Medialismi
di Gabriele Perretta |
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(conferenza a cura di Tommaso
Tozzi per il progetto “Arte, Media e Comunicazione”, 1997)
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Il
mio lavoro, per quanto riguarda la riflessione sui media, parte alla fine degli
anni ‘80 da questo presupposto: cominciare a indagare e a esperire il rapporto
con i media che alcuni artisti giovani della generazione degli anni ‘80 (per
generazione anni ‘80 non mi riferisco ad artisti che hanno poi delle
caratteristiche che si identificano con questo decennio in una maniera
negativa; in questo caso dico anni ‘80 soltanto come periodo storico;
prevalentemente artisti che nascono dopo la seconda avanguardia, dopo quella
che viene definita la neoavanguardia, artisti più giovani) costituiscono
attraverso il loro lavoro. Nelle loro opere compare una considerazione forte
dell’universo mediologico. A partire da questa traiettoria io comincio a
considerare questo universo, però quello che vado sempre di più sperimentando e
quello che vado sempre di più osservando è che in concomitanza, parallelamente
al lavoro di ricerca degli artisti, nasce negli stessi anni un interesse di
ordine teorico, più generale e staccato da quello che è il mondo della ricerca
artistica sui media. Nella seconda metà degli anni ‘80 ( e questo non lo dico
soltanto io ma ormai è una constatazione storica che andiamo a fare) si è visto
che l’attenzione intorno ai media è esplosa incredibilmente sia da parte delle
economie produttive del mondo capitalistico avanzato, sia per quanto riguarda
il ‘calarsi’ di questo nuovo soggetto della comunicazione in questo rapporto
con le macchine. E’ mutata la tendenza che c’era fino all’inizio degli anni
‘80.
Questo
grazie al fatto che c’è stata un’espansione del mercato, un’espansione dei
veicoli produttivi di queste macchine e l’affermazione stessa di queste
macchine e di queste tecnologie sul piano internazionale.
Per
cui a partire da alcuni di questi artisti nasce questa riflessione e collegata
a questa riflessione sull’operato di questi artisti nasce invece anche
l’esigenza di contenere un corpo più organico, un’idea generale di opera
mediologica che sia anche strutturata da un punto di vista teorico.
Io
grazie ai miei studi, grazie alla mia formazione (provenendo da quella che è
l’indagine della Scuola di Francoforte e da quella che è l’indagine sull’opera
d’arte come riproducibilità tecnica) ho fatto anche un lavoro di differenziazione
rispetto alla tradizione e all’approccio che si ha sulla questione dei media da
parte di quella tendenza più funzionalista, più comportamentale, quindi più
americana e più, in qualche modo, Mc Luahniana.
A
partire da questo, ovvero dalla grande riflessione di Walter Benjamin del
saggio del 1936 “L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica”,
mi sono posto il problema del rapporto tra riproducibilità, e quindi
distribuzione dell’opera, organizzazione del prodotto e composizione dell’opera
come momento comunicativo. Quanto questi elementi mutassero la grammatica non
solo compositiva dell’opera, ma anche l’approccio che l’opera stessa deve avere
nella sua presentazione, nella sua esposizione al pubblico.
Quindi
cosa succede? Ci sono degli artisti in quegli anni cominciano a lavorare sulla
questione dell’interattività. Allora io prendo a prestito questa formazione,
prendo a prestito questo veicolo, l’ elemento, il concetto e cerco di portarlo
nella direzione degli studi più generali, più teorici sulle teorie delle
comunicazioni di massa. Quando cominciavo a fare questo lavoro alla fine degli
anni ‘80 non c’era tutto questo interesse e l’ esplosione che poi c’è stata
dopo su queste questioni, per cui era anche un lavoro su una materia
originaria, una materia che era in nuce, che si conosceva di meno. Adesso
invece c’è un gran parlare, c’è un grande interesse, anche perché nel giro di
sei o sette anni non solo, come dico spesso, il medialismo è un work in
progress (per cui cresce da solo e non c’è bisogno di metterci le mani dentro,
cresce nel momento in cui cresce la situazione storica e sociale che lo
accompagna), ma è cresciuta anche tutta l’attenzione su queste questioni. Se
prima all’inizio eravamo in una dimensione in cui ci chiedevamo: “la
comunicazione ha molto o poco a che fare con l’arte?”, “da dove parte?”, “come
parte?”, adesso siamo passati a un’accettazione, quasi come se fosse un dato
implicito il fatto che la comunicazione sia ‘intrinseca’ al comportamento
stesso dell’opera e quindi all’evoluzione del comportamento dell’opera d’arte.
Nella
prima fase ero più preoccupato di dare una definizione storica di questo
fenomeno e scoprire quelli che erano gli anelli che riconducevano a una serie
di questioni generali per le quali si identificava la comunicazione nell’opera
d’arte.
Adesso
invece sono più interessato a capire come tutto ciò si è evoluto e quali
direzioni ha preso.
Naturalmente,
fin dall’inizio questo rapporto, e la relativa questione, tra arte e
comunicazione aveva intrapreso delle strade.
Cerchiamo
di capire quali.
Io
ne avevo individuate alcune.
