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Televisione e comunicazione

 

 

di Enrico Ghezzi

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(conferenza a cura di Tommaso Tozzi e Francesco Galluzzi

per il progetto “Arte, Media e Comunicazione”, 1997)

 

Buonasera, buona visione , buongiorno. No pronto non sono, perché credo che non si sia mai pronti, mai pronti a comunicare, mai pronti ad andare in diretta... mai pronti a esser pronti. Credo che sia la più grande truffa, leurre... chiamiamola leurre, è più bello, chanson, leurre... La diretta e la comunicazione sono l’ora dell’inganno, in particolare parlando di televisione (come mi è stato chiesto di fare un minuto fa, o qualche giorno fa), televisione credo che non abbia nulla a che vedere con la comunicazione se non per facoltà automatica, per automatismo. Non si può pensare nulla pensare di sapere come comunica la televisione è come pensare di sapere a cosa serve la vita, la vita vive o non vive... è una pura falla terminologica dire che la vita vive o non vive. Ugualmente la televisione comunica, come io sarei supposto comunicare forse perfino in questo momento. Ma non credo che in televisione qualunque sforzo soggettivo, qualunque sforzo o intento costruttivo, strutturale... Non c’è comunicazione perché ce n’è tanta, troppa. Un momento di televisione (un momento che può essere un giorno, un’ora, una mezz’ora di CNN, oppure un fotogramma a vostra scelta di questa inquadratura), non per virtù dell’eventuale soggetto parlante o di una scena parlante, o di corpi, o di linee, o di forme, di paesaggi, di cose, ma per virtù del fatto di far foggia di mostrarlo, comunica una tale massa di informazioni che il solo, non criticarle, lavorarci, ma il solo censirle, il solo rifletterle, richiederebbe tempi infinitamente superiori alla durata della vita umana, di attenzione abnorme impossibile da sostenere. Impossibile da sostenere, ma a quel punto probabilmente, in modo implosivo, diventerebbe la riflessione sull’istante... io di solito parlo dell’istante dell’innamoramento, che non è più un istante, che può esaurire un vivere, una durata del tutto tecnica. Che poi esaurire nel senso che non basterebbe la vita intera per chiedersi: come mai? E’ una cosa banale... Come mai da quello sguardo incontrato é nata una vita in due, tre, in mezzo, interrotta, ripresa... Perchè? Io credo che quasi mai si perda tempo quanto si potrebbe, e dovrebbe, su questi momenti brevissimi di tempo. Brevissimi sempre se rapportati a delle durate, durate di vita media, supposta, stimata, presunta in base alla media di durata tecnica delle vite precedenti. E la televisione ha questo, che ha una tale portata di comunicazione da eccedere largamente qualunque intento analitico, riflessivo, critico... questo non lo dico per ridurre a sua volta la portata di questo intento, anzi proprio per questa irrilevanza, per questa pateticità, questo intervento critico, riflessivo, etico può avere un senso... un senso...  un dissenso... E’ talmente irrilevante, talmente fuorviante, talmente volontaristico e patetico appunto, da meritarsi una sua bolla, un suo luogo non-luogo. Quello che nella televisione, nei sistemi televisivi, non tanto imperanti  ma semplicemente vigenti, é inqualificabile inaccettabile e infame è invece il ritenere che una comunicazione ci sia, funzioni in un modo o nell’altro, meglio così che cosà, che così funzioni di più... E’ quello che ci raccontano tutti i guru televisivi, o semplicemente i bravi comunicatori, come vengono definiti e si autodefiniscono, come amano essere definiti. Io trovo che anche in questo ci sia un fortissimo patetismo che a volte può far subentrare una tenerezza nel giudizio su queste persone, ma che è davvero il massimo dell’infamia, come far credere, non perché si è letto, perché ci si è macerati o perché si è stati... si è creduto di essere illuminati da una visione accecante... ma così, perché si è vissuto un po’ (quindi in base a un tempo trascorso) far credere di essere maestri, di avere da dire... La televisione è piena di ragnetti, insetti presi per caso nella rete televisiva che ritengono di sapere cosa è la televisione. In Italia... faccio un nome che faccio spesso e che è ingiusto fare, è anche divertente, anche sinistramente utile come inventore di una sorta di soap-opera, l’unica in Italia, infinita... dico Costanzo. Ma questa