Il tema che mi sembra emergere negli ultimi anni con
maggiore evidenza è la questione del portato relativo ai diritti a seguito
dell’evasività sempre maggiore dell’evoluzione digitale nella società
contemporanea.
Da prima chiaramente la rivoluzione informatica ha
comportato problemi dio carattere produttivo, cioè ha cambiato sostanzialmente
la modernità del lavoro. Ma accanto a questo, e con l’estensione sempre
maggiore delle reti, si sono posti una serie di nuove questioni relativamente
anche al problema dei diritti per quanto riguarda l’utilizzatore e per quanto
riguarda la società più in generale.
L’appoggio che ha avuto il legislatore rispetto a
questo campo dei nuovi diritti è impostato a una sua difficoltà oggettiva di
conoscere e di normare il fenomeno.
Innanzi tutto per una oggettiva impreparazione
tecnica del personale politico: non conoscono gli argomenti su cui vanno a
ragionare.
In secondo luogo perché si tenta di normare il nuovo
con strumenti che provengono dal passato.
A mio avviso il caso più emblematico è sicuramente
quello rappresentato dal copyright; dalle leggi relative al copyright.
Le leggi sul copyright hanno un origine giuridica
agli inizi del ‘700, ma in realtà esistevano già forme privative che risalgono
al ‘500 e addirittura al ‘400 per quel che riguarda il commercio genovese.
Quindi sono abbastanza lunghe.
Comunque dal ‘700 abbiamo una prima definizione
giuridica in Inghilterra, subito dopo la ‘rivoluzione senza sangue’, cioè
quella (??????) quando si impone una forma di monarchia costituzionale, anche
se questo termine non può essere opinamente utilizzato nell’inghiletrra del 1700.
La normativa sul copyright ha avuto una sua
continuazione ‘classica’ in questo tipo di impronta sostanzialmente fino a
circa la fine degli anni ‘70, periodo in cui il problema era da una parte di
salvaguardare i diritti dello stampatore (questo è il vero e proprio problema
iniziale), a cui alla fine dell’’800 si aggiunse anche la necessità di
salvaguardare i diritti dell’autore.
Ed è su questa scorta che in questo secolo sono nate
organizzazioni di carattere privatistico, poi legalizzate dallo Stato, o
inserite all’interno della normativa dello Stato, come ad esempio la SIAE.
L’intendimento era quello di proteggere l’autore, non
solo lo stampatore.
Il problema che si pone oggi con la rivoluzione
digitale come è noto è dato dal mezzo stesso.
Il mezzo stesso è un mezzo estremamente liquido,
estremamente elastico, estremamente malleabile e facilmente duplicabile.
Tanto più che la duplicazione non comporta una
perdita di possesso da parte del precedente proprietario.
Quindi c’è semplicemente una ‘clonazione’ (va molto
di moda usare questo termine), o duplicazione in toto.
Questo pone evidentemente dei problemi, poiché fino a
venti anni fa il copyright era garantito e definito in base a chi era il
possessore del mezzo su cui veniva inciso l’opera d’arte. Come ad esempio basti
guardare le leggi italiane sul diritto d’autore e anche per quanto riguarda il
cinema, o anche per quanto riguarda la musica, il proprietario è sempre colui
che ha il possesso del master e del materiale su cui viene inciso il master.
Diversamente con la versione digitale tutto ciò muta
rapidamente, anche perché c’è un fenomeno sociale e di masse che comporta un
suo stravolgimento oggettivo.
Questo problema si complica tanto più se andiamo a
vedere brevemente la storia di questa modifica relativa al software. Quello che
riguarda il software è forse il caso più emblematico rispetto alla
duplicazione. Come suggerisce Gomma [vedi l’intervento “L’etica hacker: dai
laboratori del M.I.T. negli anni ’50 ad oggi”, di Ermanno “Gomma” Guarneri], il
problema ha origine nel 1976, quando Bill Gates, che allora lavorava per la
“Micro O Soft”, fece una serie di programmi che giravano su Altair (Altair è
stato il primo PC che veniva venduto per corrispondenza). La Altair fu venduta
poco dopo a una ditta che si chiamava “Pertec”. La Pertec credeva di acquistare
non solamente lo scatolotto dell’Altair, ma credeva anche di acquistare il
software incluso che faceva girare la macchina. In quel caso invece Bill Gates
fece fin da subito una causa in tribunale per affermare il proprio diritto: la
Pertec aveva acquistato l’hardware, ma non aveva acquistato il software.