Per
quanto riguarda l’indagine sulle pratiche artistiche, andavo collocando la
questione in questo modo: c’era una situazione legata alla pittura, che io
chiamavo pittura mediale perché mutuava dall’universo mediologico e faceva una
pittura non-pittura; nel senso che eseguiva una pittura che non voleva essere
pittura, ma voleva essere un richiamarsi all’immagine mediale. Poi seguivo una
seconda tendenza che assumeva delle connotazioni sempre più mentali, analitiche
e più che di un’opera materialmente concepita pensava ad una collocazione dei
linguaggi, dei codici, dei segni in un universo più espanso, più aperto, che
andava dall’utilizzo di strumenti tradizionali fino ad arrivare a tecnologie
avanzatissime, però facendolo con questo atteggiamento molto analitico, molto
mentale. Infine c’era invece una terza conformazione che era legata a quei
gruppi, quelle bande, quelle associazioni anonime che lavoravano attraverso dei
segnali di riconoscimento più che attraverso la propria firma come atto di
riconoscimento, la firma individuale, la firma dell’autore come atto di
riconoscimento.
Questa
era la prima fase del medialismo.
Tutto
ciò naturalmente si è sviluppato. Io prevedevo che si sviluppasse rapidamente e
quindi c’è stato questo passaggio dove alcune tendenze hanno perfezionato la
loro attitudine più mercantile. Altre tendenze di questo stesso fenomeno hanno
applicato le loro ricerche in una maniera più oggettuale, facendo un lavoro più
oggettuale. Altri invece si sono spostati su una linea estremamente immateriale
dove, e questo è il lavoro che mi interessa di più, c’è più che produrre un
oggetto hanno sempre di più prodotto un pensiero sulla comunicazione nel farla
che a sua volta fosse sempre di più estensione del concetto stesso di
comunicazione.
Per
cui a partire da quest’ultima tendenza, il rapporto con le tecnologie e i new
media è indispensabile, perché i new media e le nuove tecnologie, per quanto
riguarda questo tipo di ricerca, sono dei veicoli, degli strumenti, degli
apparati tecnici indispensabili per strutturare questa forma di comunicazione.
Una forma di comunicazione che, nel momento in cui viene tra l’altro a
precisarsi, a concentrarsi e ancor meglio a identificarsi, perde sempre di più
la sua natura tradizionale di opera d’arte e quindi si autoproduce sempre di
più come prodotto della comunicazione, come elemento della comunicazione.
Distinguo questi due termini perché quando si va sempre di più verso la
comunicazione, praticamente si va sempre di più verso una dimensione in cui il
rapporto con la riproducibilità tecnica dell’oggetto che l’artista in qualche
modo pensa e poi realizza non è più quello che poteva essere nel passato. Non
si pensa più di fare l’opera per collocarla nella galleria, ma si pensa
piuttosto a un’opera che possa linearmente andare anche in una galleria, ma
attraversare tutti i media possibili. Per cui, a partire da questo, io ho
lacominciato a lavorare seguendo un tipo di operatore artistico che raccoglieva
una serie di esperienze della comunicazione e poi attraverso un progetto, un
design (e qui non utilizzo la parola design secondo il dizionario tradizionale
delle arti che è riferito all’arredamento, ma design inteso come progetto).
L’artista ha pensato a un design, a un progetto, dentro al quale potesse
catapultare tutta questa serie di esperienze utilizzate attraverso la
strumentazione tecnologica. In questo modo è successo che questa raccolta di
esperienze, la raccolta di questi elementi, ha manifestato un disegno diverso,
nuovo, specifico del nostro tempo, un disegno nuovo dell’opera e questa
diversità, questa nuova forma di progettualità, si è riversata sempre di più
verso l’universo della comunicazione.
In
questa direzione quì ci possono essere sia artisti singoli che lavorano, sia
gruppi anonimi.
Per
cui tutta la questione precedente della prima fase del medialismo, dove si
distinguevano questi tre momenti, attraverso questa raccolta di esperienze,
viene a cadere. E’ come se questa prima fase venisse integrata da questa
seconda, dove tutte queste esperienze, che erano abbastanza distaccate nella
prima fase, vengono ad integrarsi. Vengono ad integrarsi come momenti e
finiscono per diventare un modello unico che può manipolare sia il singolo artista,
sia un gruppo di operatori che lavorano insieme.
Io
adesso sto lavorando su questo, e credo che il passaggio dalla prima fase del
medialismo, che potrebbe essere legata di più a una dimensione più spettacolare
dei media, adesso va all’interno, cerca di scavare problematiche e questioni
più interne, per cui il passaggio è quello che avviene attraverso il contributo
delle neuroscienze, la riflessione sulle neuroscienze e sulla filosofia della
mente. Per cui questo lavoro artistico introietta e incamera sempre di più
queste esperienze quindi attraverso l’utilizzazione della macchina, attraverso
l’utilizzazione degli stessi new media, non sono più i new media ad essere
importanti di per se, non siamo in una fase, secondo me, di esasperazione del
mezzo e quindi di espressione del mezzo stesso, ma siamo in una fase in cui il
mezzo viene realmente piegato alle volontà dell’artefice, alle volontà di colui
che costruisce e compone il lavoro, compone l’opera. A partire da questo il
lavoro diventa più mentale, nel senso che non c’è più l’esigenza di realizzare
un oggetto o di realizzare un modo di essere dell’opera che sia riconoscibile e
identificabile per il mercato, ma più che altro si tratta di acquisire questo
passaggio fondamentale che avviene attraverso le reti, la questione delle reti
e quindi il contributo che può portare tutto l’orizzonte digitale nuovo e poi
introiettarlo all’interno della composizione dell’opera come fatto in progress
per quanto riguarda l’esperienza della mente, per quanto riguarda l’espansione
dell’universo ‘neuronico’ della medialità.