consulenza continua di Costanzo su come si parla in televisione, come ci si atteggia e come si deve essere... il modo di essere se stessi in televisione, che è il massimo della  perversione. E’ davvero inaccettabile, infame, perché presume di sapere cosa passa cosa influisce su cosa. Ora, è probabile che milioni di cose influiscano su recettori diffusi (tutti noi nel rapporto con l’immagine televisiva) ma definirla comunicazione, come dire che c’è una comunicazione tra noi... prima ho parlato di fiumi, di fluvialità... tra noi e un fiume, tra noi e un mare, tra noi e il cielo, tra noi e il vento. La comunicazione televisiva è molto più vicina, se vogliamo, alla comunicazione tra noi e un vento che non tra noi e un testo con codici di scrittura leggibili, posto che siano compresi, con codici di interpretazione legati a quelli di scrittura, e con decine o centinaia o migliaia di altri codici all’opera. Tra noi e il vento c’è una comunicazione che non sappiamo, non sappiamo in che modo il vento ci rende folli o liberi, ci massaggia o ci schiaffeggia, ci fa volare o ci fa tornare, un twister, oppure ci fa schiantare a terra e morire. Non so... Credo che la televisione, non per virtù ma di nuovo per automatismo... ancora più del cinema la televisione è così limitata come immagine, come apparecchio... anche se poi è moltiplicata, demoltiplicata, dall’idea di rete, in modo finalmente incontrollabile... Lo dico positivamente, tutta la paccottiglia teorica sulla incontrollabilità della televisione non è... è patetica, è labile... è l’abilità a proposito della incontrollabilità. Perché l’incontrollabilità televisiva è in effetti solo l’incontrollabilità del linguaggio, del puro dispositivo del linguaggio, del puro esser lì del linguaggio, disteso come un campo minato, dove ogni tanto si salta per aria, ogni tanto... E credo che invece far finta di possedere dei codici, e che alcuni di questi codici siano più importanti per possedere questo linguaggio, per parlarlo, per interpretarlo, per farlo funzionare, sia davvero... forse un unico luogo dell’infamia oggi, mentre ogni rete di immagini, ogni circuito di immagini o linguaggio ci ragguaglia su questa distanza, sulla nostra distanza rispetto anche alla semplicissima, nuda e vuota, idea di linguaggio. Credo che questo presumere di conoscere o di avvertire il funzionamento di questa rete sia davvero in effetti il modo più oscurantista di giocare con questa rete. Far credere che si possa sapere come funziona, che cosa passa meglio... Parlo di televisione ma non è diverso il discorso rispetto alle reti. Quella televisiva è una rete massiccia, vecchia, facilmente controllabile rispetto a una rete come Internet, dove il controllo è a priori, è nell’atto di mettere a disposizione, poi c’è una sorta di esplosione-diffusione... Le reti televisive fino ad oggi praticamente in tutto il mondo sono reti molto controllate, legate a capitali e poteri più o meno forti, e comunque abbastanza identificabili. Eppure anche questa forma larvale, molto tecnicamente definibile, non controllabile ma descrivibile, di immagini, è quello che poi sembra essere quello verso cui corre la rete delle reti, l’Internet di Internet, dove in modo anche (sempre ipotizzato, ma mai previsto in tempi così brevi, nonostante il ritardo terribile tecnologico) si sta riformando una sorta di televisione di televisioni, una sorta di rete di televisioni. Il crollare direi, più che il correre, il collassare delle reti verso la rete di immagini è impressionante. Quella che mi era sembrata una zona di scritture, di scritture nel senso tecnico letterario, scritturale, antico si sta rivelando come una zona di scritture di scritture, cioè di rete di immagini. Non  credo che nell’accesso via rete ad una miriade di immagini ci sia né più né meno libertà, per esempio. Credo che l’effetto più auspicabile sia quello davvero di un collasso dell’idea stessa di comunicazione. Di un collasso dell’idea stessa della necessità della comunicazione. Presto i soggetti in gioco saranno ognuno troppo ricco di dati e di informazioni e insieme troppo poco atto a decifrarle. Non solo quelle che riceve, a decifrare quelle stesse che può a sua volta rimettere in gioco. E non parlo solo di informazioni e comunicazione culturale, culturalizzata, parlo anzi proprio dell’informazione, e anche, delle informazioni e dei dati in qualche modo sbobinabili, cioè