Esperienze di controinformazione: dal ciclostile al network eterno
di Vittore Baroni |
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(conferenza a
cura di Tommaso Tozzi per il progetto “Arte, Media e Comunicazione”, 1997) |
C’é chi fa risalire le origini della comunicazione
controculturale su stampa a tempi molto remoti, addirittura Nico Ordway cita
come precursori in un suo saggio (in Zines! vol.1, V-Search, San Francisco 1996) i Vangeli apocrifi e i
libelli di sette religiose medioevali, o anche le riviste delle avanguardie
storiche, dadaisti e futuristi, che diffondevano idee in totale
contrapposizione con quelle dell’arte ufficiale del tempo.
Il fenomeno che più immediatamente si identifica
col termine “controcultura” è però quello della underground press degli
anni ’60, germogliata dai semi gettati nel decennio precedente dalle riviste
che hanno accompagnato la nascita della letteratura Beat: una forma di stampa
indipendente e battagliera, in aperta opposizione con l’establishment politico
e l’ideologia dominante del tempo, che ha saputo conquistarsi una diffusione
planetaria, cementando fra loro i diversi interessi della cultura
psichedelica delle tribù hippie (protesta antimilitarista, misticismo
orientale, musica rock, grafica e fumetto, liberalizzazione di marijuana,
esperimenti con LSD, ecc.). Con qualche anno di ritardo rispetto agli Stati
Uniti, la stampa sotterranea è approdata anche in Italia, con le pubblicazioni
di Stampa Alternativa, una piccola casa editrice romana diretta da Marcello
Baraghini, ancora oggi viva e vegeta, e numerose altre riviste più
o meno effimere, fra cui le più note furono all’epoca Fallo! (con i
fumetti di Matteo Guarnaccia, che ha curato nel 1988 proprio per Stampa Alternativa
il volume storico-retrospettivo 1968-1988 Arte psichedelia e controcultura
in Italia), Re Nudo, Get Ready, Om, Puzz,
Tampax, Pianeta Fresco.
L’intera storia della comunicazione
controculturale è legata a filo doppio a quella dell’evoluzione dei sistemi di
stampa e, soprattutto negli ultimi due decenni, delle diverse tecnologie
multimediali impiegate nella diffusione delle notizie. Nei ’60 non esistevano
ancora molti sistemi di stampa “casalinghi” ed economici. Il ciclostile a
manovella veniva utilizzato, oltre che per i diffusissimi volantini politici,
anche da alcuni giovani poeti per creare micro-edizioni (spesso censurabili nel
linguaggio, quindi difficilmente proponibili a case editrici overground,
vedi i poemi di Tuli Kupferberg, futuro membro dei Fugs). Il ciclostile aveva
però limiti estetici e pratici molto evidenti. Le più rappresentative riviste
dell’underground press venivano quindi stampate con normale procedimento
tipografico, il che presupponeva tirature piuttosto elevate e un notevole
sforzo finanziario. Per far sì che si potessero distinguere a prima vista le
testate sotterranee da quelle ordinarie, si ricorreva però ad espedienti
creativi, spingendo ai limiti le possibilità tecniche offerte dalle rotative e
dai colori in commercio, sperimentando con la sovrapposizione di testi e
immagini, con l’uso di cromatismi nuovi e sorprendenti (ma perfettamente
adeguati ai contenuti “psichedelici”), con impaginazioni libere e
imprevedibili, arrivando addirittura a compromettere una chiara lettura del
testo (ottimo esempio è il popolare San Francisco Oracle, giunto a
tirare decine di migliaia di copie).
Al
problema fondamentale della distribuzione, si cercò di ovviare nei ’60 creando
delle vere e proprie strutture alternative, costruendo una capillare rete
distributiva “di movimento” (strillonaggio nelle strade, presenza a concerti,
scuole, università e manifestazioni politiche, vendita in “head shops”, negozi
di dischi, librerie, ecc.). L’Underground Press Syndicate era invece un’agenzia
creata per tutelare gli interessi degli autori sotterranei (artisti,
fumettisti, giornalisti, ecc.), permettendo al tempo stesso a riviste
underground senza fini di lucro di diversi paesi la traduzione e pubblicazione
gratuita dei materiali alternativi.
L’epoca aurea dell’underground press va dalla metà
degli anni ’60 alla metà del decennio successivo, cedendo poi il testimone
(anno cardine il 1976) a una nuova generazione di riviste autoprodotte, stavolta
realmente “fatte in casa”, le fanzines che
accompagnano la nascita del punk. Tenendo fede al motto do-it-yourself
e sfruttando le possibilità delle sempre più versatili macchine fotocopiatrici,
queste testate, con riferimenti visivi in parte voluti e in parte casuali
all’estetica collagistica dei dadaisti, sono spesso prodotte da un’unica persona,
col semplice impiego di colla, forbici e macchina da scrivere. La stampa underground
dei ’60 era il risultato di una cultura e di uno sforzo collettivistico, nella
produzione come nella distribuzione, le fanzines punk sono invece l’esaltazione
del fai-da-te individualista, e spesso limitano i loro interessi alla scena
musicale. Sniffin’ Glue di Mark Perry, la prima e più celebre fra queste
pubblicazioni, nasce negli ultimi mesi del ’76 ed è spesso assemblata dal
suo autore in poche ore, riuscendo così a battere sul tempo gli organi di
stampa ufficiali: il numero con la recensione di un importante concerto poteva
essere stampata (nella copisteria più vicina, anche in poche decine di copie)
e diffusa nei punti vendita disposti ad ospitarla (negozi di dischi e simili)
già a poche ore dall’evento, spesso anticipando fenomeni e tendenze del gusto
giovanile.
Le fanzines, nate a Londra e New York, si sono
poi anch’esse rapidamente diffuse in ogni angolo del pianeta: come nel caso
della musica punk, ad una fase esplosiva iniziale, di grande entusiasmo e
freschezza di contenuti, è seguita una implosione, un recupero “commerciale”
del fenomeno, con chiusura repentina di molte testate e la trasformazione di
altre in riviste più patinate se non addirittura mainstream (è ad
esempio il caso del periodico musicale ZigZag). Un fenomeno analogo era
avvenuto del resto nei ’60, riviste di successo come Creem e Rolling
Stones erano nate in origine come fogli alternativi.
Nei primi ’80, contemporaneamente
all’annacquarsi delle fanzines legate ai fermenti punk e new wave, si assiste
però anche ad un nuovo ricambio generazionale nella stampa controculturale, in
concomitanza con la disponibilità a prezzi abbordabili dei primi Personal
Computer, che determinano un ulteriore passo in avanti nell’ottica del
fai-da-te: la possibilità di fotocomporre i testi a casa propria e di
impaginarli in maniera professionale, con gran varietà di caratteri e soluzioni
grafiche a portata di mouse. Grazie alle nuove meraviglie del desk-top
publishing chiunque può facilmente preparare una rivista con
caratteristiche similari alle pubblicazioni da edicola, ed è possibile gestirne
la tiratura con assoluta fluidità, producendo dieci come diecimila copie.
Un ulteriore trasformazione dei canali di controinformazione
si ha infine dai primi anni ’90 con la crescente diffusione di BBS e reti
telematiche: nascono riviste elettroniche che viaggiano per e-mail o sono
gratuitamente consultabili in siti web, testate “virtuali” sempre meno disponibili
anche sul tradizionale supporto cartaceo, ma dal potenziale comunicativo teoricamente
illimitato. E’ questo una sorta di stadio terminale nella diffusione di materiali
controculturali, sia per l’apertura del mezzo che per la relativa economicità
di produzione, anche se la cultura di rete implica
comunque nuove problematiche riguardanti la reale accessibilità per tutti
delle tecnologie digitali, la libertà di espressione e il rischio di censura
in rete, l’effettivo livello di interattività fra lettori ed editori, il pericolo
del ricrearsi di filtri e strade a senso unico a somiglianza dell’editoria
tradizionale (costi di abbonamento, pubblicità, ecc.).
Anche la cultura di rete non si è però materializzata
improvvisamente dal nulla. Esistono diverse esperienze che hanno fatto da
apripista, precorrendo modalità e logiche della comunità virtuale di Internet,
pur senza far uso di strumenti altrettanto sofisticati. Dalla metà dei ’60,
ad esempio, un circuito internazionale a suo modo “virtuale”, essendo del
tutto privo di una struttura rigida o gerarchica e di regole dogmatiche da
osservare, è quello dell’arte per corrispondenza (o mail art), un fenomeno
che ha coinvolto e ancora coinvolge decine di migliaia di operatori, aperto
a tutti, dai professionisti dell’arte ai semplici curiosi, e basato sul libero
e gratuito scambio di materiali di qualsiasi genere (grafiche, cartoline,
timbri e francobolli autoprodotti di terre immaginarie, ma anche testi, cassette
audio, video, mail art zines, cataloghi, manifesti,
ecc.). Nata per evadere dalle gabbie dell’arte ufficiale, per sfuggire alla
forca caudina delle mafie di critici ed esperti che regolano accesso a riviste
e musei, l’arte postale ha origini storiche “nobili” nell’ambito del gruppo
artistico Fluxus, in particolare nella persona del collagista pre-Pop Ray
Johnson, ma al suo interno sono ben presto confluite esperienze creative
controculturali di ogni genere, provenienti dall’underground internazionale.
La mia scoperta dell’arte postale è avvenuta in
maniera quasi casuale. Sul finire dei ’70, sulla rivista Flash Art
sono apparse pubblicità a piena pagina di un certo Guglielmo
Achille Cavellini, un artista bresciano ora scomparso, che offriva
gratuitamente a chiunque li richiedesse i cataloghi delle proprie esposizioni.
Cavellini appariva in sella ad una buffissima bicicletta e la cosa mi ha incuriosito
al punto di richiedere tali libri, da cui ho appreso dell’esistenza di questo
invisibile circuito alternativo. La pratica dell’arte postale mi ha certamente
aiutato ad aprire gli occhi sulla possibilità, anche abitando in provincia,
di tessere contatti con il mondo intero, senza alcun complesso di inferiorità
rispetto a quanti operano in grandi metropoli. Quel tipo di esperienza che
oggi chiunque è in grado di fare mediante un abbonamento ad Internet, ho avuto
la fortuna di poterla sperimentare già vent’anni fa. L’arte postale ha poi
generato nel tempo tutta una serie di sotto-circuiti ad essa collegati, più
specialistici nei materiali diffusi, come il tape network,
formato da musicisti che invece di bussare alla porta delle case discografiche
si autoproducono piccole edizioni casalinghe su cassetta, da scambiare tra
di loro o vendere e circolare per posta.
