Arte, media e comunicazione
di Francesco Galluzzi |
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(conferenza a cura di Tommaso
Tozzi e Francesco Galluzzi per il progetto “Arte, Media e Comunicazione”,
1997)
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Per il nostro argomento è importante una puntualizzazione
preliminare, la distinzione tra i rapporti che l’arte ha intessuto con la
tecnologia e quelli intessuti con il sistema delle comunicazioni di massa. La
trasformazione e il progresso tecnologico hanno sempre influenzato il percorso
dell’arte. Ad esempio è universalmente riconosciuta l’importanza della scoperta
dei colori a olio per le peculiarità della pittura fiamminga tra Quattrocento e
Seicento. E molti altri esempi potrebbero essere. Certo è però che questo
rapporto, senza essere deterministico, rimaneva in qualche modo ‘sotto la
superficie’ dell’arte, senza inciderne in qualche modo l’autocoscienza. Solo
nel Novecento, dopo un secolo di effetti della rivoluzione industriale e in un
clima di dilatazione semantica del significato della parola “arte” (che non
indica più soltanto la pittura e la scultura e si apre alla pratica dello
sconfinamento) questo rapporto viene assunto in maniera problematica, a partire
dalle avanguardie storiche e dalla macchinolatria futurista e dadaista, e poi
ai nostri anni e alle ricerche sulla Realtà Virtuale di artisti come Jaron
Lanier.
Diversa è la questione del rapporto tra arte e
comunicazioni di massa. Fino dall’antichità l’arte si poneva soprattutto come
grande strumento di comunicazione e propaganda - e rispetto a questi caratteri
erano decisamente secondari i valori estetici cui oggi attribuiamo una
importanza primaria. Gli affreschi nelle chiese (non a caso definiti “Bibbia
dei poveri”) avevano la funzione di coadiuvare visivamente l’apprendimento
delle storie sacre che il pubblico dei fedeli (in massima parte analfabeta)
sentiva recitare dal pulpito, con un esempio di immersione plurisensoriale
(oggi diremmo “multimediale”) spesso rafforzato anche dalla messa in scena di
Sacre Rappresentazioni imperniate sugli stessi soggetti. Oppure ricordiamo i
rotoli miniati degli Exultet, dove le illustrazioni erano capovolte
rispetto al testo perché i fedeli potessero vederle dal pulpito durante la
lettura del testo.
La questione resta sospesa, per cosÏ dire, tra XVII e XIX
secolo. La stampa e l’alfabetizzazione spingono a privilegiare altri mezzi di
comunicazione più adatti ad una diffusione di massa, e nella valutazione
dell’arte si privilegiano piuttosto criteri di tipo diverso - dalla teoria
manieristica del “genio” alle normative accademiche per la composizione del
quadro, strutturate secondo gerarchie di ambito e di genere. Sono gli anni in
cui si definisce e si afferma, in relazione all’arte, quella problematica del
“bello” che in qualche modo accompagnerà arte ed estetica fino all’età moderna,
con i suoi corollari di eternità dei valori che determinano (prima ancora della
“qualità) la “artisticità” di un’opera. E’ sintomatico che, ancora nel 1853,
Karl Rosenkranz nella sua Estetica del brutto negasse “artisticità” a tecniche come ceroplastica e
dagherrotipia (antesignana della fotografia), in quanto destinate a riprodurre
il transitorio e non l’eterno. Linguaggi quindi destinati alla comunicazione,
che non erano ontologicamente in grado di attingere lo status di opere d’arte
(concettuale e sociale).
