccanica di rapporto
artista->oggetto->spettatore per estendersi al contesto, all’ambiente e
alle innumerevoli relazioni materiali e semantiche che tale uscita comporta.
L’opera
è un tutt’uno con le relazioni messe in atto tra persone, enti, cose e
situazioni in esse inseparabile e da esse indistinguibile. Nel nuovo paradigma
artistico contemporaneo la critica diventa parte integrante dell’opera.
Cos’è
creativo e cos’è artistico.
L’artisticità
emerge spontaneamente dalla connessione di unità creative.
L’artisticità
è una qualità del sistema, non dell’unità che vi fa parte.
L’opera
d’arte esiste nel momento in cui essa è un sistema di connessioni di unità
creative che liberamente e spontaneamente fanno emergere la ‘loro’ definizione
di ‘artisticità’, che si differenzierà da quella emergente da un sistema vicino
e che potrà comunque cambiare e mutare evolvendo nel tempo.
Coloro
che nel futuro saranno unità evolute all’interno o attraverso tale sistema,
porteranno in se la ‘traccia’ genetica di tale accordo collettivo e di fronte a
un elemento prodotto nel passato da tale sistema e da tale sistema definito
artistico saranno in grado di riconoscere e abbinare la struttura morfologica
di tale prodotto con la traccia genetica che loro possiedono.
Questo
riconoscimento, questa messa in atto degli archetipi collettivi non possono
essere fraintesi per un giudizio di ‘artisticità’ intrinseca all’oggetto, ma
quanto il riconoscere in tale oggetto una traccia della vera opera, ovverosia
del sistema di connessioni di unità creative e del loro accordo ‘temporaneo’ e
‘transitorio’ di ciò che per loro era reputato artistico.
I
memi sono la definizione di una tipologia riproduttiva dell’individuo attuata
attraverso modelli culturali (concetti, idee, ...) che si propagano nel cervello
delle persone.
Si
definiscono come fattore che contribuisce a controllare il carattere evolutivo
della selezione naturale.
Oltre
ai geni e al genoma, abbiamo dunque i memi.
Vorrei
aggiungere una possibile forma strutturale da integrare nell’insieme di forze
che caratterizzano l’evoluzione della specie. Tale forma può essere vista come
una via di mezzo tra l’idea di ‘sistema’ e ‘bacino d’attrazione’ e vuole
indicare quei sistemi che fungono da ‘hardware strutturale’ dove i memi sono in
grado di ricombinarsi e evolvere.
Forse
il termine lifeware può indicare quei sistemi che, grazie alle loro qualità
strutturali, sono in grado di far ‘coesistere’ e ‘coevolvere’ al loro interno
forme diverse memiche, morfologiche, organiche, ...
Virtual
Town BBS, le relazioni e quello che ha messo in atto dal 1990 a ora, tutto ciò
è un ‘lifeware’, in quanto non è un patrimonio genetico di istruzioni da
eseguire (genoma), non è un concetto (meme), ma è il sistema ‘neutrale’ e
‘orizzontale’ in grado di fungere da una parte da ‘bacino di attrazione’ di
forze diverse e dall’altro di garantire a ognuna di queste forze, attraverso la
loro autonoma forma di libero arbitrio, di interagire tra loro mutandosi e
coevolvendo reciprocamente.
Una
strategia è un ‘lifeware’.
Un
‘movimento’, un ‘collettivo’ è un ‘lifeware’.
Di
fatto, la tendenza dei movimenti e delle avanguardie artisiche di questo secolo
si è indirizzata verso la realizzazione di ‘lifeware’ anziché di ‘oggetti’
d’arte.
L’opera
si è smaterializzata. Si è concentrata sulla sua duplicazione e distribuzione.
L’opera
si è integrata in modo mutuale con le strategie ad essa collegate.
Il
concetto di artista come individuo unico si è disperso all’interno da una parte
delle strategie di mercato che pilotavano e creavano il contesto delle sue
opere e dall’altra nei movimenti culturali, fuori dal mercato, messi in atto
dalle idee e azioni quotidiane dell’artista e di coloro con cui egli stabiliva
connessioni.
L’oggetto
d’arte ha perso progressivamente valore riducendosi a pedina di un sistema
complesso di connessioni coevolutive che segnano e coordinano l’evoluzione
della storia dell’arte contemporanea.
L’opera
d’arte è diventata la capacità di creare un sistema, un ‘lifeware’ in grado di
far emergere un ordine stabile all’interno di una molteplicità complessa e
caotica di unità organiche e concettuali, che nella loro connessione reciproca
trovano una via possibile per evolvere.
