Archeologia e genetica
di Andrea Ricci |
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(conferenza a cura di Tommaso
Tozzi per il progetto “Arte, Media e Comunicazione”, 1997)
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Mi occupo da tempo di problemi legati alla storia e
all’archeologia. Da queste discipline, specialmente negli ultimi anni, sono
state proposte nuove tesi sulla storia dello sviluppo culturale. Si è trattato
principalmente di reimpostare i paradigmi centrali sui quali si fonda la
ricerca storica, le cui basi antropologiche e biologiche sono state ridefinite
con metodiche scientifiche. La rilettura di termini come etnia, cultura,
popolazione e il tentativo di
formalizzare i fenomeni di mutamento culturale, si sono verificati nell’ambito
dell’archeologia proprio perché in questa disciplina - percepita comunemente
lontana dalla produzione culturale e vista ancora da molti come una branca
“romantica” della storia dell’arte - dagli anni ’70 si è verificata una vera
rivoluzione scientifica. Se pensiamo a quali fenomeni si è legato molto di
recente l’aggettivo “etnico”, possiamo chiaramente vederne l’importanza di una
precisa analisi scientifica . L’area maggiormente coinvolta è stata quella
dell’archeologia preistorica, proprio perchÈ in tale contesto, privo di
riferimenti culturali certi (mancanza di testimonianze scritte, assenza di
memorie storiche successive) i concetti base, come quelli di cultura e popolazione,
apparivano più esposti ad una analisi critica “pura”. Nel passato - anche
recente - sull’analisi di tali epoche erano gravate forti predisposizioni
ideologiche che - espresse nel linguaggio della scienza - uscivano amplificate
e valorizzate nuovamente nel linguaggio della politica e della cultura
quotidiana: la storia del concetto di razza potrebbe essere esemplare.
Una visione diversa si è avuta quando lo schema di fondo della stessa
archeologia, sostanzialmente di riferimento letterario/artistico/filosofico, è
stato mutato - dalla New archaeology - in quello
formalizzato/statistico/economico: un cambiamento paragonabile a quello che in
ambito storico fu apportato da Bloch e Febvre negli anni ’30 con la
rivalutazione della storia materiale e dei processi culturali ed economici
contro la storia degli avvenimenti. Faccio alcuni esempi:
Una vasta area dell’Europa, dall’Atlantico alle isole
del Mediterraneo, conserva grandi monumenti preistorici in pietra, dal circolo
di Stonehenge agli allineamenti di menhir bretoni, ai grandi templi maltesi;
all’enigma della loro costruzione, la cultura europea aveva fornito una
risposta riflettente un modello di gerarchie tra popoli: solo una cultura
estremamente avanzata tecnicamente e fortemente strutturata ideologicamente
poteva aver prodotto grandi monumenti, candidando Egizi, Cretesi, Micenei e
quanti altri alla paternità di una classe errante di costruttori di megaliti,
di civilizzatori di un mondo di arretrati barbari.Il nuovo approccio - dovuto
soprattutto agli archeologi anglosassoni, un nome per tutti Colin Renfrew - ha
ribaltato queste conclusioni; invece di lavorare solamente per corrispondenze
di forme e di cercare corrispondenze in tutti modi (generando a volte veri
circoli viziosi, per i quali l’archeologia giustificava la linguistica e questa
a sua volta la prima), si è provato ad analizzare in modo quantitativo la
società che gli abitanti delle zone dei megaliti potevano aver sviluppato, le
loro risorse e le modalità del loro sfruttamento. Per scendere in un caso
particolare, quello delle grandi sepolture delle isole Orkney (ma i templi di
Malta hanno grandi analogie), si è studiato la probabile dimensione e
disposizione della popolazione all’epoca della costruzione dei monumenti (nel
neolitico, circa 3000 a.C.), le risorse necessarie alla loro erezione,
vedendone la plausibilità, ed attraverso un uso attento della comparazione con
civiltà storicamente note in condizioni analoghe (es. l’isola di Pasqua) si è arrivati a proporre tutta un’altra
interpretazione della società indigena: un insieme di piccoli gruppi
fondamentalmente egualitari che, riconoscendo ad un capo centrale il prestigio
ma non l'arbitrio di un rex, trovavano nella costruzione coordinata e
collettiva di questi simboli della propria grandezza l'occasione per
redistribuire il surplus tra di loro: questo tipo di società - denominato chiefdom
- che potrebbe aver dominato la scena europea all'alba del neolitico è cosÏ
descritto dal Renfrew
...
il capo ha un ruolo economico oltre che sociale: riceve sotto forma di tributi
o doni, una parte rilevante del prodotto di ogni gruppo ed area, ed egli poi la
redistribuisce sotto forma di dono al suo popolo, forse nel corso di una festa.
La redistribuzione, se pure apparentemente configurata come semplice cortesia
sociale, ha un profondo significato economico: essa rende possibile un qualche
grado di specializzazione.