Già in quegli anni Bill Gates scrisse una famosissima
lettera contro la pirateria, che era relativa non tanto contro la pirateria hacker,
ma era relativa alla pirateria cosiddetta per la duplicazione del software. In
tale lettera accusava la stessa comunità scientifica, da cui lui stesso
attingeva notizie e informazioni, di essere una sorta di vampiro: di succhiare
informazioni e strumenti che invece gli erano costate ore e ore di lavorazione,
di programmazione.
Com’è noto, la comunità allora respinse duramente
questo tipo di assunto, anche perché lo stile, la motivazione che conduceva
tutti costoro a lavorare, era quella della ‘condivisione’ sociale dei saperi e
non tanto della ‘privatizzazione’ da parte di qualcuno. E questo sia per
l’elaborazione dell’hardware (ad esempio, l’innovazione di aggiungere uno
schermo allo scatolotto dell’hardware fu una decisione nata collettivamente, così
come le scoperte relative al modem o alla possibilità di applicare il modem al
PC e così via), che per quello che riguarda
la programmazione.
Allora era veramente un mondo di hobbystica. Ogni
ricercatore dava il proprio contributo collettivo per cercare di risolvere il
problema.
Il problema era: “risolvere il problema”; non quello
di fare i soldi.
Invece la genialità di Bill Gates è stata proprio
quella di capire che era un business, e immediatamente si organizzò per
realizzare questo business acquisendo a tutela della “Microsoft” (che cambiò
nome in tale periodo, alla fine degli anni ‘70) le prime figure di manager, che
a quel tempo erano estranee al mondo dell’informatica.
Il passaggio avvenne all’inizio degli anni ‘80, nel
1981, quando Bill Gates fu avvicinato dall’IBM (che nel frattempo era stata
fuori dal mondo del personal) e progettò di fare il suo primo personal. Nel
momento in cui fu avvicinato dall’IBM, Bil Gates si trovò in tempi brevi a
dover configurare un programma operativo che poi sarebbe stato il famoso
MS-DOS.
L’origine del MS-DOS era in realtà un altro programma
operativo: uno schema di un altro programma operativo che si chiamava Q-DOS,
che lui comprò per circa 50.000 dollari da un’altra ditta per poi rielaborarlo.
Anche in quel caso la decisione di Bill Gates fu una
decisione di tipo affaristico.
Nessuno chiaramente mette in dubbio le capacità di
programmazione di Bill Gates e anche una certa dose di genialità. Però in quel
caso egli capì fin da subito che l’accordo con l’IBM sarebbe stato il ‘volano’
per fare della Microsoft quella potenza commerciale che poi sarebbe diventata
nel corso degli anni ‘80.
Una cosa assolutamente da rilevare è che
contemporaneamente, negli anni ‘80, è nato un mercato di massa del computer che
prima non c’era. Quindi sono nati i primi ‘computer shop’ che vendevano i
personal computer negli angoli più disparati dell’America (e che in seguito
arrivarono anche in Italia) e con essi i pacchetti applicativi e il sistema
operativo che erano acclusi, com’è noto, quando si comprava una macchina IBM o
i relativi cloni (in quanto anche i cloni funzionavano in questa maniera).
In questo modo si imponeva di fatto uno standard
mondiale che è imprescindibile per ogni macchina, sia che uno lo voglia, sia
che uno non lo voglia.
In seguito, quello del software, è diventato un
mercato autonomo e quindi ha superato la fase precedente che prevedeva, con un
termine utilizzato dagli americani, la forma del “bundling”, cioè
dell’impacchettamento unico dell’hardware col software (inizialmente infatti
veniva pensato in tali termini).
Questa è un po’ la preistoria per quanto riguarda il
problema del software.