Il problema del rapporto con la comunicazione rinasce alla
fine dell’800, su basi ovviamente del tutto diverse. Si può indicare una data
simbolica per la reimpostazione del problema col 1896, anno in cui succedono
moltissime cose, tra cui tre fondamentali per il nostro argomento. In
quell’anno si può collocare la nascita del cinema con i fratelli Lumière, dei
fumetti con Yellow Kid di Richard F.Outcault, e del luna-park moderno con il
primo parco di divertimenti a elettricità di Coney Island a New York. Si
afferma insomma l’industria del divertimento di massa, preparata da alcune
esperienze nelle quali erano state ‘volgarizzate’ alcune forme di arte ‘alta’,
come la pittura dei Panorami (uno degli antecedenti del cinema, assieme alle
ombre cinesi o alla lanterna magica) o il teatro dei burattini (esiste al
proposito un importante saggio di Kleist sulla marionetta).Proprio l’ultimo
esempio ci offre una interessante occasione per osservare il funzionamento
delle contaminazioni tra cultura alta e comunicazione popolare. Uno dei grandi miti
di fondazione della cultura occidentale, quello del Dottor Faust, venne
codificato nella sua forma più complessa da Goethe - che scoprÏ la sua storia
assistendo ad uno spettacolo di burattini, dove era trasmigrata dal romanzo
cinquecentesco di Johann Spies e dalla tragedia seicentesca di Cristopher
Marlowe. Testimonianza esemplare (se mai ce ne fosse bisogno) del fatto che,
quando si affronta il problema dei rapporti tra cultura bassa e cultura alta,
si deve procedere su percorsi non lineari e non univoci, non riducibili alla
semplice influenza dell’ alto sul basso.
Un altro esempio può essere l’adozione delle cosiddette
“stampe di Epinal” (le illustrazioni tipiche di almanacchi e altre
pubblicazioni di destinazione popolare edite in Francia nell’800) tra le fonti
della propria cultura visiva da parte del pittore realista Gustave Courbet.
Rivendicando la dignità della propria vena realista accanto e contro le
convenzioni accademiche di bella pittura e dignità dei soggetti, Courbet
recuperava nelle proprie opere sia la memoria dei grandi maestri del passato
come Caravaggio o Rembrandt, sia le immagini popolari che costituivano la
cultura visiva di quel popolo contadino e operaio dal quale traeva i suoi
soggetti e al quale voleva rivolgersi.
Il 1896 è quindi l’anno che abbiamo scelto per indicare
simbolicamente la data della presa di coscienza da parte degli artisti (e di
tutto il mondo della cultura) di essere entrati in quella che Walter Benjamin
ha chiamato “l’epoca della riproducibilità tecnica”. Questa possibilità di
“fare a macchina”(la fotografia, poi il cinema...), come termine di confronto
per le arti visive (Picasso diceva che il pittore, dopo l’avvento della
fotografia, sa finalmente quel che non deve fare), introduce di nuovo la
problematica delle relazioni tra arte e comunicazioni di massa nel corpo delle
problematiche estetiche contemporanee. Ma con una differenza fondamentale
rispetto alla impostazione tradizionale del problema. L’arte non è più un mezzo
di comunicazione, sostituito da altri più veloci ed economici (quindi più
efficaci per la diffusione). Ma contemporaneamente le avanguardie storiche si
rivoltano contro una concezione dell’opera tradizionalmente tautologica ed
autosignificante, inserita in un percorso storico autonomo in cui i presupposti
e i criteri di valutazione di ogni singola opera si determinano esclusivamente
in relazione a altre opere, secondo processi tutti interni al sistema
dell’arte. Alcune avanguardie storiche invece si pongono in un atteggiamento di
presa diretta nei confronti della realtà, cercando aperture non solo formali
nei confronti del mondo e della vita, i cui materiali entrano a far parte del
tessuto connettivo dell’opera. I collage cubisti assorbono ritagli di giornale,
menù di ristoranti, spartiti musicali... e cosÏ i polimaterici futuristi - una
frenesia che si spinge fino ai primi happening futuristi e dadaisti. La logica
delle avanguardie si pone in maniera frontale contro il presente artistico,
assumendo nel contempo le pratiche sociali loro contemporanee come elementi
costitutivi dell’opera. In questo senso vanno intese ad esempio le
sperimentazioni fotografiche e cinematografiche di artisti come Léger. L’opera
d’arte, contaminandosi con i mezzi di comunicazione di massa e con le pratiche
sociali, diventa quindi un esercizio sociale. Non a caso alcuni gruppi di
avanguardia annunciano il superamento dell’arte come suo dissolvimento in una
esteticità diffusa nella vita (riprendendo su nuove basi la profezia hegeliana
della “morte dell’arte”, che sarà un tema capitale per il XX secolo) - sia pure
in maniere differenti. I futuristi
ipotizzano la possibilità di plasmare tutto il mondo sul modello futurista e
aprono il mito romantico dell’Opera d’arte totale ad aspetti ‘non artistici’
come l’abbigliamento “futurista” o la cucina “futurista”. I movimenti delle
avanguardie russe o il Bauhaus tedesco praticano un esaurimento della vecchia
concezione di opera nelle applicazioni del design industriale, dei nuovi
media come la fotografia e della pubblicità. Non a caso questi gruppi,
nell’ambizione di trasformare l’arte in una pratica sociale, si trovano a
fiancheggiare - in misura diversa - movimenti politici. Se i futuristi saranno
prima interventisti e poi fascisti,
costruttivisti e produttivisti russi aderiranno incondizionatamente alla
rivoluzione bolscevica, e l’esperienza del Bauhaus sarebbe impensabile fuori
dal momento di apertura democratica della Repubblica di Weimar (dove per altro
verso si incontra uno dei primi momenti di dibattito sui mass-media in senso moderno,
con la discussione sulla radio che coinvolse Brecht, Benjamin, Adorno e
Arnheim).