La controcultura si serve quindi, in ogni periodo
storico, di quei canali capaci di offrire il più alto grado di comunicazione
libera e indipendente, al minor prezzo. Col volgere dei decenni però, quelle
produzioni editoriali che un tempo erano facilmente identificabili come
alternative e di opposizione (per caratteristiche formali e canali distributivi
utilizzati), si sono gradualmente assimilate e mimetizzate con le produzioni
overground, di modo che risulta sempre più difficile distinguere, in una
testata trovata in libreria come in un sito web, tra contenuti di prima mano e
riciclaggio più o meno interessato dei medesimi, secondo una pratica ormai
consolidata di assorbimento e recupero istantaneo di mode e proposte culturali
provenienti dall’underground.
NOTE:
Intervista raccolta da
Vittore Baroni nel Settembre 1992.
In che anno e in che
circostanze è nata Stampa Alternativa?
E' nata esattamente agli inizi del 1971,
l'idea fu sollecitata da un vecchio amico, deceduto nel frattempo. Come me,
egli covava un senso di frustrazione, perché tutto quello che stava uscendo
fuori dall'area della sinistra cosiddetta rivoluzionaria dell'epoca si stava
trasformando in barbarie politica, stava calando una grande cappa di
conformismo di sinistra, dove tutto obbediva a ferree leggi di ideologia, di
squadra, di gruppo. Non c'era più alcuno spazio dopo il grande movimento
libertario, che ho vissuto in prima persona, del '68. In quell'anno stavo
pensando di rimettermi a fare l'autostop in giro per l'Europa. Incontrai questo
amico, Livio Cavani, che mi disse: "perché non facciamo un'agenzia di
servizi di contro-informazione sul modello americano, e perché non la chiamiamo
- ci ho pensato un po' - Stampa Alternativa, dato che è informazione ed è
alternativa, noi useremo la rete alternativa...". Ecco, tutto è cominciato
con questo piuttosto umile approccio, come tutte le altre cose che ho fatto,
non c'è mai stato all'inizio un progetto lucido, ma piuttosto rabbia, o voglia,
o gioia, o incazzatura sull'onda di emozioni...
Esisteva quindi già un circuito estero di
riviste underground quando siete partiti, in che modo vi siete collegati ad
esse?
In realtà il nostro fu un fenomeno tutto
italiano, romano e di due persone, io e questo Livio. Lui leggeva molto la roba
americana, io un po' di quello che arrivava dall'inghilterra. Già esisteva
l'Underground Press Syndicate, avevamo letto qualcosa dalla stampa
internazionale, ma partimmo praticamente da zero, non avendo nessun modello di
riferimento né ideologico né concreto. Ci siamo poi collegati e abbiamo fatto
libri assieme all'UPS e al BIT londinese, da un certo punto in poi è nata
un'internazionale radicale underground che ha funzionato meravigliosamente per
anni, influenzando molte delle nostre scelte ed iniziative.
Quando sono apparse le prime riviste
underground italiane, le varie Fallo!, Get Ready, Puzz?
Noi anticipammo un po' i tempi, ma la
stessa mia insofferenza personale covava certamente nel cuore e nella mente di
moltissima gente, noi demmo forse la stura a delle esigenze che esistevano,
tanto di informazione quanto di collegamento e di servizi. Fatto sta che, a
ridosso delle prime nostre sortite, cominciarono subito a muoversi diverse
iniziative.
I vostri libretti ebbero all'epoca, se ben ricordo, un'ottimo
successo.
Il successo fu travolgente fin dai primi
titoli, libretti come Andare in India e Fare Macrobiotica,
argomenti fra l'altro che a quei tempi suonavano come una bestemmia. Sull'onda
di quei primi opuscoli nacquero poi, l'anno successivo, materiali sulla droga e l'idea dei servizi:
auto-organizzazione di concerti, assistenza legale e consulenza medica (su
droga, omosessualità, contraccettivi, aborto, obiezione di coscienza). Io avevo
già la testata registrata, quindi offrivo anche la possibilità ad altre riviste
non registrate di uscire come supplemento a Stampa Alternativa. Era un servizio per così dire "caldo",
nel senso che non si trattava solo di prestare la firma come Direttore (come
poi è continuato a succedere negli anni '80 e '90), ma c'era uno scambio reale
di materiale, di informazioni e di supporto reciproco. Sempre dal secondo anno,
dal 1972, facemmo un foglio quindicinale, che nel periodo ruggente stampava
30-40.000 copie, e che conteneva informazioni sui materiali disponibili che noi
accentravamo e ridistribuivamo, come sui concerti, gli spettacoli, la
disponibilità dei gruppi musicali e così via. Uscì anche il libretto Fare
controinformazione, che ebbe un grosso riscontro, e per quanto riguarda la
musica ci aiutò molto Il Branko di Casale Monferrato, un gruppo che si attrezzò
con un furgone scassato per poter girare i vari concerti autogestiti, con cui
stampammo Era ora, un manuale come
gli altri citati dal prezzo irrisorio, che per primo affrontava il
discorso delle strutture musicali alternative: come si registra una cassetta,
cos'é un impianto voci, le autorizzazioni per gli spettacoli, le poche cose che
servivano allora - oggi sono molte di più - per autogestire un evento dal vivo.
Un problema che si è spesso posto la
stampa underground è quello del libero diritto d'autore. Qual'è la tua
posizione nei confronti del concetto di copyright, ieri e oggi?
Mi pongo sempre nello stesso modo, sono
cambiate forse le modalità operative con cui mi muovo. Ho sempre sostenuto che
chi scrive, scrive per i lettori, non scrive o non dovrebbe scrivere per gli
editori, quindi la parola scritta è un bene dei lettori. Partendo da questa
considerazione, io sono contro il copyright, ho fatto decine di libri sapendo
di violare la legge. Con mia sorpresa è avvenuto una specie di miracolo a
livello legale, quando i grandi editori tipo Einaudi o Mondadori mi hanno
pizzicato, l'autorità inquirente mi ha dato i "particolari motivi di
ordine morale", cioè ha detto "tu hai compiuto un reato cosciente, ma
hai dei motivi talmente validi, per cui derubrichiamo il reato e ti diamo una
contravvenzione di 50.000 lire". Nella nuova serie di libri Millelire, ad
esempio, io lascio il copyright all'autore, non mi interessa detenerlo. La premessa
per me fondamentale è che chi scrive lo fa per i lettori, quindi più è
possibile far fruire, far partecipare il lettore alla parola scritta, e meglio
è. Evviva le fotocopie, quindi, i libri pirata e questo tipo di iniziative, di
cui sarò sempre propugnatore e realizzatore.
Esiste ancora, ha senso parlare oggi
di una contro-cultura, e se esiste, ha ancora un suo pubblico?
Mah, è un po' una riserva indiana. Io ho
molta paura di questi tempi dei giardini zoologici. La cappa di conformismo
culturale e sociale che ancora oggi ci sovrasta non si spezza certamente
rinchiudendoci nelle riserve indiane dell'underground, dell'alternativa, di
Rifondazione Comunista, eccetera. O troviamo dei momenti di crescita, di lotta
e di iniziativa che riguardano ormai tutti, altrimenti siamo veramente fottuti
in partenza.
Che impressione ti sei fatto, se le conosci, delle fanzines che
circolano oggi, anche rispetto a quelle di vent'anni fa?
Io le trovo molto intimiste, molto
decadenti, molto più "riserva indiana". Nelle fanzines degli anni '70
c'era più rabbia, anche se non mancavano neppure l'intimismo, la poesia, i
deliri culturali. I temi delle nostre campagne e battaglie di allora erano temi
continuamente affrontati nelle fanzines. Oggi sono veramente più che altro voci
di delirio: va bene tutto, è una resistenza benvenuta anche quella, ma non
altrettanto efficace.
Voi solo di recente, con le Millelire,
siete tornati ad occuparvi di autori "contro-culturali" come Hofmann
e Metzner, come mai negli anni '80 avete un po' abbandonato questo campo in
favore di classici dell'illustrazione e della narrativa?
Negli '80 c'è stata una battuta
d'arresto, una riconsiderazione, uscivamo dallo sfascio, dall'autoscioglimento di
Stampa Alternativa alla fine del 1976, dovuto al mandato di carcerazione nei
miei confronti e anche all'esaurimento di una certa fase. Nel '77 un'amnistia
spazzò via tutti i vari procedimenti giudiziari per reati di opinione, io poi
creai una cooperativa agricola giovanile, feci per un po' il pastore a Sorano
in Toscana, poi mi rivenne voglia di fare libri e ricominciai nel 1979, da solo
e per divertimento. La chiave era bei libri a prezzo popolare. Fui travolto
subito dal successo, quindi dovetti diventare impresa editoriale. Mi piaceva
guardarmi intorno, sperimentare nuovi modi con cui la parola scritta poteva
essere organizzata. Le Millelire è il progetto che meglio si riaggancia
all'attività degli anni '70. Ciò che si propongono questi libretti di formato
tascabile, numero ridotto di pagine e prezzo simbolico (mille lire, appunto),
per i quali - prima che incontrassero il successo di questi ultimi mesi - ho
avuto la derisione e lo scherno di tutti gli operatori ufficiali, è anche di
strappare quanta più memoria possibile al passato, in un momento in cui meno si
parla di cose forti che son successe, scritti, autori, battaglie, eccetera, più
il conformismo ne è contento. Anche se non c'è più la tensione di un tempo e
personaggi della contro-cultura come Leary o Ginsberg forse sono cambiati
(ognuno va avanti per le sue strade), posso comunque anticipare che usciranno
altre cose, come un testo di Kerouac inedito in Italia e una serie di titoli
sulle realtà virtuali. Stiamo tenendo un occhio sia sulla vecchia controcultura
che sta producendo cose nuove, che sulle nuove tendenze. Credo che ci saranno
parecchie sorprese nel 1993.
Mi pare che i libri di Stampa Alternativa
abbiano sempre avuto una circolazione un po' particolare, non li si trova in
tutte le librerie, come mai?
Non è certo una scelta nostra, ormai c'è
questa mannaia della distribuzione che penalizza tutti e penalizza anche noi.
