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L'etica hacker:

dai laboratori del M.I.T. negli anni '50 ad oggi

 

 

di Ermanno "Gomma" Guarneri

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(conferenza a cura di Tommaso Tozzi per il progetto “Arte, Media e Comunicazione”, 1997)

 

Il discorso sul cyberpunk per quanto ci riguarda è iniziato con la pubblicazione del libro “Cyberpunk antologia”, una produzione che risale oramai a sette anni fa, ma che è stata importante perché ha lanciato in Italia una serie di contenuti che immediatamente sono stati condivisi da altre soggettività e gruppi sparsi in giro per l’Italia che con noi stavano sperimentando nuove formule per la distribuzione di comunicazione in una maniera alternativa.

L’ispirazione primaria ci è venuta da questa forma letteraria di fantascienza che si chiama per l’appunto “cyberpunk”. E’ una corrente che oramai ha già raggiunto il meanstream, tanto che i suoi autori sono già pubblicati per la maggiorparte da grosse case editrici, ma taluni nomi hanno prodotto anche degli script che sono andati anche a Hollywood, per cui la situazione è abbastanza diversa al momento rispetto a quella a cui noi ci siamo trovati di fronte verso il 1986-87; fase in cui negli Stati Uniti si aveva questa corrente formata da giovani scrittori che cercavano di ammodernare fortemente la scena della science-fiction introducendo dei forti elementi di realismo, e soprattutto concentrandosi su quelle che erano le strutture, le dinamiche e le soggettività all’interno del mondo della comunicazione.

In particolare tra le figure più interessanti all’interno dei plot di questi romanzi vi erano le figure degli ‘hackers’, una sorta di eroi positivi che avevano una grossa capacità di muoversi all’interno delle reti telematiche e di andare a contrastare questo potere composto, diciamo ‘incorporato’, da queste grosse multinazionali che gestivano l’informazione.

Ecco, questa cosa, secondo noi si andava esattamente a sovrapporre a quella che ci sembrava la realtà in corso.

Ad esempio, proprio in quel periodo c’era un forte dibattito sul ruolo della televisione. Cominciavano a venir fuori come si dice in inglese dei ‘media-modul’ (???????) cioè delle figure, dei potentati, all’interno del sistema dei mass-media e anche ci sembrava, per una serie di frequentazioni che avevamo avuto con diversi paesi europei e con gli Stati Uniti, che ci fossero appunto delle figure che andassero ad opporsi a quella che era la gestione dell’informazione di quel determinato periodo.

Infatti, abbiamo avuto dei contatti con un gruppo tedesco che si chiama “Caos Computer Club” e che allora aveva sede solo ad Amburgo, mentre adesso ha diverse sedi sparse in tutta la Germania. Abbiamo avuto contatti con questo gruppo olandese che si chiama “Hacktic” e abbiamo avuto contatti con diversi gruppi americani che si occupavano di ‘hacking’.

Quindi passiamo a descrivere che cosa si intende per ‘hacking’.

La pratica dell’hacking nasce alla fine degli anni ‘50 presso il Massachuttes Institute of Technology, ed è stata posta in essere da una serie di studenti che avevano particolari capacità tecniche e tecnologiche e che al momento dell’introduzione dei primi grossi calcolatori all’interno dell’istituto universitario hanno avuto la pensata di “metterci le mani sopra”.

Bisogna tenere presente che questo termine “metterci le mani sopra” è diventato un po’ tutta la filosofia degli hackers e consiste nello slancio che ci sarebbe da parte di questi soggetti di prendere una macchina, il più delle volte una macchina che sia coinvolta nel processo informativo, di smontarla, di vedere come è fatta dentro, di farla funzionare direttamente senza bisogno di mediazioni e in taluni casi anche di reindirizzarne l’uso per cui questa macchina è stata progettata.

Tornando ai nostri hackers del M.I.T., alla fine degli anni ‘50, si trovano di fronte a queste macchine gigantesche che occupavano stanze intere (erano molto diverse rispetto ai nostri personal computer che stanno su un tavolo) e che fino ad allora erano state utilizzate esclusivamente a scopi militari.

All’interno dell’istituto universitario, l’utilizzo di queste macchine era esclusivamente affidato a dei tecnici o ai docenti, ed era impedito l’uso agli studenti.

Proprio per evitare questo tipo di cosa, questi studenti cercarono di ‘forzare’ il più possibile (purtroppo sono obbligato a farla breve, ma la loro vicenda è anche molto avventurosa). Ad esempio, si introducevano furtivamente di notte in queste stanze, accendevano i computer, scrissero i loro primi programmi (come il programma per giocare a scacchi, oppure il programma per far suonare il computer, per fargli produrre musica) e incominciarono a far circolare le prime idee riguardo alla socializzazione dei saperi, che è un altro dei punti cardine per quanto riguarda la cultura degli hackers. Quindi, la prima cosa che fecero fu quella di duplicare i manuali di funzionamento per i computer e di distribuirgli agli altri studenti.