Ma non si deve compiere l’errore di limitare il panorama di
questi avvenimenti ai casi delle avanguardie storiche. Anzi, in casi come
quello italiano sembrerebbe quasi che fossero i settori comunemente giudicati
conservatori dell’arte e della cultura a intuire l’altro fenomeno di portata
epocale che la nascente società delle comunicazioni portava con sé, cioè il
sorgere di una industria culturale delle comunicazioni e dello spettacolo.
Furono infatti pittori come Sartorio o Cambelotti, poeti come D’Annunzio o
Gozzano che collaborarono con il cinema ‘commerciale’ e con la pubblicità,
piuttosto che artisti come Boccioni (che la abbandonò non appena divenne
futurista) o Soffici. Diversa è, certamente, la situazione del resto
dell’Europa, dove Léger realizzava film sperimentali, ma anche scenari per il
cinema commerciale (anche se era quello
di Abel Gance), e El Lissitzky e Majakovsky curavano le campagne di propaganda
del regime sovietico. Anche in questo caso, come in quello del Faust, la
situazione è complessa, insomma.
Un altro spartiacque fondamentale si incontra nel secondo
dopoguerra, con l’affermarsi di quello che ormai è considerato il mezzo di
comunicazione di massa per eccellenza, la televisione. La “televisione” si
impone attraverso gli anni Cinquanta e Sessanta come paradigma tutto sommato
elastico, capace di modellarsi ed adattarsi a tutti gli aspetti della realtà
per transustanziarli ed evidenziarne gli inediti caratteri “simulacrali” (si
pensi alla problematica della cosiddetta “neo-realtà” prodotta attraverso media
events, eventi che acquistano il proprio senso e la propria concretezza dal
fatto di essere eventi prima di tutto televisivi - grandi manifestazioni sportive,
accadimenti di rilevanza sociale internazionale, ecc.). La televisione, la sua
diffusione di massa e poi la possibilità di acquisire i mezzi per “fare la
televisione” (telecamere, videoregistratori ecc.) in maniera relativamente
economica, aprono un momento fecondo e complesso per la sociologia della
cultura e della comunicazione. In generale si sviluppano, diffondendosi dagli
USA, studi sulla nuova cultura di massa. In particolare, nei riguardi della TV
si possono riconoscere due punti di vista, riconducibili rispettivamente alla
metafora del “villaggio globale” di Marshall McLuhan (che vedeva nei nuovi
media gli strumenti per l’avvento di una nuova era dell’umanità), e nelle
pessimistiche analisi dei “persuasori occulti” di Vance Packard (che negli
stessi mezzi vedeva nuovi e più sottili strumenti di manipolazione del
consenso). E’ la polarizzazione tra “apocalittici e integrati” proposta da
Umberto Eco in un libro giustamente famoso. In qualche modo le ricerche
artistiche partecipano di questo clima, con movimenti come la pop, Fluxus,
l’iperrealismo - estremamente puntuali e attenti nel mantenere un confronto
aperto con l’iconosfera mediale del nuovo paesaggio urbano e con i nuovi
comportamenti. Questi movimenti sono anche l’humus nel quale fermenta e sboccia
quel particolare fenomeno definito ormai “videoarte”, che si caratterizza
proprio per esplicitare nel suo stesso specifico (in quegli anni è
importantissima, nella critica letteraria, e più ancora in quella
cinematografica, la questione dello “specifico del mezzo”) il tema del
confronto con i mezzi di comunicazione di massa, adottandone le caratteristiche
tecnologie per porre in campo il problema della loro decostruzione. Coniugando
l’ottimismo tecnologico di McLuhan e il pessimismo sociologico di Packard,
certa videoarte si pone il problema di registrare una realtà senza mediazioni,
in “presa diretta”, per denunciare implicitamente i meccanismi di
falsificazione attivi in quella che il teorico del Situazionismo, Guy Debord,
nel libro omonimo del 1967, definirà la Società dello spettacolo. Nel
1965 Nam June Paik (l’artista fluxus coreano tra i padri della videoarte)
riprende immagini casuali del traffico di New York e le ripropone la sera