Infatti, se non avessimo avuto la trovata geniale delle Millelire avremmo
chiuso, come credo chiuderanno quasi tutti gli editori indipendenti. La
situazione è questa, o si trovano dei modi completamente nuovi per comunicare
la parola scritta, per gestirla, per distribuirla, per proporla, per
diffonderla, o si resta strangolati dalla distribuzione, dallo Stato, dalle
banche, dalle librerie. Il che significa a mio avviso da un lato dover
abbattere la barriera di accesso, che comunque è sempre anche il prezzo, e
dall'altro recuperare nuova parola radicale, nuovi contenuti, memoria
provocatoria. Ad esempio, Raoul Vaneigem adesso vuole darmi un suo inedito...
In che modo il progetto Millelire è
qualcosa di più di una semplice collana letteraria?
Come ho già detto, c'è un aggancio ideale
col passato, secondo me non siamo mai stati così "alternativi" come
ora, pur non operando nel ghetto come molte esperienze contro-culturali
residue. Allora, anche noi vivevamo per scelta in un ghetto, che era però in
realtà una vasta area, oggi forse per la prima volta ci dispieghiamo, con
questo progetto Millelire non siamo più nell'area, siamo nel Paese.
Possiamo definire l'esperienza delle
Millelire una sorta di nuovo "circuito" culturale?
Ormai arrivano qualcosa come
duecentocinquanta lettere al giorno, in risposta all'appello che è pubblicato
su ogni Millelire. E' qualcosa di travolgente, me lo sogno veramente la notte.
Proverò a spiegarmi in questo modo: in realtà è un non-partito che si sta
costituendo. Cioè, di fronte a una società civile organizzata che ormai è
retorica e vecchia come il cucco, che viene spesa per vendere rottami e becera
evasione, c'è invece sempre più gente che, stando al di fuori con un piede
dentro, vuole il rinnovamento dei contenuti, dei metodi, ma non un rinnovamento
ideologico. Sento che stiamo mettendo in piedi il non-partito, con la sua
non-ideologia, non-linea politica, non-comitato centrale, non-deputato,
non-senatore, che è però il partito di coloro che ancora hanno barlumi di
cervello, di volontà, di resistenza umana. Quello che sento, come fu per Stampa
Alternativa agli inizi - certi meccanismi si ripetono perché sono poi quelli
fondamentali - è che ci sono esigenze impellenti e vitali per la sopravvivenza
dell'intelligenza, la domanda è potente in questo senso...
Ma se la risposta alle Millelire è così imponente, fino a quando
Stampa Alternativa sarà in grado di gestirla?
In questo momento c'è questa situazione
che ci porta a dire "per fortuna" da una parte e al tempo steso
"oddio!", perché non è cosa da nulla ricevere duemilaottocento
manoscritti, al di là di un discorso qualitativo, o duecentocinquanta lettere
al giorno che non sono quasi mai normali schedine di ordine, contengono
messaggi del tipo "ho quarant'anni, mi sono rotto le palle" oppure
"ne ho diciassette, non sò che cazzo fare, cosa posso fare con voi" o
semplicemente "sono contento che esistiate, continuate così". Certo
che tutto deve partire secondo me da questa non-organizzazione, non-linea,
non-ideologia, non-partito. Ogni Millelire è come una scheggia impazzita,
vorrei che ogni libro fosse agli antipodi del precedente (classici, esordienti,
fumetto, poesia, documenti, eccetera). Voglio fare libri anarchici, stimoli,
"massaggi cardiaci per le intelligenze" ha scritto il Corriere,
dopodiché che ognuno, ancora una volta usando il formato Millelire, il servizio
supplemento a Stampa Alternativa, gli archivi che abbiamo, faccia quello che
riesce a fare.
Qual'è dunque la mossa successiva, cosa
verrà dopo le Millelire?
Io mi sono inventato una prima risposta,
e sono i cantieri culturali, dove vado con la gente per parlare di
parola scritta, libri, memoria. A Bari, abbiamo un pullman a due piani che ci è
stato regalato dall'azienda di autotrasporti - pensa che cosa si è mosso -
l'anno prossimo speriamo sarà pronto a partire per tutta l'estate come cantiere
itinerante. Le Millelire sono spesso solamente un pretesto, per cominciare
finalmente a leggere, e per fare molto di più. In autunno esce Il Lettore
armato, ovvero un manifesto dei diritti del lettore, il lettore che lotta
per un'ecologia della lettura, contro l'inquinamento dell'intelligenza. Il mio
sogno è che fra un anno Il Lettore Armato e le bibliografie ragionate
del Cantiere Bibliografico (di cui stiamo diffondendo ora il bando) suscitino
una tale presa di coscienza che io non avrò più motivo di esistere. E' il
non-partito auto-organizzato. Io stesso come editore riterrei il mio maggior
indice di successo l'auto-scioglimento dei libri Millelire di Stampa
Alternativa a favore di mille circoli di lettura, i quali se vorranno si
faranno da soli le loro Millelire.
Diventeresti insomma una sorta di editore
concettuale, di "agitatore editoriale".
Esatto, lo spirito è questo: che forse è
ancora possibile fare con il libro guerriglia culturale, così come è possibile
farlo con le riviste/fanzines, se si ha il taglio giusto, se si evita il
ghetto.
(articolo del 1993 per
il catalogo di una mostra di fanzines)
Per chi non ne avesse
mai inteso parlare, la mail art è una forma di espressione multi-mediale
(ma perlopiù cartacea) dai confini non ben definiti e definibili, una
"rete eterna" e sotterranea di contatti fra operatori culturali,
aspiranti tali o semplici curiosi di tutto il mondo, andatasi costruendo e
ampliando a partire dai primi anni 60, sul modello di mostre e progetti postali
collettivi ideati dall'artista americano Ray Johnson e altri membri del gruppo
Fluxus. Aperta a chiunque, anarchicamente (e surreal-dadaisticamente) priva di
regole prefissate, la mail art contempla essenzialmente lo scambio gratuito e
disinteressato, attraverso i canali postali, di materiali grafici, poetici,
politici, satirici, pornografici o di qualsiasi altra natura, finalizzati ad un
puro e semplice confronto privato di idee ed esperienze oppure ad esposizioni
pubbliche a tema (solitamente tenute in spazi non istituzionali, e di cui viene
usualmente inviato ad ogni partecipante un catalogo o documentazione gratuita,
in cambio dei lavori originali), o anche alla pubblicazione su artigianali
rivistine "postali".
Per quanto l'esistenza
di riviste di mail art possa a prima vista apparire un controsenso, essendosi
l'arte postale sviluppata proprio quale alternativa alla comunicazione
impersonale, dogmatica e "a senso unico" dei mass media, la creazione
e diffusione quasi sempre gratuita di piccole pubblicazioni fatte in casa è una
pratica estremamente diffusa fra i più attivi "networkers". E'
difatti oltremodo difficile mantenere in vita una corrispondenza altamente
personalizzata, quando il numero dei contatti comincia a passare dall'ordine delle
decine a quello delle centinaia se non addirittura delle migliaia (la
popolazione globale dei circuiti mailartistici è stata stimata aggirarsi
attorno alle centomila unità!): il ricorso alla fanzine permette di evitare una
dolorosa selezione dell'indirizzario.
In Italia, dove l'arte
per corrispondenza ha iniziato a diffondersi solo nella seconda metà degli anni
70, grazie alle operazioni concettuali di "autostoricizzazione" di
Guglielmo Achille Cavellini e alle prime pionieristiche esposizioni curate dal
C.D.O. di Parma, si è assistito nel corso degli ultimi due decenni alla nascita
(e spesso rapida scomparsa) di almeno un centinaio di testate specificamente
mail-artistiche. La capostipite e anche la più longeva fra tali pubblicazioni è
Arte Postale! (con punto esclamativo, per rafforzare il senso di
"diversità" rispetto alle espressioni artistiche tradizionali),
fondata dal sottoscritto nell'Ottobre 1979 e ancora sporadicamente in attività,
con 68 numeri usciti in formati e tirature variabili (dalle 100 alle 500 copie).
Nelle sue prime cinquanta uscite, Arte Postale! ha adottato la formula
dell'assemblaggio di pagine originali fornite dai diversi partecipanti
(sull'esempio della storica testata Assembling del critico-poeta
newyorkese Richard Kostelanetz), un procedimento largamente impiegato anche da
altri, che ben evidenzia la natura collettiva, cooperativa e non competitiva di
ogni progetto di mail art che si rispetti. In sintesi, il curatore di una
rivista "ad assemblaggio" richiede l'invio di un certo numero di
pagine (solitamente fra le 50 e le 100 copie) su di un tema specifico o a
soggetto libero, i lavori ricevuti vengono poi raccolti in apposito contenitore
o spillati ad una copertina e completati da indirizzario, testo introduttivo e
eventuali altri fogli redazionali. Il processo replica, in veste più effimera e
meno pretenziosa, alcune modalità del multiplo o portfolio d'autore. Le pagine
delle riviste-assemblaggio, in dimensioni che variano dal formato carolina
all'A4 della comune fotocopia, sono infatti solitamente ricche di interventi
manuali, colorazioni, collages, decollages, timbri, oggettini tridimensionali
applicati, ecc.: come una piccola, variopinta ed eterogenea mostra di mail art
a domicilio (fra le testate di questo tipo ricordo Mailartspace International
di Romano Peli e Michaela Versari, Bambù di Ubaldo Giacomucci, Taccuino
Apografo di Giuseppe Denti, Copy Book di Lamberto Lambi Caravita, Sign
Post di Serse Luigetti, Rattlestar di Angelo Vitale, Alto di
Jean-Paul Morelle, Fuck e Vittorio Baccelli Magazine di V.
Baccelli, Original Art Magazine di Giampiero Bini, Mail Art Magazine
di Roberto Zito, e anche varie confezioni audio-visive del collettivo Trax).
Altre pubblicazioni, molto
più simili per formato e tecniche di stampa alle fanzines circolanti in ambito
musicale, si limitano a selezionare e impaginare testi e immagini significative
dal flusso quotidiano di corrispondenze (oppure raccolgono, tramite invito,
materiali originali su un dato tema), con aggiunta di informazioni su progetti
e mostre di mail art, oltre a liste di contatti e recensioni di riviste
similari. Fra le testate ormai "storiche", nate perlopiù nei primi
anni 80, ricordo Art in Opposition di Alberto Gallingani, The
Oxidized Look di Daniele Ciullini, Bela Lugosi Magazine di Lamberto
Lambi Caravita (ovviamente a tema horror), Corto Circuito di Bruno
Chiarlone, ArtZine di Bruno Capatti, Poplite di Luca Brunori e
Alessandro Corsi, Last Exit di Antonio Tregnaghi, Techno Body Way
di Enrico Aresu e altri (dedicata al "fumetto postale"), Mail Art
Archive di Alessandro Ceccotto, Ah! L'arte postale di Rino De
Michele.