considerare i soggetti come bobine che senza più darsi e avere il tempo di riflettere, trascrivere, produrre testualmente istanze di comunicazione si danno come in comunicazione, letteralmente si sbobinano, si offrono... in modo davvero incontrollato, incontrollato da loro stessi. Non incontrollato da chi poi avrà questa sbobinatura di fronte, tra le mani, davanti agli occhi, tra le dita, ma per loro stessi. Credo che la rete delle reti sia questo, invece che la illusorietà della comunicazione, sia la certezza di non aver luogo, la certezza di non avere nulla da comunicare se non il fatto di esser fatti, se non il fatto di essere lì, quindi di avere qualcosa in termini di spazio-tempo da... da essere - io uso il termine “sbobinato”...più che tecnicamente, dando un senso mentale, proprio di iniettarsi, farsi iniettare in un circuito dove a sua volta chiunque acceda tutto avrà fuorché il tempo di rielaborare questo afflusso, questa iniezione. Potrà avere solo istantaneamente... Faccio per ridere, “istantaneamente” non esiste... Istantaneamente, istante, istantaneo è il... in realtà è una tragedia questa situazione di comunicazione... non “che viviamo”... che non viviamo. Perché l’istantaneo è l’unica cosa che non esiste, se non come proiezione mentale. L’istantaneo non esiste in rete, c’è sempre questo tempo infinito di attesa - per infinito intendo due secondi, una cosa inaccettabile, inqualificabile... inqualificabile, intendiamoci, rispetto alla promessa di istantaneità, rispetto a questa sorta di palla telepatica in cui saremmo se le reti funzionassero, se le reti avessero delle risposte endogene, se attivassero immediatamente i loro specchi. Invece anche quando si è molto privilegiati, si spende molto o si ruba molto, evidentemente qualcosa bisogna aspettare. Cioè molto più di quello che posso aspettare adesso dove sicuramente ho dei tempi di reazione che un attrezzato laboratorio scientifico potrebbe misurare, ma tra la mia decisione - decisione? non è una decisione la mia di fare così [si gratta la testa n.d.r.] - e il farlo io non ho tempo di percepire una distanza, e mentre la percepisco la posso apprezzare ma nello stesso tempo mi appare terribile. E invece c’è gente che si reputa fortunata perché cliccando riesce (magari è un provider) riesce ad arrivare su siti lontani, diruti, desueti, o su zone di immagini... molto più rapidamente di altri, invece di aspettare trenta secondi, un minuto, cinque minuti... aspetta cinque secondi, ma cinque secondi  sono un tempo eterno rispetto alla sfera in cui il tempo non esisterebbe. Intendiamoci, quei cinque secondi di solito ti mettono a disposizione una massa di informazioni che vorrebbe dire (avrebbe voluto dire fino a cinque, sei, dieci anni fa) accedere a una biblioteca, mandare qualcuno, far cercare o cercare, telefonare, chiedere, farsi faxare... una serie di operazioni e infine lo stesso risultato, poniamo, cartaceo. Ma in quel modo sarebbe stato... non dico, nostalgicamente, “tempo di vita, che bello”... anzi “tempo perso”, bruciato, speso, però con il senso di viverlo, quel tempo. Mentre quei tre secondi (cinque, dieci, cinquanta secondi, cinque ore per chi lavora molto sulla grafica) di attesa sono terribili rispetto alla promessa di istantaneità. Cinque ore di attesa per un grafico, per un pittore, davanti allo schermo, dati gli input, credo che siano cinque secoli, rispetto, non dico al pennello o alla matita, rispetto a questa ulteriore illusione o prima illusione, non del far corrispondere, ma dell’agire istantaneamente. Questa telecomunicazione ultima in rete assomiglia molto a un’ipotesi di passeggiata, non effettuata per procura, ma effettuata senza passeggiare. Devo, forse voglio passeggiare, e mi ritrovo a passeggiare tra cinque secondi, in via Tornabuoni (visto che stiamo registrando a Firenze). Ci metterei più di cinque secondi per arrivare in via Tornabuoni, ma aspettare cinque secondi ed essere trasportato lì, poi senza bisogno di muovermi, oppure con dei passi che vengono mossi loro da altri motori. Ecco questa illusione di possedere l’istante, di corresponzione immediata tra atto e utenza, è un orizzonte attuale della comunicazione ed è nello stesso tempo il più fallace. Sembra molto lontano dalla televisione. Io non credo, perché la televisione ha anche di suo molto forte questo particolare inganno di proporsi come diretta. Particolare inganno