stessa durante un happening in un locale del Greenwich Village, il Café a Gogò
(il video viene intitolato Cafe Gogo, 152 Blecker Street, October 4 and 11,
1965, World Theater,9.P.M.) Altri artisti, come Joseph Beuys o Vito
Acconci, utilizzano il nastro magnetico per documentare le loro lunghissime
performance in tempo reale. La televisione quindi, accanto ai suoi caratteri di
manipolazione delle coscienze e di formazione del consenso, permette di
alimentare l’utopia della possibilità di trovare “la lingua scritta della realtà”
(una definizione che Pasolini aveva coniato per il cinema). E’ evidente come
questa poetica dipenda e superi le operazioni di due personaggi in modo diverso
imprescindibili per i temi che stiamo affrontando, John Cage e Andy Warhol. La
poetica della casualità e della presa diretta è già nelle partiture musicali di
Cage, e il cinema di Warhol affrontava problemi analoghi in relazione
all’audiovisivo. Senza scendere oltre nella ricerca delle filiazioni, bisogna
almeno ricordare il debito da tutti costoro riconosciuto nei confronti della
poetica del ready made proposta agli inizi del secolo da Marcel Duchamp, che
proprio negli anni Cinquanta era stato finalmente riconosciuto a pieno titolo
come uno dei padri fondatori dell’arte del Novecento.
Le reti telematiche hanno aperto una nuova prospettiva, che
sposta radicalmente i termini del problema. E’ possibile porre la questione di
una comunicazione policentrica, orizzontale - nella quale si modificano (e
forse diventano insensate) questioni come quella della simultaneità, o quella
dell’identità... L’equivoco mito della comunicazione che ha traversato tutto il
nostro secolo sembra contemporaneamente esaltato e vanificato dai cambiamenti
imposti dalla telematica. Come sempre, l’apparire di un nuovo mezzo di
comunicazione innesca una serie di trasformazioni nelle pratiche sociali. La
televisione, ad esempio, si fonda su un paradigma di ricezione e comunicazione
dialetticamente articolato tra atomizzazione e universalità - anche se è sempre
stata forte la tendenza a vedere la TV in gruppo, prima nel bar poi nel salotto
del nucleo familiare. Le reti telematiche, che dopo la loro nascita in ambito
militare hanno sviluppato nella loro diffusione un paradigma comunitario di
condivisione, richiedono una comunicazione che ha senso soltanto se avviene
all’interno di una comunità - e dà vita ad una comunità nel suo stesso
procedere. La comunicazione on line è un ‘new media’ solo nella misura in cui
produce nuove comunità, mobili, metamorfiche e provvisorie (le tribù
telematiche di cui si è tanto parlato).
Ritorna allora di scottante attualità il discorso sulla
“minorità” proposto a partire dagli anni Settanta da Gilles Deleuze e Felix
Guattari, iniziato col libro Kafka. Per una letteratura minore. La
riflessione su una “minorità” della letteratura (partendo appunto da alcune
note del diario kafkiano), come possibilità per piccole comunità di ritagliare
nel corpo della lingua “maggiore” uno spazio di eversione si collegava alle
esperienze sociali, metaforicamente ‘di rete’, dei movimenti controculturali
degli anni Settanta, quando l’antagonismo politico-culturale diventava stile di
vita, moda, sottocultura - un percorso che va dall’esistenzialismo al beat, al
punk e al cyberpunk (e per altri versi è tangente a esperienze come quelle
della deriva psicogeografica situazionista). Oggi la “minorità” (come molte
altre teorizzazioni del pensiero francese della differenza, da “Tel Quel” alle
ricerche sui modelli comunitari di Maffesoli e Nancy) è diventata, attraverso
la ‘battaglia’ che si combatte tra i diversi paradigmi di utilizzazione delle
reti telematiche, esperibile nella pratica sociale della comunicazione, oltre
che nelle ricerche teoriche. Paradossalmente, il pensiero si fa materiale
attraverso quei mezzi che, per un altro verso, innescano processi di
virtualizzazione della carne.