In aggiunta alle
riviste puramente mailartistiche, possono essere prese in considerazione anche
pubblicazioni autoprodotte appartenenti ad aree espressive limitrofe, i cui
aderenti hanno fatto proprie modalità e canali dell'arte per corrispondenza. In
particolare, svariate pubblicazioni di poesia visiva e ricerca letteraria hanno
trovato nuovo slancio e linfa vitale interferendo con operatori del network
postale, edite sia come preziosi multipli d'arte, in veste off-set patinata o
in semplice fotocopia da poeti affermati come Adriano Spatola (Geiger/Tam
Tam) e Eugenio Miccini (i quaderni di Techne), oppure da autori più
sotterranei (Theatre du Silence di Giampaolo Guerini, Offerta
Speciale di Carla Bertola e Alberto Vitacchio, Fetiche Journal di
Walter Gaspari, Dismisura curata da Giovanni Fontana, Colibrì di
Franco Cavallo, Poesia Visiva S.O.S. di Alfredo Slang, ecc.). Confluenze
di interessi di natura "contro-culturale" hanno indotto a dedicare
ampio spazio alla mail art anche ad un certo numero di riviste poetiche,
musicali, o politico-letterarie "di movimento", specie a cavallo fra
anni 70 e 80 (cito ad esempio Sorbo Rosso, Na, If..., Il
Sorriso Verticale, Crash, Adenoidi, quest'ultima uscita anche
in versione su floppy disc).
Nonostante l'alta
concentrazione di artisti postali presente nel nostro paese, è curioso notare
in retrospettiva l'assenza di una testata in grado di raccogliere e
sintetizzare, in adeguata formula tipografico-editoriale, il multiforme
patrimonio di idee espresso dal network italiano, ovvero di servire quale punto
di riferimento per quanti intendono avvicinarsi per la prima volta alla pratica
della mail art o per chi, abbandonatala temporaneamente, volesse rapidamente
riannodarne le fila. Ovviano oggi solo in parte a tale lacuna i bollettini Arte
Atre e Net Informer, prodotti da Andrea Ovcinnicoff con carattere
eminentemente informativo (spesso si tratta di un'unica fotocopia
dattiloscritta e ripiegata), mentre di particolare utilità, soprattutto per il
corposo indirizzario contenuto quasi in ogni numero, è anche il battagliero
foglio di grande formato Lo Straniero, stampato da Ignazio Corsaro in
edizione bilingue italiano-inglese, così come alcuni numeri speciali a
carattere teorico di Arte Postale!.
La ragione principale
della mancata affermazione di una mail art zine italiana articolata e
comprensiva è forse da ricercarsi soprattutto nell'estrema riluttanza, da parte
di quanti percorrono i canali postali, a mettere mano al portafoglio per
acquistare libri, riviste o alcunchè venga posto in vendita nell'ambito del
network, rendendo così impossibile il recupero anche parziale delle spese di
produzione (e del tutto impraticabile la strada di progetti ambiziosi). Del
resto, chi sceglie di utilizzare la rete postale lo fa in gran parte proprio
per sottrarsi alla natura commerciale e mercantilistica del sistema dell'arte
ufficiale (o dell'informazione massificata), è quindi più che comprensibile che
costui consideri con diffidenza le rivistine postali con prezzo di copertina,
preferendo praticare le metodologie del baratto e del libero scambio proprie
della mail art. Questo non rappresenta comunque un grande ostacolo alla
diffusione delle testate, dato che quasi tutte le pubblicazioni hanno tirature
ridottissime e sono opera di un'unica persona (che funge contemporaneamente da
editore, redattore, grafico, rilegatore, distributore, ecc.), solitamente più
che bendisposta allo scambio "in natura".
Per esperienza
personale, dopo aver tentato a più riprese di dare ad Arte Postale! una
veste tipograficamente più "professionale" (il N.63 ha copertina
fustellata a due colori e contiene un disco 45 giri in omaggio), ho dovuto in
effetti riconoscere che la dimensione più fertile e appagante della
micro-editoria postale è proprio quella del baratto spontaneo, dell'invio a
sorpresa abbinato al più libero e completo fai-da-te: libriccini economici
assemblati pazientemente a mano, numerati, colorati, ritoccati, firmati e
impreziositi copia per copia, prodotti nelle fogge e formati più bizzarri,
capaci di stimolare risposte altrettanto insolite e imprevedibili. La funzione
più logica e naturale della mail art zine pare essere insomma quella di una
ludica (e spesso ironica) riappropriazione di uno spazio mito/mediologico di
cui quotidianamente siamo costretti a subire passivamente gli effetti: ognuno
finalmente editore di se stesso (e della propria personale visione del mondo),
in barba ad ogni considerazione di buon gusto, censura, target, marketing,
tiratura, pubblicità, periodicità, scadenze, ecc. Per citare un noto slogan
fluxus-situazionista fatto proprio dalla comunità mailartistica: Distruggi
la Cultura Seria!
(questo
articolo del 1992 è apparso in forma ridotta e rimaneggiata sui numeri 7-8 del
mensile Rumore e col titolo Fanzirama 2000 é stato incluso nel
catalogo di una mostra di fanzines)
La
biografia di Charles Lutwidge Dodgson, meglio noto con lo pseudonimo di Lewis
Carroll e come creatore del celebre Alice nel Paese delle Meraviglie, ci
informa che fin da fanciullo lo scrittore era solito produrre rivistine in
copia unica, completamente scritte e illustrate a mano, per il divertimento di
fratelli e sorelle minori. Sono forse curiosità letterarie come The Rectory
Umbrella o The Rectory Magazine del giovane Carroll i più lontani
progenitori delle attuali pubblicazioni sotterranee? Difficile stabilirlo, dato
che la pratica di una stampa "partigiana", marginale e clandestina,
circolante fuori dai binari della cultura ufficiale o fortemente critica nei
confronti del potere dominante, si è sviluppata con tutta probabilità fin dai
tempi di Gutemberg. Il termine fanzine, contrazione di fans magazine,
ovvero "rivista di/per appassionati", è entrato nell'uso corrente
soltanto nella seconda metà degli anni '70, per designare una forma spontanea e
iconoclasta di giornalismo musicale fai-da-te, sbocciato sull'onda del successo
travolgente delle prime formazioni punk (Sex Pistols, Clash, Damned, eccetera)
e al pari di queste irrispettoso nel linguaggio e nei contenuti, privo di
qualsiasi inibizione. Oggi, viene spesso chiamata fanzine una qualsiasi pubblicazione autoprodotta, nata senza una
motivazione di ordine prettamente commerciale, solitamente dalla periodicità
irregolare e dalla vita e circolazione estremamente ridotta, anche se per
correttezza filologica la definizione non andrebbe applicata indistintamente a
tutta la small press periodica, bensì limitata a quelle riviste
amatoriali concepite per categorie specifiche di "fans" (quali gli
ascoltatori di un preciso genere musicale, i cultori del fumetto, della
fantascienza, dei films horror, ecc.). Il neologismo è stato universalmente
adottato probabilmente anche per meglio rimarcare la netta differenza di
visione e contenuti, almeno nei primi tempi, fra l'ondata di pubblicazioni
post-76 e l'ormai agonizzante underground press internazionale,
sviluppatasi nel decennio precedente.
prima
delle fanzines
The
Village Voice, un settimanale con aperture liberali prodotto
nel Greenwich Village di New York, ha ospitato fin dal suo apparire verso la
metà degli anni '50 le molteplici voci di dissenso dell'avanguardia artistica,
della Nuova Sinistra e della cultura beatnik americana. Non meraviglia quindi
che sia stato proprio un redattore del Voice, John Wilcock, curatore
della seguitissima rubrica "The Village Square", a mettersi alla
testa dopo aver lasciato il settimanale di alcuni dei più combattivi progetti
editoriali del cosiddetto "underground". Alla Los Angeles Free
Press, fondata nel 1964, spetta comunque il titolo di capostipite di un
numero sterminato di pubblicazioni indipendenti che, nel volgere di pochi anni,
dettero vita ad un vero e proprio "Quinto Potere" alternativo della
carta stampata, con una fitta rete di piccole imprese comunitarie di
controinformazione che abbracciava ogni angolo del mondo Occidentale (collegate
in libere associazioni quali l'Underground Press Syndicate e il Liberation
News Service), e che al fianco di istanze politiche radicali più
convenzionali diffondevano le rivoluzionarie concezioni di vita della cultura hippie,
sovvertendo consapevolmente allo stesso tempo tutte le buone norme della stampa
tradizionale. Ortografia, linguaggio, impaginazione, formati, metodi di stampa
e colorazione venivano stravolti da concezioni fantasiose di gusto
"psichedelico", al punto da rendere perfino difficoltosa in alcuni
casi la lettura, per l'avventurosa sovrapposizione di immagini e testo o l'uso
di atipici colori pastello. L'establishment ha spesso reagito violentemente,
con perquisizioni, censure e condanne, alla diffusione di questa small press
priva di briglie, venduta per pochi centesimi agli angoli delle strade da
militanti lungocrinuti. Le più note testate statunitensi si chiamano Other
Scenes, San Francisco Oracle, Berkeley Barb, Old Mole,
Open City, c'è poi l'inglese It
e Oz, più volte sequestrata per oscenità e creata da Richard
Neville fra Sydney e Londra, mentre in Italia all'esperimento isolato di
Pianeta Fresco, curato da Ettore Sottsass e Fernanda Pivano, sono seguiti
dopo qualche anno i libretti di controinformazione di Stampa Alternativa e i
vari Fallo!, Re Nudo, Puzz, Tampax, ecc. Stampate a
volte con primitivi ciclostile o in eliografia, con interventi manuali, su
carta da pacchi o altri materiali "poveri", ma anche in off-set
tipografico a più colori e con tirature che hanno superato in alcuni casi le
50.000 copie, le riviste underground dei '60 costituiscono un patrimonio
letterario immenso, continuamente ripreso, riciclato e rimaneggiato (grazie
anche alla pratica dell'abolizione del copyright) nei decenni successivi, sia
in ragione dei personaggi carismatici frequentemente coinvolti (i vari Leary,
Ginsberg, Burroughs, Snyder, Kupferberg, ecc.), che per la ricchezza ed
eterogeneità degli argomenti trattati (liberazione dai tabù sessuali, cultura
della droga, viaggi alternativi a poco prezzo, protesta anti-Vietnam, politica
radicale e utopia, misticismo e religioni orientali, musica e arte pop). Dopo
le brevi illusioni rivoluzionarie del '68 e le trasfusioni sulle pagine
sotterranee, soprattutto in Europa, di idee Situazioniste, il fenomeno si
smorza gradualmente nella prima metà dei '70, seguendo lo sfaldarsi del
Movimento politico-giovanile internazionale. Oggi, piccole case editrici
specializzate hanno perfino iniziato a produrre, per storici e nostalgici,
costose ristampe anastatiche dei fogli underground più rappresentativi.