... è anche molto rilevante la grande capacità del chiefdom
di mobilitare, di organizzare masse considerevoli di uomini, che potevano
dedicare una forte capacità lavorativa alla realizzazione di un compito
essenziale per la comunità.
Ho enfatizzato questo caso sia perché costituisce una
delle prime applicazioni di un metodo analitico nuovo a problemi antichi, sia perché
svela i possibili condizionamenti culturali del presente sull'interpretazione
del passato. In questo approccio, definito processuale, l'importanza
massima è data alla definizione di un modello di trasmissione/organizzazione
culturale che tenga conto delle quantità in gioco.
Altro problema - dapprima linguistico poi
storico/archeologico - è quello dell'origine delle lingue indoeuropee, per
molto tempo ridotto alla ricerca dell'area geografica dalla quale far provenire
i colonizzatori e la loro nuova lingua; il nazionalismo e lo sciovinismo hanno
trovato un fertile terreno per inserirsi, "riproiettando"
all'indietro le radici della loro presunta supremazia. Questo perché si aveva
una visione dei processi storici di tipo quasi esclusivamente diffusionistica
per cui tutto aveva una sua ben precisa collocazione basata sui termini di
filiazione e di gerarchia. Dalla storia della lingua derivava quella dei
popoli, c'era - c'è anche adesso - un'equazione lingua=popolo, ma si arriva a
dire non solo che lingua=nazione ma anche che lingua=stato. Quando però si è
provato a far convergere su questo problema tutta una massa di dati proveniente
da altri settori - la nuova cronologia data dall'archeologia e poi la genetica
- ci si è accorti che si doveva sviluppare anche qui una nuova metodologia
interpretativa. L'archeologia infatti aveva un concetto internamente molto
forte, quello di cultura, inteso come "un insieme di manufatti
ricorrente in maniera costante"; e questa nomenclatura formale veniva
spesso fatta equivalere a quella linguistica ed etnica. Da parte della genetica
c'era invece una ovvia maggiore concretezza sia nella definizione dei dati, sia
nella metodologia, ed è da queste che si è cercati di partire, sia per
verificare ed eventualmente rimodellare le linee filogenetiche della
linguistica, sia per definire in maniera efficace i rapporti di comunicazione
tra popolazioni (che potevano tradursi in cambiamenti della propria cultura
materiale, come pure della propria cultura linguistica): costruire
insomma l'analogo delle basi della genetica di Mendel. Una di queste proposte
di modelli è quella fatta da Dawkins nel testo abbastanza noto “Il gene
egoista” che, in un capitolo che apparentemente non ha molto a che vedere con
le teorie genetiche che lui espone nel libro, parla dell’enigma delle metodiche
della trasmissione culturale, proponendo il concetto di meme. Per lui il
meme è l’unità fondamentale della conoscenza di una determinato fenomeno e
questo meme segue quasi le stesse leggi che governano il gene, l’unità
fondamentale dell’informazione genetica, e propone di coniderare la storia dei
memi con le stesse tecniche che permettono di analizzare la storia dei geni,
considerando approssimativamente quindi un meme come un idea o un concetto, di
seguirne la storia di come questo concetto si affermi o meno basandosi su
tecniche simili a quelle della genetica. E’ una proposta lanciata nei '70 che
non so se ha avuto un grande seguito.
Altri metodi predilicono un modello basato sui
contatti, per esempio il Cavalli Sforza tenta di definire i fenomeni di
comunicazione delle conoscenze culturali mediante schemi ben precisi, per cui
abbiamo un modello di comunicazione parentale da madre a figlio, in cui appunto
c’è un trasmettitore e uno o piu’ ricevitori passivi e un modello orizzontale
in cui invece - potrebbe essere quello legato a gruppi adolescenziali o a
gruppi fortemente omogenei - in cui la trasmissione avviene in via parallela
secondo uno schema da molti a molti, e poi i modelli legati a quei fenomeni di
sovvertimento delle informazioni genetiche che tendono ad esplicare come ad un
certo punto ci sono dei cambiamenti violenti nella propria cultura per via
dell'emulazione, per cui uno assume le caratteristtiche culturali di chi ha
supremazia relativa o assoluta, i modelli dell’antagonismo in cui c’è un
processo di reazione ad un comportamento deviante e cosÏ via, tutte queste
tecniche di analisi sulla trasmissione culturale sono poi correlate - e in
questo Cavalli Sforza è più legato ad un ambito archeologico - ad altrettante
teorizzazioni su come non più le singole persone, ma i gruppi di persone, le
società, possano confliggere tra loro: un inizio di teoria sui crolli e le
crescite delle strutture organizzative sociali, che si ricollega ai temi già
visti di archeologia processuale.
Temi:
Meccanismi diffusione culturale
Identità culturale: concetti di popolo, cultura,
etnia
Modelli
Genetica: popolazioni e lingua
Analisi quantitative delle società
Alcuni testi:
Dawkins, "Il gene egoista"
Renfrew, "Archeologia e linguaggio",
"L'Europa della preistoria"
Cavalli Sforza, "Geni popoli e lingue"