In effetti, se ci si pensa questo è un gesto che è semplice, ma che al contempo risolve un problema tecnico riguardo alla diffusione del sapere: davanti a una macchina complessa, in assenza di manuale nessuno sarebbe in grado di farla funzionare.

Così facevano anche le copie delle chiavi dei laboratori in cui erano custodite queste macchine e le distribuivano, oppure, andando avanti nel tempo, furono coloro che per primi incominciarono a duplicare i programmi.

Questa, che in realtà è un tipo di pratica che nel tempo si può leggere sotto diversi punti di vista, inizialmente aveva un fortissimo senso sociale.

Facciamo un salto temporale e passiamo alla costruzione dei primi ‘personal computer’. Tenete presente che è avvenuta sempre a opera di hackers, i quali avevano immaginato come fine del loro percorso che queste macchine di proporzioni gigantesche potessero ridursi a stare sul nostro tavolo ed essere ‘veramente’ gestite ed operate da parte di chiunque.

Riguardo a ciò bisogna anche tenere presente che le grosse compagnie dell’epoca, quale ad esempio l’IBM, avevano sempre rifiutato di costruire personal computer, avevano sempre rifiutato i progetti che questi hackers andarono a presentare.

Questi hackers, quando sul mercato venne presentato il microprocessore, decisero di fare la grossa svolta e, in assenza di grosse compagnie, di costruire direttamente loro i primi personal computer.

E infatti così successe. I tre più famosi costruttori di personal computer furono da una parte il duo Jobs-Wozniack (che costruirono l’“Apple”) e dall’altra parte avevano Lee Felsenstein, che è una figura poco conosciuta, ma importantissima, perché fu quello che costruì forse il primo vero PC, che si chiamava “Altair” e che veniva venduto, come l’Apple, in una scatola di montaggio.

La cosa interessante, oltre all’hardware, era che il software veniva dato gratuitamente insieme alla macchina. Ma non solo. Esisteva sempre più rafforzato questo spirito della socializzazione dei saperi, tanto che esistevano dei veri e propri club in cui questa scienza e cultura veniva diffusa assolutamente a tutti. Questa pratica in certe zone degli Stati Uniti si ripropone ancora tale e quale, tanto che l’industriale che citavo prima che mise in produzione l’Altair a tutt’oggi gestisce a San Francisco una scuola di informatica per poveri. Questo oramai a più di vent’anni di distanza, tanto per dimostrare che quei principi erano estremamente forti e radicati in quel tipo di comunità. Il software di cui si stava parlando prima, non solo veniva regalato insieme all’hardware, ma veniva anche distribuito a tutti coloro che ne facevano richiesta, oppure che partecipavano a queste riunioni; il primo che lo mise sotto copyright fu Bill Gates, con una versione del software “Basic” per la macchina Altair e questa cosa produsse una notevole riprovazione da parte della comunità (vedi in riguardo l’intervento di Raffaele “Valvola” Scelsi sul copyright).

 

Noi conoscevamo la storia di questo tipo di soggetti e ci sembrava che il percorso degli autori del cyberpunk andasse a toccare queste esperienze che erano reali. Così abbiamo cercato di andare a toccare, siamo andati appunto a visitare questi del Caos Computer Club, questi di Hacktic, l’esperienza americana contemporanea come questi di “2600” e abbiamo scoperto che stavano rilanciando tutto un nuovo modo di fare comunicazione.

Tra questi, uno fondamentale era quello della gestione diretta delle reti telematiche.

Questi gruppi proponevano e tuttora propongono (anche noi abbiamo aderito insieme a tante realtà italiane) questo tipo di distribuzione dell’informazione, che a quel tempo si era definito, con un termine un po’ difficile, come ‘rizomatica’. Intendendo con questo una struttura che ricorda quelle che sono le radici della patata e che sono fortemente interlacciate fra di loro e che sostanzialmente rappresentano l’unione di tante soggettività che si mettono insieme per creare una struttura che sia solida.

L’idea iniziale del Caos Computer Club, che è quello che meglio inizialmente ha studiato questo tipo di problema, era quello di creare una rete telematica; cioè di collegare diversi personal computer, collegati fra di loro con un modem e una linea telefonica, in una struttura tale che nel caso in cui un nodo di questa rete fosse venuito a cadere, l’intera struttura comunque si sarebbe sorretta, perché è la forza dell’insieme, non tanto della singola soggettività, che tiene su l’intera costruzione. In questo modo anche rilanciavano tutta una serie di riflessioni sul caos e sul caos come elemento fondamentale dell’informazione.

Ad esempio Wau Holland, che è stato uno dei fondatori del Caos Computer Club, dava una curiosa definizione di informazione: secondo lui informazione significa ‘mettere in forma’ una determinata materia che prima forma non ha e che quindi ha una struttura ‘caotica’. Ma come io ‘metto in forma’ in un modo particolare un determinato materiale, un’altra soggettività può metterla in forma con certe particolari caratteristiche che possono essere non esattamente simili alle mie. E’ proprio questa diversità tra gli oggetti o la materia che sono stati messi in forma che costituisce la ricchezza all’interno del campo informativo.