Londra
in fiamme
La
prima, la più influente e anche la più venduta delle fanzines è stata Sniffin'
Glue, scritta, impaginata, stampata e distribuita artigianalmente a partire
dall'estate del 1976 (grazie anche all'aiuto di Rough Trade e di altre
strutture indipendenti) da un giovane disoccupato londinese, Mark Perry. A
differenza della conformista stampa musicale ufficiale, dalle pagine della sua
rivista Perry incensava o maltrattava senza peli sulla lingua i gruppi punk del
momento, che aveva modo di seguire e studiare da vicino, promuovendo fra grezzi
collages e montaggi neo-dadaisti efficaci slogan del tipo "eccovi tre
accordi, ora formate un gruppo musicale", o incitando i lettori a fondare
le loro fanzines (appello che in molti non si fecero ripetere due volte). Nel
punk ogni scioccante "rivolta nello stile" si è bruciata e consumata
con enorme rapidità, dopo poco più di un anno Perry fondava egli stesso un
gruppo rock, gli Alternative TV, il cui singolo di esordio è allegato
all'ultimo numero di Sniffin' Glue. Già verso la fine del 1977, la
crescita esponenziale del numero di fanzines punk, solo in pochi casi mordaci e
innovative come il modello originale (Jolt, These Things, Hangin'
Around, Ripped & Torn), aveva prodotto una situazione di saturazione
e omologazione del fenomeno, molto simile a quella che simultaneamente
interessava i gruppi musicali, assorbiti dalle grandi case discografiche
(saranno difatti i responsabili delle fanzines della prim'ora a scrivere e
"vendere" all'establishment i primi instant books da cassetta
sulla scena punk). Allo stesso tempo però, l'editoria marginale ha continuato a
proliferare e frammentarsi in direzioni differenti, espandendosi
dall'Inghilterra ad ogni altra nazione civilizzata, con titoli di indirizzo
specificamente new wave, mod, ska, dedicati al circuito delle autoproduzioni su
cassetta (Cassette Gazette, Fast Forward, Stick it in your ear)
o a quello delle etichette musicali indipendenti (OP, Sound Choice),
ultrapoliticizzate (come Temporary Hoarding, stampata dall'associazione
"Rock against Racism", o Toxic Grafity, prodotta direttamente
dal collettivo dei Crass), o con sguardi insoliti sul mondo della moda
giovanile (i-D , oggi rivista ufficiale a tutti gli effetti), dell'arte
(le tedesche The 80's e Shvantz!, riviste di mail art come Vile
e ND), e via dicendo. Siamo però ormai ben addentro agli anni '80, e in
epoca di diffuso "riflusso" ideologico la stampa amatoriale ha perso
molte delle sue caratteristiche militanti, spesso non si distingue più nettamente
nei contenuti dalla stampa overground, dalla ricerca o dalla negazione
di valori esistenziali ha virato decisamente verso il gioco e l'effimero, ed ha
anche spesso abbandonato la consuetudine del prezzo "politico". Le
fanzines più interessanti dell'ultimo decennio sono caratterizzate infatti da
una stampa di tipo più professionale, con soluzioni editoriali ricche e
raffinate al posto delle fotocopie in bianco e nero spillate a mano, e con
cassette, LP o CD allegati in luogo dei tipici flexidisc "pieghevoli"
(ZG, Touch, Abstract, RRReport, Total). Solo
in rari casi, significativo quello della californiana Re/Search (sorta
dalle ceneri dell'influente punk-zine Search & Destroy, più o meno
velatamente imitata da altri ottimi progetti qualiVague, Version 90,
Vagabond, Sensoria from Censorium), alla cura della veste
tipografica si sono abbinati contenuti trasgressivi e ideologici di segno forte
(nella fattispecie, le morbose e inquietanti tematiche della cosiddetta
"cultura industriale"). Quello che propongono da qualche tempo
testate rappresentative come la londinese Encyclopaedia Psychedelica o
la veterana Whole Earth Review (in circolazione da almeno vent'anni) è
infine un'integrazione e sintesi delle tematiche controculturali comunitarie
dei '60 e del fai-da-te individualista e anarchico di epoca punk: una
"congiunzione degli opposti" e il superamento dei medesimi, in chiave
cibernetica e in ottica di networking (ovvero di contatto diretto senza
mediazioni, per sfuggire alla logica delle comunicazioni a senso unico dei Mass
Media).
dopo
le fanzines
L'avvento
del word processor e di sofisticati programmi di grafica e impaginazione
ormai alla portata di tutti, ovvero l'inizio dell'era del desk-top
publishing, con la possibilità di realizzare in casa sul proprio computer e
stampante tutti quei passaggi necessari alla produzione di una rivista che un
tempo richiedevano l'intervento di diverse maestranze specializzate
(fotocomposizione dei testi, impaginazione, pellicole, prove di stampa, ecc.),
ha ovviamente prodotto una piccola grande rivoluzione anche nel mondo
dell'editoria indipendente. Oggi chiunque senta la necessità di dire la sua su
un determinato argomento può inventarsi all'impronta una rivista a propria
immagine, con tutti i crismi di una pseudo-ufficialità. Nelle nazioni dove i
Personal Computer sono diffusi da maggior tempo, ad esempio USA e Canada, si
sta moltiplicando a dismisura il numero di newsheets, bollettini e
riviste elettroniche su BBS, prodotte perlopiù da una singola persona, spesso consistenti
(al fine di ridurre i costi e massimizzare la diffusione) in opuscoli di
pochissime pagine spediti su abbonamento, scambiati per corrispondenza o
consultabili per via elettronica. Spulciando i menù telematici o le piccole
inserzioni su riviste specializzate è possibile trovare i contatti per questo
nuovo tipo di fanzines "mutanti", dedicate agli argomenti più
disparati, di interesse generale o ultra-specialistico. Non è certo un caso se
il nuovo editore di uno dei più noti progetti sotterranei degli ultimi anni, la
fanzine statunitense Factsheet Five, ha deciso di far uscire solo
sporadicamente la testata in forma "cartacea", data la difficoltà nel
gestire la quantità sempre più elevata di dati (la rivista è infatti
essenzialmente una guida alfabetica ragionata per ogni tipo di pubblicazione o
materiale controculturale), trasformandola a tutti gli effetti in una rivista
elettronica, aggiornata periodicamente e consultabile a distanza. Oggi ci
troviamo quindi in una delicata fase di transizione, in cui la small press
tende da un lato a compiere appena possibile il salto dai sotterranei alle
edicole, dall'altro è in attesa di poter realizzare completamente la
trasformazione da prodotto su carta in edizione limitata (dalla distribuzione
sempre più macchinosa e frustrante) a notiziario elettronico a diffusione
virtualmente illimitata, raggiungibile da ogni punto del pianeta tramite un
modem e un codice di accesso. Tali problematiche di segno indubbiamente forte
vengono già discusse da angolazioni differenti su nuove fanzines per
"pirati telematici" quali HackTick e 2600-The Hackers
Quarterly, oppure in pubblicazioni meno dense di termini tecnici per
addetti ai lavori come bOING bOING e la patinata Mondo 2000
(battezzata "la Rolling Stone dell'era informatica", ben avviata con
la sua aria di snobismo yuppie ad abbandonare i circuiti
dell'underground), o ancora le italiane Ario e Decoder. Queste
riviste sono contraddistinte dalla pulizia formale di una rigorosa impaginazione
computerizzata, funzionale agli argomenti cibernetici affrontati quanto lo
erano gli strappi grafici e i testi battuti grossolanamente a macchina nel
periodo punk o le arzigogolate calligrafie neo-floreali negli anni '60. E'
interessante notare, a riprova di una invisibile continuità fra certi settori
della stampa di opposizione di ieri e di oggi, la sopravvivenza in
versione desk-top di The Realist, rivistina prodotta fin dagli
anni '60 da Paul Krassner, una delle voci più pungenti della controcultura
californiana. Krassner si muove abitualmente all'interno dei media
tradizionali, ma ha sempre avvertito anche il bisogno di esprimersi con un
foglio impaginato personalmente, una sorta di scambio diretto di idee "dal
produttore al consumatore". Se la stampa sotterranea può servire da un
lato come palestra di allenamento per nuovi autori o come fase di rodaggio per
un progetto editoriale, prima che questo raggiunga le edicole (vedi il caso
recente della rivista americana di cinema "bizzarro" Film Threat),
non bisogna infatti dimenticare come l'autoproduzione risponda anche a profonde
necessità interiori di totale autonomia espressiva e a volontà di provocazione
spesso sul filo dell'illegalità, tutte libertà che difficilmente la stampa
"di regime" può accordare ai suoi collaboratori.
sfide
e mutamenti
La
flessibilità e l'imprevedibilità sono fra le caratteristiche più invoglianti
della stampa marginale, ma se da un lato i vantaggi del desk-top
permettono a questa di darsi una veste hi-tech quale mai ha avuto in
passato, anche in progetti a tiratura ridottissima, la grande editoria non
rinuncia certo a sfruttare a sua volta le meraviglie delle nuove tecnologie.