che tra l’altro è il modo più vero della televisione. La televisione io credo che sia sempre ‘in diretta’, che abbia questo di unico tratto di definizione. La televisione costeggia sempre, fiancheggia sempre il tempo che uno si illude di avere o di vivere. Comunque è così da almeno quindici o vent’anni in tutto il mondo, dall’apparizione delle televisioni non stop, anche se non a caso la televisione è sempre stata... è nata come promessa di diretta, come promessa di comunicazione facile a grande distanza, di immagini tempo di un luogo, una sorta di immagine movimento sovrapposta all’immagine tempo di tipo filmico, di base. Io credo che la comunicazione televisiva sia soprattutto l’accettare di trovarsi comunicati, più che di comunicare o di farsi comunicare, più che di lavorare più o meno coscientemente o coscienziosamente perfino (artisti, conduttori, professionisti) mediante alcuni dei codici in atto. Televisione... “tele-visione” è tecnicamente molto preciso, questo “-visione” è un termine ambiguo, tra lo scientifico e il mistico. Credo che sia vicino a rendere lo scacco della televisione. In quel “tele-”, in quella distanza, che poi viene annullata, che si tende a annullare, sta tutta la possibilità di rendersi conto che si tratta di una visione. Io credo che mentre per definire il cinema si adopera la macchina cartesiana del dubbio, del dubbio sulla visione, visione dalla finestra, persone, statue di cera, fantasmi... maschere, mantelli, su manichini... E’ un dubbio che ha ancora a che vedere con la saltuarietà in fondo, tecnica, tecnico-formale, tecnico-sistematica,  nel sistema cinema c’è una limitatezza dei manufatti... in fin dei conti poche decine di migliaia di film sono stati fatti. Poi film è già così... parliamo di “lungometraggi”, oggetti abbastanza riconoscibili, legati novantanove su cento ad uno sviluppo narrativo ipertradizionale. Diciamo che ci possiamo illudere di controllare... Ma con la televisione e con... ma non c’è tabella blu, televisione buona, cattiva, con la televisione, qualunque televisione, tutto questo sistema è realizzato e insieme oltrepassato. Finalmente non c’è l’illusione di avere il tempo di riflettere. Potevamo averlo su un film, pateticamente, perché basta un film del 1903 di dodici minuti ad accendere la nostra possibilità di riflessione. Ma con una cosa che cola ogni momento, parallelamente al film-vita personale, la possibilità non dico di controllo, ma di riflessione, di aggiustamento, è o nulla oppure - ma qui c’è un salto molto forte, che di solito si rifiuta di compiere - oppure simile, paragonabile a quella che c’è di aggiustare, di paragonare, di porre in relazione il mio tempo, la mia ipotesi, la mia illusione, la mia passione nel senso della passività di vita, con quella di un amico, di un figlio o di una figlia, di un amore, di una parentela...Non di più né di meno. Nel momento in cui le immagini, anche il più stupido degli spot, passano in un circuito ininterrotto di immagini (ininterrotto tecnicamente proprio), ogni immagine avrebbe bisogno di una genealogia, di un giudizio morale, proprio per distinguersi dalle altre, proprio per essere nominata... E non ne abbiamo il tempo, o forse non vogliamo avere il tempo di vedere così, così come il novanta per cento delle persone che incontriamo non vengono toccate dal nostro sistema degli affetti, dal nostro sistema dei valori... Toccano pochissimo i nostri codici, escono per strada in una città affollatissima, in Cina o Roma, Milano, a Tokio nella metropolitana... oppure a Firenze alle tre di notte, che sembra di vivere in una città deserta e lunare, e anche in questa città deserta e lunare incontro una decina di persone quasi tutte attraversabili, inesistenti, con le quali non mi metto in gioco. Che mi attraversano e che attraverso. Con la televisione avviene - e secondo alcuni è un atteggiamento sano, oppure no, è un atteggiamento infame. Conto... se vedo poca televisione, sono centinaia e migliaia di traiettorie umane, antropologiche, ogni giorno, se ne vedo molta, anche decine di migliaia... Bambini, bambini che si dice di voler proteggere dalle decine di atti di violenza che ci sono in una giornata televisiva... proteggere insomma, come se non fosse un atto di violenza (se si parla di violenza) l’essere in parallelo con centinaia di migliaia di vite al giorno per un bambino di quattro anni che a chi lo segue, a