 

La letteratura cyberpunk si è totalmente sovrapposta a questo tipo di riflessioni e di pulsioni  e le ha addirittura rafforzate. Secondo me, la scena che chiamiamo ‘ ha trovato hacker’ proprio nella letteratura cyberpunk una sorta di riferimento letterario generazionale che gli ha permesso di spaziare ancor di più rispetto a quello che faceva in precedenza in orizzonti immaginativi nuovi e gli ha dato anche la forza per muoversi di più all’interno del sociale. Mi sembra che fino al 1986-87 la scena hackers fosse abbastanza marginale rispetto a un dibattito più complessivo. Successivamente invece, verso la fine degli anni ‘80, tra il  1988 e il 1989 e contemporaneamente in tutto il mondo, sto parlando chiaramente non dei paesi del terzo mondo, ma paesi in cui la tecnologia abbia raggiunto un livello sostanzialmente avanzato, in tutti questi paesi c’è stata una spinta analoga; cioè di soggettività che hanno proposto dei modelli di informazione che fossero alternativi, basati su dei modelli rizomatici oppure orizzontali, cioè in cui ogni partecipante è sullo stesso livello rispetto agli altri e in sostanza in contrasto con quelli che erano i modelli istituzionali oppure del mercato.

Le prime strutture che queste soggettività si sono date sono state delle reti telematiche molto semplici. Ad esempio, in Germania esisteva questa rete che si chiamava “Zerberus”. In Italia abbiamo fatto partire questa esperienza che si chiama “Cybernet”. Siamo partiti con forze molto ridotte, se non mi sbaglio con tre BBS per arrivare adesso credo a un numero di circa cinquanta nodi.

Successivamente questo tipo di mentalità si è totalmente trasposta all’interno di Internet, che già aveva una struttura di tipo rizomatico, non gerarchico. Questo, è curioso farlo notare, per ragioni di tipo bellico, ovvero, Internet deriva da una rete che ha un’origine di tipo militare e che proprio per questa ragione utilizzava il tipo di modello più autonomo per quanto riguarda la forza dei nodi che si potesse proporre. Ovvero, coloro che hanno pensato “Arpanet” (prima Internet si chiamava Arpanet) avevano ipotizzato come avrebbe reagito la rete in caso di attacco nucleare e hanno proposto un modello esattamente uguale a quello che descrivevamo prima e che abbiamo chiamato un modello rizomatico. Infatti seppur ci fossero una serie di ipotetici bombardamenti sui tanti nodi di Internet, i computer di Internet hanno una intelligenza per poter modificare il percorso della posta che avviene in maniera costante tra un nodo e l’altro, per bypassare i computer che sono danneggiati. In questo modo la rete mantiene la sua solidità.

Come ho detto, l’intero ragionamento si è rovesciato dentro Internet e proprio su Internet abbiamo le evoluzioni più interessanti di questa riflessione che oramai come vi dicevo è collettiva e che andata ben al di la di quelle dei ristretti circoli di hacker o cyberpunk di qualche anno fa.

Sta diventando un problema che oramai coinvolge l’intera società sia in termine di pratica, sia in termine di diritti.

Per quanto riguarda le cose più pratiche che adesso mi viene da citare penso ad esempio al significato che può avere nella nostra epoca la pagina WEB. Il senso evolutivo che la cosa ha avuto rispetto alle idee di fine anni ottanta. Anche se metto in discussione la struttura poca interattiva di una pagina WEB, dove la possibilità che è data all’utente di interagire è limitata allo schiacciare qualche bottone sulla pagina stessa o amandare un e-mail agli autori della pagina stessa, però è anche vero che queste pagine danno veramente la possibilità a chiunque, a dei costi ridottissimi, di far circolare l’informazione a livello mondiale. In questo senso proprio le cause delle minoranze su Internet hanno avuto un riscontro enorme. Io sono sicurissimo che la forza di Internet sta proprio in questo e che nel caso in cui ci fosse una commercializzazione estrema della rete (e questo della commercializzazione, lo sottolineo, è uno degli elementi di dibattito più centrali nell’ultimo anno) e al soggetto non fosse più data la possibilità di esprimersi, di qualsiasi soggetto si tratti, dalla minoranza nativa o pellerossa negli Stati Uniti, oppure dalla minoranza politica in Italia piuttosto che nello Sri Lanka, o cose di questo genere, Internet non solo perderebbe la grande importanza che ha come arena di dibattito a livello mondiale, ma credo anche che si affloscerebbe e diminuirebbe in termini di utenza.

 

Per chiudere mi sembra che questa esperienza del cyberpunk sia servita tantissimo per rinnovare il dibattito complessivo sull’informazione, e che sia stata utilissima, anche se questa cosa non viene riconosciuta, anche per l’affinamento di determinate tecniche di trasmissione da una parte (ad esempio per quanto riguarda tutte le bellissime evoluzioni che ha avuto Internet), e dall’altra per una discussione su questi problemi che si sono trasformati anche in istanze di diritti e che oramai riguardano l’intera società.