Tali
sistemi in bilico tra ordine e caos sono in grado di far emergere
‘spontaneamente’ la vita garantendo al tempo stesso la totale autonomia a ogni
unità che entra a farvi parte.
Tutto
il XX secolo è stato attraversato non solo nella scienza, ma anche
specificatamente nell’arte, da idee e movimenti artistici che hanno spinto
verso tale concetto di opera d’arte.
Le
necessità della separazione sono necessità di modelli culturali e caste sociali
del passato.
Il
nuovo millennio si apre con le basi scientifiche e culturali pronte ad
accogliere un nuovo paradigma di opera d’arte che non implica la separazione,
ma in cui ogni categoria (artisti, gallerie, riviste, musei, collezionisti,
pubblico) è unita indissolubilmente in un’unica opera d’arte.
Ognuna
di tali categorie si rilivella per coevolvere secondo dinamiche orizzontali con
le altre.
Musei,
riviste, gallerie, artisti, ..., entrano nelle case dell’individuo singolo o
del gruppo nel senso che nascono forme di autogestione individuale dei luoghi
della produzione e distribuzione.
Da
ciò consegue un sistema di relazioni che non ha più al suo centro la
conservazione dell’oggetto fisico o una sua denotazione di valore, bensì la
necessità che esso (ciò che esso significa) circoli all’interno del sistema di
relazioni.
Ogni
cosa diventa soggetta a evoluzioni per crescere come un organismo vivente unico
insieme ad ogni altra.
I
musei dunque non sono più il luogo della ‘conservazione’, ma dapprima il luogo
della ‘distribuzione’ e infine della connessione.
Il
concetto di museo si apre a ogni dinamica di relazioni che ‘difenda’ la
crescita parallela di ogni ente che partecipa alla coevoluzione dell’opera.
Gli
investimenti sono dunque ripensati in base a nuove logiche culturali per
potenziare le possibilità che ogni persona partecipi attivamente e in ‘completa
autonomia’ alle proposte e alla loro messa in atto di nuove forme coevolutive
di relazioni.
Lifeware
non è una ‘rivoluzione’ dell’attuale sistema dell’arte.
L’idea
di lifeware non prevede la sparizione delle attuali categorie artistiche
(artista, galleria, museo, rivista, ...), ma evolve l’attuale sistema grazie
all’emergere spontaneo in pratiche autonome e consapevoli di una mutazione
fondamentale che implica un diverso modello di relazioni tra tali categorie.
Le
categorie rimangono, ciò che cambia è il loro valore di ‘connessione’ e il
‘peso’ che esse hanno all’interno di tale nuova rete di relazioni.
Il
gene mutante che si aggiunge al DNA di tale organismo amplifica lo sviluppo
delle connessioni e la loro ‘bidirezionalità’. Prevede che ogni unità sia
un’unità con una propria ‘autonomia’ specifica, ma che sia contemporaneamente in
grado di partecipare, entrare in relazione e ‘produrre’ coevoluzione con ogni
altra unità del sistema.
Una
modifica processuale e non strutturale è in grado di garantire quel livello di
casualità, indeterminismo e reciprocità che sono necessari alla coevoluzione di
un sistema.
Joe
Hanson che crea sfere di vetro al cui interno coevolvono organismi gioca a fare
il Dio che crea i sistemi coevolutivi.
Le
unità di ogni sistema devono in realtà avere una loro autonomia e capacità di
libero arbitrio che gli permetta di scegliere quando e in quale sistema
coevolvere.
L’opera
intesa come sistema coevolutivo non viene creata da un singolo ma viene creata
dal basso e emerge spontaneamente attraverso la libera scelta.
Ci
si può trovare a far parte di un’opera senza che ci se ne fosse accorti in
precedenza, ma si deve essere in ogni momento liberi di sottrarsi ad essa. E’
solo grazie a questo grado di libertà e quindi di diversità che il sistema
potrà mutare e coevolvere.
In
tale ottica va completamente rivista ogni specifica ‘struttura’ del sistema
dell’arte:
-
Il museo non è più il contenitore di opere d’arte, ma è parte esso stesso di
una o contemporaneamente più opere ed esiste nella capacità di creare relazioni
tra oggetti, individui, eventi, discipline e concetti.