Grazie alle possibilità offerte dal computer applicato ai procedimenti di
stampa tipografica, il settimanale Time è riuscito alcuni mesi fa a
spedire a ciascuno dei suoi innumerevoli abbonati una copia con il nome del
lettore scritto a caratteri cubitali in copertina. Un semplice scherzetto in
confronto a ciò che ci aspetta in un non lontano futuro, ovvero la possibilità
di scegliere secondo il nostro gusto personale, nel momento in cui ci abboniamo
ad una testata, fra una vasta gamma di combinazioni e approfondimenti (ovvero
potremo decidere di ricevere, ad esempio, una rivista con più pagine di sport,
politica o musica). Newsweek ed alcuni altri periodici statunitensi
hanno già iniziato a servirsi di questa possibilità di "rilegatura
differenziata", al fine di offrire qualcosa di inedito che possa
riconquistare le fasce sempre più ampie di pubblico disaffezionato alla
lettura. E' insomma quantomai interessante notare una bizzarra inversione di
tendenza, mentre comincia a delinearsi il volto dell'editoria del ventunesimo
secolo: ad una small press sempre più agguerritamente professionale si
contrappone una grande editoria che aspira ad offrire un servizio sempre più personalizzato,
ovvero che mira a recuperare quell'interscambio diretto con il lettore fino ad
ora prerogativa fondamentale della stampa sotterranea (nelle riviste
elettroniche, l'interattività si applica quasi indistintamente a progetti di
tipo alternativo e no). E' su questo terreno altamente tecnologicizzato che si
giocherà la battaglia decisiva fra colossi dell'informazione e outsiders
indipendenti, certi comunque che, fintanto che si avvertirà l'esigenza di
un'informazione del tutto libera e priva di censure, appassionata e
disinteressata paladina di nuovi valori, ci sarà sempre un nuovo John Wilcock,
un Richard Neville, un Mark Perry o un Tom Vague che si ingegnerà
rocambolescamente per fornircela.
bibliografia minima
Lewis Carroll The Unknown Lewis Carroll
(Dover, New York, 1961)
AA.
VV. a cura di Jerry Hopkins Le voci degli Hippies (Laterza, Bari, 1969)
Jeff
Nuttall Bomb Culture (Paladin, Londra, 1970)
AA.
VV. a cura di Fernanda Pivano L'altra America negli anni sessanta
(Officina Edizioni, Roma, 1971)
Richard
Neville Play Power (Milano Libri, Milano, 1971)
Walter
Hollstein Underground - sociologia della contestazione giovanile (Sansoni,
Firenze, 1971)
Mario
Maffi La cultura underground (Laterza, Bari, 1972)
AA.
VV. a cura di Pinni Galante Dalle alpi alle piramidi (Arcana, Milano,
1975)
Ferdinanda
Pivano C'era una volta un beat (Arcana, Milano, 1976)
Luis
Racionero Filosofie dell'underground (Savelli, Roma, 1978)
Julie Burchill-Tony Parsons "The
Boy Looked at Johnny". (Pluto Press, Londra,
1978)
AA.
VV. a cura di Pasquale Alferj e Giacomo Mazzone I Fiori di Gutemberg (Arcana,
Milano, 1979)
A. Noah Underground Press (Embryo,
Amsterdam, 1980)
AA.
VV. a cura di Bruno Richard e altri Graphic Production (Autrement,
Parigi, 1983)
Vernon Joynson The Acid Trip
(Babylon Books, Todmorden, 1984)
AA.
VV. a cura di Matteo Guarnaccia 1968-1988 Arte Psichedelica e Controcultura
in Italia (Stampa Alternativa, Roma, 1988)
Greil
Marcus Lipstick Traces (Secker & Warburg, Londra, 1989)
AA.
VV. a cura di Tommaso Tozzi Opposizioni '80 (Amen Prod., Milano, 1991)
(da Vittore Baroni, Arte
Postale - Guida al network della corrispondenza creativa, AAA Editrice
1997)
Un musicista che
produce cassette duplicate in casa non avrà forse la possibilità di diventare
ricco e famoso, ma può ugualmente entrar a far parte di una informale rete
internazionale di persone che si scambiano lavori ed esperienze, creando da
soli o in collaborazioni a distanza opere spesso incredibilmente inusuali
(comunque cancellabili e riciclabili!). Il cosiddetto tape network è un
vasto campo di intervento che spesso deborda dai confini sotterranei,
mailartistici e no, da cui prende le mosse. Quando, attorno alla metà dei ’70,
è esploso partendo dall’Inghilterra il fenomeno delle etichette discografiche
indipendenti, hanno preso vigore anche innumerevoli piccole imprese le cui
produzioni su nastro, recensite da rivistine specializzate come la belga Cassette
Gazette e fatte circolare perlopiù via posta, hanno finito in modo del
tutto naturale con l’incrociare esperienze di mail art (VEC, Trax, ND,
ecc.). Nel mondo delle cassette autoprodotte, esaminato al meglio nell’antologia
di saggi e interviste Cassette Mythos (Autonomedia, New York 1992) a
cura di Robin James, l’immaginazione è del resto il limite non solo per i suoni
da produrre ma anche per l’involucro che li contiene: autori ed etichette si
sono sbizzarriti nel creare le confezioni più strane e improbabili, con lo
stesso estro lunatico che caratterizza tante pubblicazioni postali.
Le cassette (più
raramente i dischi) che circolano in rete sono solo raramente strutturate
seguendo tradizionali generi musicali: si va da semplici lettere “parlate” in
copia unica ad esperimenti di audio arte, poesie lineari e fonetiche,
canzoncine conviviali o componimenti seriosi su temi postali (ricordo l’Art
Strike Mantra di Crackerjack Kid, che fonde in un’unico coro voci di decine
di networkers) e ovviamente cataloghi di rassegne (come la cassetta con covers
di Dylan per l’International Bob Dylan Mail Art Exhibition curata da
Alex Igloo e disloKate Klammer nell’83). Mark Bloch, Eric Finlay, Klaus Groh,
Minoy, Mogens Otto Nielsen, Barry Pilcher, David Zack, si sono tutti più volte
cimentati in opere sonore, ma è il canadese Gerald Jupitter-Larsen il
personaggio che più a lungo ha spartito interessi per ricerche sonore e
postali: per un programma radio ha trasmesso tutta la notte “audiosculture”
inviate da networkers e organizzato happenings di phone art, col suo
gruppo fantasma The Haters ha stimolato performances a domicilio (vinili senza
solchi da incidere con oggetti appuntiti prima di ascoltarli, ecc.), producendo
una lunga serie di dischi e CD che spingono il concetto di audio arte verso
nuove frontiere di minimalismo rumorista. Lo stesso dicasi per Masami Akita
alias Merzbow, oggi uno dei più prolifici esponenti della non-musica “noise”
giapponese, partito negli ’80 producendo cassette e rivistine di collages
erotico-apocalittici per il network.
Tre altri progetti
degni di nota sono stati portati casualmente a compimento nello stesso anno, il
1983: il polacco Henryk Gajewski ha presentato in performance e documentato su cassetta
la raccolta Audio Child, piccoli brani adatti ad essere ascoltati da un
pubblico infantile richiesti a vari autori internazionali; Nicola Frangione ha
completato a Monza il primo LP di Mail Music, realizzato sfumando uno
sull’altro, secondo l’ordine postale di arrivo, frammenti di contributi che
spaziano dalla poesia sonora alla musica elettronico-concreta a registrazioni audio
verité; infine, resta tuttora il più ampio progetto sonoro scaturito dalla
rete postale la mostra-installazione collettiva Audio organizzata al
prestigioso Moderna Museet di Stoccolma da Peter R. Meyer, curatore di
programmi per la radio e TV svedese che ha in seguito più volte
professionalmente utilizzato i contatti della mail art, mettendola anche in
pratica (mi ha inviato ad esempio un disco fuso, ridotto ad una colata informe
di vinile, con un biglietto che dice “questa era sound art, ora è soltanto
arte”).
(da
Vittore Baroni, Arte Postale - Guida al network della corrispondenza
creativa, AAA Editrice 1997)
Le
comunicazioni dei mass media sono strutturate in sistemi dogmatici ed
unidirezionali. Il networking è un'attività bidirezionale,
personalizzata e anti-dogmatica. La possibilità di risposta è ciò che rende la realtà
un fenomeno complesso e multidimensionale. Coloro che governano hanno un
preciso interesse nel mantenere gli individui separati e i loro contatti di
natura puramente meccanica ed utilitaristica. Il networking rappresenta una
sfida allo status quo, in quanto permette una libera circolazione interattiva
di idee non filtrate e diluite dalla saturazione dei media.
(da
Arte Postale! n.60, Viareggio, Near the Edge Editions 1989)
Se network
significa letteralmente "rete", l'accezione da dizionario del termine
che meglio si adatta all'arte postale è quella di "un gruppo, sistema,
ecc. di individui interconnessi e cooperanti". Esistono al mondo
un'infinità di strutture "a rete" con le più diverse finalità, nobili
e meno nobili, dai circoli filantropico-umanitari fino alle logge massoniche,
ma com'è facile intuire quello che ci interessa qui è un uso creativo e
libertario di una pratica di rete (o networking) in cui i più diversi interessi
culturali possono incrociarsi e fertilizzarsi a vicenda. Caratteristiche
essenziali di una simile concezione sono:
- la comunicazione
diretta, senza filtri o censure, funzionante nei due sensi
- la totale apertura
(nessuna selezione dei partecipanti)
- l'orizzontalità
(ovvero struttura anti-gerarchica e dialogo a livello paritario)
- la non competitività
(e assenza di fini di lucro)
- l'anti-dogmatismo
(refrattarietà a regole e codici)
Proprio la mancanza di
regole fisse e uniformità metodologica o ideologica rendono il networking
imprevedibile e incontrollabile. Alcune delle condizioni appena elencate
possono a volte essere eluse o non rispettate, col risultato però di sminuire
l'impatto e la rilevanza dell'esperienza comunicativa.
Ho sempre ritenuto che
le singole opere prodotte nell'ambito dell'arte per corrispondenza siano meno
importanti del processo da cui esse nascono e dei benefici che da questo
derivano ai vari partecipanti. La possibilità di sperimentare con nuovi occhi
(o per la prima volta) il momento della creazione
artistico-poetico-musicale-ecc., la trasformazione da passivi ricettori di
notizie preconfezionate a interlocutori attivi in un dialogo allargato e
(potenzialmente) planetario, l'opportunità di confrontare esperienze di prima
mano con persone che vivono in aree geografiche e situazioni socio-ambientali totalmente
differenti, sono certamente gli elementi che quotidianamente stimolano nuove
persone a compiere il tuffo nella "rete eterna", fra lingue, dialetti
e codici espressivi diversi.