Le esperienze di arte e comunicazione si distinguono anche
per un altro motivo da quelle che mettono invece in questione il nodo dei
rapporti tra arte e tecnologia. Quando si lavora sulla comunicazione, si
vanifica forzatamente il tabù del “nuovo” e dell’inedito (che era stato una
sorta di ‘religione’ per le avanguardie e le neoavanguardie), privilegiando
invece le capacità di riciclare anche vecchie esperienze per utilizzarle in un
contesto di contaminazione con la quotidianità extra-artistica (il riciclaggio è
stato uno dei canoni estetici delle mode culturali cui si faceva prima cenno).
E si risolve anche un altro equivoco, in cui era riconoscibile uno dei punti
deboli di Fluxus, quello dell’affermazione di un rapporto arte-vita, dove arte
e vita venivano assunti come valori assoluti, non problematizzati.
L’assunzione di una pratica sociale comunitaria come punto di riferimento per
l’attuazione di questo rapporto relativizza i due termini, permettendo di
pensare finalmente l’arte e la vita come scritte, metaforicamente, ‘con la
minuscola’. Con una salutare, polemologica, minorità dell’esperienza.
Francesco Galluzzi.
BIBLIOGRAFIA ESSENZIALE
Mi sembra superfluo presentare una bibliografia sulle
comunicazioni di massa, dato che gli altri interventi sono già più che
esaustivi sul tema. Anche le questioni di storia dell’arte qui ricordate
possono essere reperite su un qualsiasi manuale. Mi limito quindi a indicare
alcuni testi per un primo approccio ai diversi orientamenti della questione
arte-media, e poi i riferimenti bibliografici per i libri citati nel testo, o
per libri che affrontano puntualmente questioni qui discusse.
Arte e media
J.A.Walker, L’arte nell’età dei mass media, trad.it.
Roma, ERI, 1987
K.Varnedoe-A.Gopkin,
High & Low. Modern Art and Popular Culture, New York, MOMA, 1990
L.Taiuti, Arte e media. Avanguardie e comunicazione di
massa, Genova, Costa & Nolan, 1996
S.Home, Assalto alla cultura. Correnti utopistiche dal
Lettrismo a Class War, trad.it. Bertiolo, AAA, 1996
Riferimenti nel testo
K.Rosenkranz, Estetica del brutto (1853), trad.it.
Milano, Olivares, 1994 (antologia).
M.Schapiro, Courbet e il repertorio delle immagini
popolari. Saggio sul realismo e la naiveté (1941), in Id., L’arte
moderna, Torino, Einaudi, 1986
W.Benjamin, L’opera d’arte nell’epoca della sua
riproducibilità tecnica (1955), trad.it. Torino, Einaudi, 1966
F.Menna, Profezia di una società estetica, Roma,
Lerici, 1968
M.McLuhan, Gli strumenti del comunicare (1964),
trad.it. Milano, Garzanti, 1967
V.Packard, I persuasori occulti, Milano, Il
Saggiatore, 1971
U.Eco, Apocalittici e integrati, Milano, Bompiani,
1964
M.W.Bruno, Neotelevisione. Dalle comunicazioni di massa
alla massa di comunicazioni, Messina, Rubettino, 1994
S.Bordini, Videoarte e arte. Tracce per una storia,
Roma, Lithos, 1995
G.Debord, La società dello spettacolo (1967),
trad.it. Milano, Baldini e Castoldi, 1997
G.Deleuze e F.Guattari, Kafka. Per una letteratura
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R.Debray, Vie et mort de l’image.
Une histoire du regard en Occident, Paris, Gallimard, 1992