chi vive con lui, a volte può sembrare in difficoltà con due persone nuove che vede una sera. Oppure non in difficoltà, talmente a suo agio, talmente coinvolto da poterci fare immaginare lo sforzo di frustrazione per il non entrare in un simile contatto con tutte le persone che gli passano accanto televisivamente in un giorno. Credo che l’analisi più attenta, più acuminata, più dolente o più entusiastica (perché ci sono analisi entusiastiche) del sistema televisivo, del sistema telematico sia, fino a oggi almeno, forse pateticamente inadeguata rispetto alla portata minima, cioè portata automatica, di qualunque attimo una volta così parallelizzato a oltranza. Trovo che ci sia più pathos, più intelligenza di questa folla-follia in una pagina qualunque dedicata alla Londra  dell’800 di Dickens, che nell’entusiasmo paratecnologico di un medio lettore di Dick (...Dick... Dickens...) entusiasta della possibilità di scavare itinerari semiliberi, paraliberi per dire, attraverso le reti, di navigare, di mettere in relazione punti, di disegnare praticamente, di fare l’animazione, di prendere la matita e unire due punti oppure fissare due punti e unirli, oppure fare un segno uno sgorbio, dire che è una retta, come sarebbe... anzi è possibile e tecnicamente esatto. Ecco, credo che i cosiddetti comunicatori televisivi dovrebbero cominciare... che so... a urlare e dire “scusate se in questo momento sto in silenzio”, oppure a tirare della cacca verso lo schermo (Funari lo faceva col prosciutto) e dire “queste rose sono per voi”, invece che dire “guardate che belle queste rose”, cioè fare i venditori. Si vende quasi tutto in rete e in televisione, soprattutto le facce, e quello è il modo più subdolo, quelle storie e poi... non i valori, che sono difficili, ma le valenze, i pesi, le forme, le guance, i colori... Credo che la televisione sia, non la parodia della comunicazione o della comunione, ma sia anzi la forma esatta, in quanto parodistica a oltranza, della possibilità di comunione. Sia una sorta di scheletro tecnico di questa possibilità. Parlando di televisione amo regredire ogni volta davvero al cinema, perché il cinema non ha, se non in modo larvale, mai tecnicamente rispondente, non ha l’illusione della rete. Il cinema è molto quantificabile, in fondo è fatto ancora da testi, diciamo, possiamo illuderci che sia fatto di testi. Eppure ripeto, questi pochi, relativamente pochi, testi bastano da soli a impedirci di essere analizzati, a impedirci di analizzarli. Quindi vorrei dire con la televisione è così scontato... non vorrei parlare qui di critica televisiva, cosa c’entra, sono piccole autoanalisi dentro il teleschermo, non sono certo contraddizioni rispetto a quello che sto dicendo in questo momento. Piuttosto la televisione, con la sua capacità, possibilità di accogliere tutto, sembra essere davvero un Grande Vetro. Non un grande vetro nel senso dell’acquario, un Grande Vetro proprio nel senso duchampiano, un grande vetro già rotto, non più ricomponibile perché è rotto. Un grande vetro che permette, potrebbe permettere ad una piccola parte di noi - noi non più come soggetto, ma come  soggetti diffusi, gassosi - di vederci di qua e di là. Non ‘di qua’ davanti al vetro, da una parte c’è il soggetto dall’altra c’è il sottovuoto, il sottoacqua, l’acquario... No, voglio dire, acquario di qua e di là, non c’è una parte esatta del vetro. Ecco, la televisone, se può comunicare qualcosa, comunica ad ogni istante questo. E’ vero che tutta la pratica dell’ascolto televisivo, il discorso della televisione sulla televisione, è potentemente esorcizzante in questo, è un sistema di codici messo in atto per vivere nonostante la televisione. Come Bunuel diceva che sarebbe bastato per il cinema riflettere la palpebra, riflettere il biancore della luce accecante per far esplodere il mondo, e il cinema stesso. Ecco la televisione è una potentissima macchina negativa, una potentissima macchina del nulla. Se uno davvero pensa alla televisione, pensa a una tale ignavità che si trova improvvisamente connesso ai massimi sistemi di pensiero, alle massime esperienze di pensiero e di follia, di tragedia, non solo dell’occidente, anzi, la televisione è il luogo in cui occidente e oriente non solo si toccano, ma sono letteralmente la stessa cosa, in cui il giro è continuamente completo, in cui il sol levante è il tramonto e viceversa. Buona visione.