Occorre chiarire bene
che la comunicazione "di rete" non è di per se stessa
"migliore" o "peggiore" di quella veicolata dai mass media
tradizionali: si tratta semplicemente di un'esperienza diversa, di una
possibilità di arricchire le nostre conoscenze che si somma, senza escluderli,
agli altri canali di informazione. Il confronto fra dati ottenuti con
differenti metodologie non può essere altro che vantaggioso e illuminante, ma
il networking non vuole e non può essere una panacea universale, anche perché
la sua pratica non è esente da difficoltà e limiti pratici (quali il tempo e i
mezzi necessari per mantenere un contatto diretto con un numero elevato di
corrispondenti). Il fatto stesso però che a livello planetario siano emerse
contemporaneamente e autonomamente in questi ultimi decenni differenti
"reti aperte", che sfruttano ingegnosamente tutti i canali
comunicativi disponibili e appropriabili, testimonia che esiste una effettiva e
diffusa esigenza, proveniente "dal basso", di ritrovare una verginità
di comunicazione che funzioni da antidoto all'effetto di assuefazione e saturazione
prodotto dai mass media (anche rispetto alle immagini terrificanti di una
guerra o di un'apocalisse ambientale). In una situazione di Nuovo (dis)Ordine
Mondiale, dove alla trasformazione della geografia politica in senso
(nominalmente) democratico si accompagnano striscianti o palesi tendenze
autoritarie e rigurgiti reazionari, il networking, quale che sia il grado di
coinvolgimento del singolo operatore, tende a scavalcare la fissità della
cultura dominante, a rimuovere consuetudini congenite, a farsi scuola di
tolleranza, a sfaldare vecchie certezze e aprire la mente a nuove libere
configurazioni, ad una realtà diversa da quella promossa dal Grande Fratello di
turno. Ciò non toglie che il valore di ogni comunicazione, frivola o seria che
sia, dipende interamente dalle capacità di elaborazione del singolo operatore.
L'emergenza di una diffusa "cultura del network" (dalla mail art a
Internet) rappresenta quindi certamente un fenomeno di vaste implicazioni, che
potrà anche rivelarsi una delle strategie determinanti per la vita culturale
del ventunesimo secolo, ma non dobbiamo semplicisticamente prender per buono lo
slogan lo scambio è il messaggio, illudendoci che sia sufficiente essere
"in rete" per sortire dei risultati. Occorre anche riempiere di senso,
muscoli e cuore la nostra presenza.
G.A. Cavellini (o GAC,
classe 1914), fondatore di una personale tendenza artistica, l’autostoricizzazione,
é un personaggio centrale per l’intera storia dell’arte postale. Ambizione e
arrivismo, culto dell’ego e del genio individuale, poco si attagliano alla
cultura di rete, dove l’invenzione del singolo diviene spesso patrimonio
comune. Atipico è però il caso dell’artista bresciano, per il quale l’ossessiva
esaltazione della propria persona rientra in un ambizioso disegno
concettual-creativo. Già uno dei più noti collezionisti d’arte moderna
italiani, amico dei maggiori talenti della sua generazione, egli coltiva anche
nel tempo una fervida attività pittorica ma è solo nel 1971 che, sentendosi
ingiustamente trascurato dalla critica, decide di “fare da solo”, rendendo
oggetto stesso della sua arte una serie di fantasiose strategie
autopromozionali.
Alcuni artisti
concettuali hanno creato mostre “su catalogo” ma senza portare l’idea alle sue
logiche conseguenze: la spedizione di migliaia di “mostre a domicilio” a musei,
biblioteche, critici, artisti, curiosi, addirittura con inserzioni su riviste
che invitano a richiedere gratuitamente le pubblicazioni. Con una ventina di
tali “cataloghi” pubblicati a ritmo serrato fra il ’71 e l’89, tutti
finalizzati con impertinenza marinettiana a conclamare Cavellini il più grande
artista contemporaneo, questi porta l’ambiente artistico internazionale a
conoscenza del suo peculiare caso: vi troviamo manifesti di mostre dedicate a
GAC dai principali musei del mondo per il suo centenario nel 2014, autoritratti
in forma di grandi francobolli commemorativi, copertine di libri scritti per
lui dai Grandi (tipo Il Divino Cavellini di Dante Alighieri), polemici
diari autobiografici (come 1946-1976 incontri/scontri nella giungla
dell’arte, Shakespeare & Company, Brescia 1977), ecc. Se già i
cataloghi possono essere considerati il cardine dell’autostoricizzazione, va
aggiunto che a ciascun lavoro riprodotto sulle loro pagine corrisponde anche
una vera opera di grandi dimensioni e squisita fattura tecnica, su tela, legno
o altri supporti.
Non è però solo per
distribuire volumi in quantità industriali (grazie all’ingente patrimonio di
famiglia, aggiungono gli invidiosi) che l’artista fa uso delle poste, anzi egli
si prodiga nel rispondere personalmente a tutti coloro che gli scrivono, nella
elegante calligrafia che è parte integrante di molti suoi lavori. Entrato
inevitabilmente in collisione fin dai primi ’70 con l’universo della mail art,
l’artista diviene un assiduo frequentatore di progetti, mostre e scambi
privati, inviando in giro un numero spropositato di adesivi promozionali (oltre
ai popolari tondi tricolori, una lista di artisti celebri culminanti nel suo
nome, foto di performances con abiti bianchi su cui ha scritto la sua intera
storia, ecc.), francobolli (ritratti commissionati ad artisti quali Warhol,
Mimmo Rotella, James Collins, o autoritratti accostati a quelli in pose
analoghe di artisti famosi, ecc.), cartoline (quali il Decalogo di Cavellini
che inizia con “NON autostoricizzatevi” e i Dieci modi per diventare famosi
con “Uccidere Cavellini, o farsi uccidere da Cavellini” al primo punto...) e
poi autorizzazioni a celebrare in un museo il suo centenario, lettere
manoscritte con calligrafia tanto fitta da risultare illeggibile, soprattutto
migliaia di “operazioni andata-ritorno”, ovvero buste ricevute e ritornate al mittente
ricoperte di francobolli e timbri cavelliniani.
Non sono pochi i
mailartisti che hanno stigmatizzato l’opera di Cavellini scambiandola per puro
egocentrismo, senza tener conto della sua ironia paradossale (in un appello ai
popoli del mondo, chiede la fine di tutte le guerre al solo fine di evitare che
la sua produzione vada distrutta!), della critica implicita ai meccanismi
corrotti dell’arte e della sua perspicace consapevolezza (al pari di Ray
Johnson) di trovarsi a vivere la fine di una concezione tradizionale
dell’artista demiurgo, quale “anello di congiunzione” con un nuovo modo di
intendere e praticare l’attività artistica. Altri networkers hanno di contro
elevato GAC al rango di guru, inondandolo di opere in suo omaggio (incorniciate
a centinaia, riprodotte in catalogo ed esposte come parte del Museo
Cavelliniano), organizzandogli mostre o invitandolo a festivals a lui dedicati
(in California, Ungheria, Belgio, Giappone). Dopo la scomparsa dell’autore nel
1990, il figlio Piero, noto gallerista, ha annunciato la creazione a Brescia di
un Archivio GAC e ha concesso opere per esposizioni in Italia e all’estero. L’impressione
è comunque che molto possa e debba ancora esser fatto per preservare e studiare
l’eredità di questo artista che, definendosi il più grande di tutti, forse non
andava poi così lontano dal vero.
(da Vittore Baroni, Arte
Postale - Guida al network della corrispondenza creativa, AAA Editrice
1997)
La cultura dell'allargamento della coscienza tramite l'uso di sostanze allucinogene, giunta ad un primo apice di notorietà sul finire dei '60, non è mai realmente morta o scomparsa. Si è anzi andata rafforzando e diffondendo capillarmente negli anni, seppur in maniera sotterranea, fino a dar corpo a veri e propri "circuiti" di natura scientifica, letteraria, artistica e musicale, la cui maggiore o minore visibilità all'interno dei media e della vita sociale è dipesa, oltre che dalle mutazioni del costume, dal variabile grado di tolleranza delle istituzioni repressive. Per buona parte dei '70 e '80, soprattutto in corrispondenza con la caccia alle streghe Reaganiana (e Craxiana) verso ogni tipo di droga, il movimento neo-psichedelico ha mantenuto un profilo piuttosto basso, ai limiti della clandestinità, ma nei '90 si è assistito ad un vero e proprio graduale ribaltamento della situazione. Del resto, quelli che ieri erano giovani hippie squattrinati, sono oggi in molti casi rispettati cinquantenni, con sufficienti mezzi a disposizione per sovvenzionare studi, fondare case editrici o aprire gallerie d'arte.
Ecco dunque che
tornano a circolare in libreria opere vecchie e nuove di personaggi come Albert
Hofmann (lo scopritore dell'LSD, da noi intervistato nel lontano N.3, suoi
scritti nel cofanetto Psichedelica di Stampa Alternativa) e Timothy
Leary (Caos e Cibercultura, per Urra, è il suo magmatico manuale di
sopravvivenza psichica per il nuovo millennio), affiancate da quelle
dall'etnobotanico visionario Terence McKenna (Vere allucinazioni, Shake
e Il nutrimento degli dei, Urra: lo sapevate che anche zucchero e cacao
sono delle droghe?) e di numerosi altri famosi o sconosciuti
"psiconauti" (la bella antologia The Drug User per la Blast
Books di NY; Dalla psichedelia alla telepatica, Synergon, e Elementi
di psiconautica, Castelvecchi, entrambi a cura di Franco Berardi
"Bifo"; Funghetti di Silvio Pagani e Rospi psichedelici,
per le edizioni Nautilis di Torino, ecc.). Sul fronte divulgativo e
scientifico, a riviste ormai leggendarie come le americane High Times e Psychedelic
Monographs and Essays o alla londinese e non più attiva Encyclopaedia
Psychedelica, è succeduta una fioritura di nuove fanzines e testate
semi-accademiche. Dalle nostre parti, basterà ricordare la curatissima rivista Altrove
(Nautilus) promossa dalla "Società italiana per lo studio degli stati di
coscienza", lo speciale numero 17 "Cervello mente coscienza" di Cyber
e la terza uscita del foglio sotterraneo Power On Off (c/o Sandro
Bergamo, Via Lamarmora 13/a, 70011 Alberobello, BA), con svariati interventi
sul tema e una nutrita bibliografia degli studi reperibili nella nostra lingua.