-
Gli investimenti non devono più andare verso la ‘conservazione’ o presentazione
del singolo oggetto o della singola teoria, ma verso la conservazione o
presentazione del sistema di relazioni e di strategie che esso sottende, messe
in atto simultaneamente da un insieme di enti e ambiti differenti. Se l’opera è
il risultato temporaneo di un mutamento comportamentale o mentale, la
conservazione dell’opera significa la conservazione (in senso omeostatico)
della stabilità per cui grazie a specifici fenomeni di dissipazione si mantiene
tale nuovo modello comportamentale o mentale in atto. E dunque gli investimenti
vanno saputi fare distribuendo denaro a ogni individuo o situazione che produce
accadimenti necessari all’esistenza del sistema.
Ogni
opera diventa una piccola forma di ‘comunità’ o ‘sistema’ all’interno o in
relazione con comunità o sistemi più o meno ampi.
Le
comunità possono essere virtuali, così come le relazioni stesse.
I movimenti
L’arte
evolutiva deve essere cooperativa e deve garantire benefici alle unità che
cooperano nel sistema.
Gli
esempi migliori di questo genere di sistemi li ‘viviamo’ quotidianamente nella
vita. Ecco perché la linea artistica che ha permeato e reso significativa
l’arte del ‘900 è quella che si può riassumere nell’indistinguibilità tra arte
e pratiche comunitarie. E’ l’arte dei movimenti. Movimenti artistici, ma anche
movimenti controculturali e sociali. Sistemi che hanno realmente fatto emergere
spontaneamente e in modo auto-organizzato nuovi comportamenti, sensibilità,
significati da cui ha tratto beneficio l’intera umanità. Oltre ai significativi
esempi delle opere/evento, degli happening, delle ‘situazioni’ messe in atto da
individui che hanno cooperato tra loro in ambiti al confine tra arte e vita
mantenendo un grado di stabilità data dalla continua coevoluzione delle singole
unità, i movimenti controculturali e tutte le forme di relazione messe in atto
a livello sociale (quali sono ad esempio stati il fenomeno degli scrittori sui
muri, il punk, il cyberpunk, etc.), i loro luoghi e forme di organizzazione
spontanea, sono l’esempio migliore fino ad ora prodotto e rilevabile non solo a
livello sociale ma anche scientifico e artistico di modello coevolutivo.
Senza
avere obbiettivi di tipo scientifico, tali ‘movimenti’ rappresentano la
realizzazione pratica dell’ipotesi di lavoro delle reti di tipo bottom-up, dei
sistemi caotici e non lineari. Laddove tali teorie si scontrano con i limiti
del linguaggio usato nel formularle, il ‘movimento’ nella sua capacità di
transitare e far uso di linguaggi molteplici, di garantire l’autonomia
individuale e far emergere comportamenti collettivi che non sono patrimonio
specifico di nessun soggetto in causa, tale modello spontaneo e collettivo è
l’esempio migliore che si possa fornire per descrivere l’idea di arte
coevolutiva.
E’
con gli esempi di cui il nostro secolo è pieno nel settore artistico (le
avanguardie prima e dopo la seconda guerra mondiale), con le recenti ricerche
scientifiche, con i modelli sociali tipici dei ‘movimenti’, è guardando e
studiando tali esempi che le istituzioni devono attualmente confrontarsi sia
nel campo sociale che nel campo artistico per una revisione generale dei propri
metodi e modalità di esistenza. Le istituzioni devono entrare nelle dinamiche
delle cose, non proporre o imporre modelli cristallizzati e riduzionisti. Le
istituzioni, devono lasciarsi ‘sommergere’ dalla collettività, dissiparsi in
essa, vivere nell’anonimità della criticità organizzata. Le istituzioni devono
emergere spontaneamente dai sistemi di relazione e autopromuoverne i benefici.
Le norme devono emergere direttamente dal basso ed essere in grado di
coevolvere con la complessità caotica del sistema. Sviluppiamo la scienza,
l’arte e la cultura aprendone i confini alla collettività, distribuendone i
saperi in modo indifferenziato e permettendo che tali saperi ritornino indietro
arricchiti mutati e per mutare con le molteplici esperienze che solo i sistemi
aperti possono garantire.
Definiamo
l’opera nella promozione di senso della collettività e nell’evoluzione
cooperativa di tale senso. Definiamo l’opera nei sistemi di relazioni che in
modo irriducibile ma dinamico producono nuove forme di auto-organizzazione
mutualista.
Integriamo
dunque ai colori della tavolozza le teorie della scienza, le relazioni sociali,
e ogni disciplina che possa contribuire alla realizzazione di infiniti quadri
collettivi sulle trame delle tele della vita.