Oggi il problema del software ha assunto una sua
ulteriore complessificazione, poiché, come ho esordito all’inizio, il problema
della rivoluzione informatica è che non è più limitata all’ambito dei
videogiochi o all’ambito di lavori specialistici, ma, com’è noto, è entrata a far parte dell’attività di
qualsiasi tipo di lavoro.
Quindi non si può prescindere dall’utilizzo del computer,
e quindi del software, per qualsiasi tipo di attività.
Dunque sorge ancora maggiormente il problema relativo
a questa centralità.
Sorge il problema perché la Microsoft, che rispetto
ai portatili e ai PC è sicuramente la ditta egemone nel settore del software,
impone delle politiche estremamente vessatorie. Non solo le impone dal punto di
vista economico, ma le impone anche dal punto di vista giuridico, facendo
un’operazione di lobbing negli ambiti specifici, in particolare in quelli della
Comunità Economica Europea e anche nella parte che la riguarda del parlamento
italiano. In tal modo convincendo, come dicvevo prima, un personale politico
oggettivamente impreparato a sostenere le politiche di protezione di un gruppo
monopolista, che con varie ragioni e per varie motivazioni, ha assunto questa
posizione monopolistica nel corso di questi ultimi quindici anni.
Il problema diventa tanto più importante quanto più
tocca i bisogni sociali. Diventa quindi delicato; diventa un problema politico.
Diventa politico perché riguarda il lavoro.
Tra le cause che sono alla base dei processi di
esclusione sociale generalmente possono esserne indicate tre:
- la prima è la mancanza di denaro.
- la seconda è la mancanza di status sociale (o in
questo caso la disoccupazione).
- la terza è la mancanza di sapere e conoscenza.
E’ chiaro che in una società dominata
dall’Information Technology il problema cruciale è dire che quella alla base di
tutte le altre esclusioni diventa la mancanza dei saperi. E questo è un caso in
cui il software vi rientra in maniera dominante e in maniera centrale.
Quindi bisogna riuscire a garantire in una fase
prossima futura una base unitaria per tutte le persone dove questo diritto al
sapere ‘anche’ sotto forma di software (magari con versioni vecchie) possa
essere garantito a tutti.
E’ chiaro che una politica come quella della legge
sul software approvata in Italia nel 1992 (e che come ripeto è una legge
approvata sul solco di quella europea) risulti essere una legge particolarmente
penalizzante. Ad esempio, tale legge prevede il carcere (quindi sanzioni di
carattere penale non amministrativo) per qualsiasi tipo di duplicazione fatta a
scopo di lucro. Tra l’altro sul termine “scopo di lucro” esiste com’è noto una
querelle interpretativa enorme, che va da una persona che copia un programma
per risparmiare denaro (quindi anche uno studente che copia Word per studiare
la propria tesi di laurea da questo punto di vista potrebbe rientrare nell’applicazione
rigida dello “scopo di lucro”) per arrivare infine a coloro che traggono
effettivo profitto dalla duplicazione.
Comunque, come dicevo, è una legge che è concepita in
maniera tale da scoraggiare qualsiasi forma di duplicazione, perché la duplicazione
in se viene considerato un atto socialmente deplorevole.
Quindi è una legge dura, una legge cattiva, una legge
che fa del male alla società e che non permette alla società di crescere in
maniera non dico armoniosa, ma perlomeno con meno disparità di quanto invece
questa legge sancisca.
Questo tipo di atteggiamento, che oscilla tra
l’incompetente e il repressivo, è presente in tutti i campi che definiscono i
diritti digitali.
E’ presente nella legge relativa all’hacking, cioè
alle intrusioni non autorizzate nei sistemi, detta “Legge Conso”. E’ presente
rispetto al tentativo di identificare nel sysop una sorta di responsabilità
penale per quello che riguarda le banche dati. Ed è presente ancora di più per
quanto concerne la legge appena approvata sulla privacy e sulla riservatezza
dei dati.
Anche quest’ultimo punto meriterebbe una lunga
esposizione; questo anche perché è una legge che è appena stata approvata, per
l’esattezza il 31 dicembre 1996 [la conferenza da cui è stato tratto questo
testo è stata realizzata ad aprile del 1997, n.d.r.].