Una sorta di collettivo che si è dato parecchio da fare per la diffusione della
psichedelia in Italia è anche quello formatosi attorno alle attività del
critico Franco Bolelli e del disegnatore Matteo Guarnaccia (organizzatori di
convegni-eventi milanesi), comprendente il computer-artista Andrea Zingoni, il
redivivo Claudio Rocchi e il già citato Bifo. Mitologie Felici per
Mudima, Le Nuove Droghe e Starship per Castelvecchi sono solo
alcuni dei volumi a più mani in cui Bolelli e amici ripercorrono con cognizione
di causa le diverse tappe dell'avventura psichedelica: peccato solo per la
fastidiosa tendenza del gruppo a scriversi addosso e ad utilizzare toni
utopico-messianici al limite dell'umorismo involontario (con cuori che insomma,
nonostante le teorizzazioni futuribili e i frettolosi riferimenti alla cultura
dei ravers, battono ancora un po' troppo imparzialmente sul versante dei '60).
Di lampante evidenza è
in particolare la maturazione qualitativa e quantitativa delle arti visive di
impronta psichedelica. Gli inventivi poster multicolori venduti per pochi
dollari o strappati dai muri dopo i concerti trent'anni fa, sono oggi materia
di commercio per un ampio circuito di gallerie specializzate, e vengono pagati
dai collezionisti a quotazioni da multiplo d'autore, non solo nel caso di
classici del genere (i vari Griffin, Mouse, Kelley, ecc.), ma anche di giovani
autori come Hess, Emek, T.A.Z., Arminski, R.K. Sloane. In splendide riviste
patinate quali Juxtapoz (High Speed Productions, 1303 Underwood Ave.,
San Francisco, CA 94125 USA), diretta dal fuoriclasse del pennello Robert
Williams, si può trovare il meglio della produzione lisergica passata e
presente, finalmente analizzata nel dettaglio, lasciando emergere le storie
umane e artistiche dietro a potenti icone contemporanee, da noi apprezzate
anche dalle pagine di comix, su t-shirts e copertine di dischi. Certo
non meno rilevante è poi il peso dell'eredità psichedelica in ambito musicale
(e video), dove al riciclaggio di forme già ampiamente canonizzate fin dai
tempi dei primi Grateful Dead, si sono affiancate innumerevoli espressioni di
sciamanismo elettronico, in una mutazione informatica già preconizzata nell'88
dall'acid house di Psychic TV, The Grid e simili. Una musica volta in senso evolutivo
all'espansione dell'anima è insomma da rintracciarsi oggi dalle parti di
Zuvuya e Shamen (collaboratori di McKenna), Banco de Gaia e Loop Guru, Material
e PWOG, o della trance-techno più radicale (su etichette come Silent, Waveform,
En-Trance), piuttosto che nei tanti epigoni e revivalisti dell'acid-rock
chitarristico. Non è certo casuale che il monumento postumo a Dark Star
del Capitan Jerry Garcia, lo spettacolare montaggio creativo di Greyfolded,
sia stato affidato alle cure del "plagiarista" John Oswald.
(di Vittore Baroni.
Apparso in Rumore, Marzo 1995)
Nessuno serio studio sull’argomento ha mai messo in discussione la consolidata e ben meritata reputazione di Ray Johnson quale principale originatore (o “padre”) dell’arte postale nella sua attuale accezione, anche se egli non è stato affatto, come Marinetti e Breton, un leader in senso gerarchico e “politico”, oppure, come Maciunas e Friedman, un teorico e coordinatore razionale: non ha redatto manifesti bensì ha elevato il frammento e il pettegolezzo a forma d’arte, le “espulsioni” dal suo giro di corrispondenti non erano vere epurazioni ma piuttosto parodie delle lotte interne alle avanguardie storiche. La sua è stata sempre una presenza enigmatica e defilata: un eremita che pareva conoscere tutto di tutti, un convinto individualista capace di imprevedibili atti di generosità, una figura mitologica già al suo primo apparire sulla scena artistica, una leggenda da tramandare piuttosto che un maestro da riverire.
Nato
a Detroit nel 1927, Raymond Edward Johnson ha studiato negli anni ’40, con
insegnanti come Josef Albers e Robert Motherwell, al celebre Black Mountain
College nel North Carolina, un laboratorio che ha partorito nomi di spicco
dell’avanguardia americana di questo secolo, da Merce Cunningham a John Cage. Nel
’48, l’artista si è trasferito a New York, dove ha messo a punto, dopo alcune
esperienze astratto-espressionistiche, le sue originalissime strategie
operative, nel loro piccolo capaci di ribaltare assunti fondamentali del
sistema dell’arte, oltre ad anticipare diverse tendenze, dalla Pop Art (è fra i
primi ad integrare nei collages volti di celebrità come Elvis Presley e James
Dean) al graffitismo (i messaggi visivi lasciati su mura urbane e i
vignettistici animali onnipresenti nella sua opera - il coniglietto una sorta
di marchio di fabbrica - precorrono di trent’anni gli omini di Keith Haring). Johnson
ha però sempre preferito lavorare in copia unica e su piccoli formati,
precludendosi così l’appoggio del grande mercato dell’arte, verso cui nutre
comunque sentimenti contrastanti (rifiuta spesso di esporre o vendere i propri
lavori). A volte associato a Fluxus per il carattere minimal-concettuale dei
suoi progetti, egli è stato in realtà un talento unico facente scuola a se
stante, un collagista e disegnatore dal tratto elegante ed essenziale, un
artista “vecchia maniera” che ha saputo vedere ben oltre la propria formazione
accademica, presagendo e svelando con le sue liste di contatti epistolari
l’importanza di una nuova figura culturale: l’operatore di rete, una
sorta di “animatore” che crea contesti per l’espressione collettiva. L’arte
intesa insomma, pur senza alcun palese intento socio-rivoluzionario, come
processo attivo e in progress di scambi tra individui e non come
operazione commerciale, scavalcando le figure istituzionalizzate del critico e
del gallerista.
Già
nella metà dei ’50 Johnson crea i moticos, piccoli cartoncini sagomati
con incollati disegni e ritagli di giornale ritoccati, esposti sui marciapiedi
o nelle stazioni ferroviarie oppure, secondo l’estro del momento, spediti per
posta ad amici, conoscenti, personaggi noti e perfetti sconosciuti (scelti
dall’elenco telefonico, in base al suono del nome o altri criteri sibillini),
accompagnati da messaggi criptici, giochi di parole, richieste all’apparenza
assurde, inviti a “incontri” reali o fittizi (i cosiddetti nothings in
cui, rovesciando il concetto di happening, non accade assolutamente nulla!). I
contatti postali assumono gradualmente per l’artista, il quale per inciso ama
utilizzare creativamente anche il telefono e altri mezzi di comunicazione,
un’importanza sempre maggiore, ramificandosi in una vasta rete con centinaia di
corrispondenti “abituali”, battezzata nei primi ’60 (pare dall’artista Fluxus
Ed M. Plunkett) con il nome ironico di New York Correspondence School: un
ibrido fra la pittorica New York School creata dai critici e le “scuole per
corrispondenza” pubblicizzate all’epoca su riviste. La sigla conosce poi negli
anni infinite ludiche variazioni, tutte segnalate da appositi timbri: New York
Correspondance School, NY Gymnastic School, Buddha University, ecc., a
cui occorre aggiungere le decine di “fan clubs” scherzosamente creati e
coordinati da Johnson, dedicati a stars del cinema e altre celebrità che questi
tenta, spesso con successo, anche di coinvolgere nelle sue corrispondanze.
L’intera attività postale dell’artista si basa in realtà, e in questa semplice
rivelazione sta tutta la sua grandezza, su un unico pun macroscopico
(proprio per questo invisibile ai più): nella corrispondenza egli cerca sempre
e solo delle corrispondenze, con un carosello infinito di riferimenti
(immagini, citazioni, anagrammi, ecc.) capaci di mettere in relazione tra di
loro due concetti (e/o due persone: mittente e destinatario) a prima vista
senza nulla in comune.
“I
giochi di parole non sono solo un gioco”, scriveva Alfred Jarry. La
considerazione si attaglia perfettamente al lavoro di Johnson, in apparenza
effimero e frammentario, ma osservato nel suo insieme (migliaia di
comunicazioni ad altrettanti corrispondenti) orchestrato come una complessa
sinfonia, in una fitta e geniale trama di temi ricorrenti, variazioni, gags,
coincidenze e doppisensi: nelle parole dell’autore, “un fantastico, gigantesco mobile
di Calder... costantemente in movimento”. Esistono fortunatamente, oltre a
ispirati saggi di alcuni fedeli amici-critici (William S. Wilson su tutti),
alcuni cataloghi in cui sono state radunate corpose raccolte private di
lettere, che riescono a darci un’idea precisa della poetica globale
dell’artista (ad esempio, Correspondence - An Exhibition of the Letters of
Ray Johnson al North Carolina Museum of Art di Raleigh nel ’76), oppure
cataloghi di mostre non “postali” (quale Works by Ray Johnson al Nassau
County Museum di Roslyn Harbor nell’84, a cura di David Bourdon) che
documentano la qualità eccelsa di collages realizzati con tecniche e supporti
“poveri” quali pezzetti di cartone dipinti e poi scartavetrati, sempre
strettamente connessi nel riciclo di temi e materiali ai lavori circolati per
posta.
Soltanto una ventina
di mostre personali in quasi cinquant’anni di attività, più un paio di
retrospettive in musei pubblici, non sono forse gran cosa, ma non ci è dato
sapere se è stata una forma depressiva, indotta dal mancato riconoscimento
della propria statura artistica, che ha spinto Johnson a togliersi la vita in
un’ultima (triste) performance che ha profondamente impressionato quanti lo
conoscevano e stimavano. La data del 13 Gennaio 1995, il giorno in cui
l’artista si è gettato vestito di tutto punto dal ponte di Sag Harbor a Long
Island (forse non casualmente: “to sag” significa “cedere, andare alla
deriva”), allontanandosi nuotando sul dorso, come riferito da alcuni bambini
impotenti testimoni, e lasciandosi affogare nell’acqua gelida, assume un
involontario valore simbolico, marcando in qualche modo la fine del “periodo
aureo” dell’arte per corrispondenza.
(da Vittore Baroni, Arte
Postale - Guida al network della corrispondenza creativa, AAA Editrice
1997)