Sono due leggi che meriterebbero una giusta
esposizione. Basti sapere questa cosa: il problema dei dati personali è un
problema che ha acquisito negli ultimi anni una centralità maggiore di quanto
l’avesse vent’anni fa. Quindi il ragionamento per quanto riguarda la privatezza
dei dati è un ragionamento che supera un eventuale stile di ragionamento che si
identifichi nel pensiero di Bentham per dire una cosa, quindi il Panopticon piuttosto
di Foucault.
Non è tanto il problema di proteggere i dati
attraverso il concetto di privacy e di difesa della privacy, perché altrimenti
lo Stato interviene in maniera onnicomprensiva e in maniera quindi un po’
paranoica a controllare tutta la società, ma, diversamente, a me sembra che il
problema della privatezza dei dati riguardi il problema generale delle
aspettative di vita da parte dei singoli soggetti.
Per quale ragione? Perché oggi è già in corso
(soprattutto in America e in Canada, anche un po’ in Inghilterra e sta
arrivando anche da noi) il fatto che i nostri dati personali entrino a far
parte in singole banche dati, le quali banche dati poi vengono incrociate (il
famoso “computer matching”), vengono incrociate continuamente.
E sono dati ‘innocui’ da una parte, ma da un’altra
parte anche ‘sensibili’.
Ad esempio, in America il fatto di abitare in un
quartiere, piuttosto che in un altro, da subito l’indicazione della provenienza
sociale di queste persone. Allora per quanto riguarda la vendita che sempre più
avviene, la ‘direct mailing’, o ‘direct shopping’, o, comunque la si voglia
chiamare, la vendita diretta, fatta per via telefonica, permette ai soggetti
che sono dall’altra parte del telefono di digitare immediatamente i dati, di
avere di fronte i dati e quindi di configurare dei profili del possibile
acquirente e ritagliare il discorso su questo tipo di profilo.
Ma non solo, questo è il problema della vendita
pubblicitaria, o della pubblicità tramite vendita diretta, ma ancor più pesante
è il discorso per quanto riguarda le banche o fidi di carattere creditizio.
Ad esempio, se io ho evitato di pagare una bolletta,
piuttosto che qualcuno, per “n” ragioni nel corso della mia vita, ho un grado
di “minore” affidabilità, che può tradursi in una riduzione di fiducia da parte
di questo ente creditizio nei miei confronti nel poter espletare un mio diritto
come può essere ad esmpio acquistare una casa, acquistare una macchina, o cose
di questo genere.
Quindi da questo punto di vista la legge sulla
protezione dei dati dovrebbe da una parte impedire allo Stato di essere
pervasivo quanto invece lo è.
Invece la legge attuale italiana appena approvata non
dice nulla a questo proposito. Anzi, da una parte sancisce per lo Stato tutta
una serie di esenzioni, per cui può esserci accumulo dei dati anche senza la
mia volontà per quanto riguarda il sistema sanitario, il sistema giudiziario,
il sistema di indagine (con quella che è la storia dei servizi segreti
italiani, significa non avere nessun tipo di protezione), e dall’altra parte
non sancisce nessun limite per quanto riguarda gli enti privati che invece
accumulano dati.
E allora cosa sta succedendo? La cosa molto strana è
che si sta producendo una sorta di “se” elettronico che ha una vita autonoma
rispetto alla mia vita personale in carne ed ossa, che viaggia nel cyberspazio
e che ha delle influenze concrete sulla mia vita reale, come dicevo prima per
quanto riguarda le aspettative di credito.
Ritornando al discorso iniziale da cui mi ero mosso,
per pensare il problema dei diritti bisogna avere la capacità di sapere imporre
politicamente al governo il profilo generale di una società nel prossimo
millennio, in una fase nuova dal punto di vista sociale come è determinato dal
fatto della presenza e pervasività del digitale e avere la capacità di sapere
imporre questo livello di ragionamento più generale, prima che sia troppo
tardi, perché poi prima di modificare una legge, quando entra nell’uso, passano
decenni e decenni creando purtroppo malessere sociale e una società per altro diseguale.