Berardi Franco "Non credo all'assuefazione al virtuale" (intervista di Mediamente, 1997) L'ambiente Internet rischia di creare un'assuefazione al virtuale? Per la verità, questa storia dell'assuefazione al virtuale non mi ha convinto mai. Perché noi non stiamo parlando di una malattia. Stiamo parlando di una mutazione. La mutazione è una vera e propria trasformazione irreversibile dell'organismo individuale e dell'organismo sociale. Questo è ciò che produce il virtuale, in bene e in male. È evidente che in un processo di mutazione l'organismo, fisico e psichico, attraversi delle fasi di malessere, di febbre, ma questa è parte di una mutazione irreversibile e inevitabile. Internet crea nuove patologie o semplicemente porta alla luce disagi già esistenti? Se una patologia della relazione nel nostro tempo esiste, ed esiste di sicuro, questa non dipende dal fatto che c'è Internet, dipende dal fatto che la vita, la sessualità, il lavoro, la famiglia, i rapporti sociali, sono a tal punto frenetici, competitivi, malati, che spesso noi preferiamo staccare tutto, chiuderci di fronte ad una scatola colorata e rimanere in rapporto con la virtualità. Ma questo non vuol dire che Internet sia una malattia o un fattore patogeno. Significa che Internet è un rifugio inevitabile in una vita che tende a diventare patologica, uno dei tanti rifugi possibili. Cambiare identità in rete è un gioco o una patologia? Quanto più siamo capaci di rinunciare a un'identità fissa, tanto più possiamo diventare ricchi "conoscitivamente" e psicologicamente. Quindi, l'abbandono e la moltiplicazione dell'identità non è affatto una patologia. Può diventare una patologia, ma per ragioni che non dipendono dalla tecnologia. Può diventarlo per ragioni che dipendono dalla nostra relazione con gli altri. O per ragioni che dipendono dal lavoro che facciamo. Ripeto: non credo che qui si tratti di una malattia. Credo che si tratti di un processo di mutazione, che ha certo degli aspetti spaventosi, ma che non sono isolabili dal contesto sociale. Ha mai esagerato nel suo rapporto con la rete? Francamente no, a un certo punto sono stanco e mi capita di dover fare qualcosa di più interessante. Se esagero è perché il lavoro mi costringe a farlo. Non è colpa della rete, è colpa del lavoro che mi costringe a stare davanti ad uno schermo più a lungo di quanto vorrei. Di fronte al rischio della dipendenza da web cosa si può fare, a parte disconnettersi? Disconnettersi sarebbe una vera stupidaggine, perché perderemmo molto del piacere intellettuale del nostro tempo. Però è vero che dovremmo essere capaci di modulare meglio il nostro rapporto con la connessione. In verità io credo che se c'è un vero pericolo sta più in strumenti come il telefono cellulare, che entra continuamente nella nostra vita. Internet, invece, proprio per il suo carattere volontario, non entra nella nostra vita: siamo noi che entriamo in Internet. Quindi l'importante è mantenere il governo del proprio tempo e della propria connessione. Se talvolta perdiamo questo controllo, la colpa non è di Internet. La colpa è semmai della relazione sociale, produttiva ed economica rispetto alla quale Internet è solo un elemento. Lei ha scritto un libro sulla new economy intitolato La fabbrica dell'infelicità: un titolo da apocalittico, anche se lei sembri un integrato… Io sono un apocalittico e un integrato. Sono apocalittico quando parliamo dei regimi sociali che ci costringono a trasformare tutta la nostra intelligenza, la nostra vita, le nostre comunicazioni in lavoro, denaro, accumulazione. Invece, sono perfettamente integrato quando si tratta di parlare di tecnologia e comunicazione. Amo la connessione, a patto di essere io a decidere come, quando e perché. Da anni Clifford Stoll, docente a Berkeley e uno dei più autorevoli commentatori dello sviluppo della rete, sostiene la necessità di disconnettersi. Questa posizione esprime solo lo snobismo di chi è stato un pioniere e ora vede Internet diventare un fenomeno di massa o centra un problema autentico? Stoll dice più cose vere. La prima è che il nostro rapporto con il nostro corpo e con il corpo delle persone che abbiamo intorno tende a diventare qualcosa di disturbato. Ma questo è colpa delle tecnologie solo in misura minuscola: in realtà è colpa dell'economia, del modello sociale nel quale noi viviamo, rispetto al quale le tecnologie sono organiche. Poi è anche vero che Clifford Stoll ricorda un'epoca leggendaria della rete, in cui era frequentata solo da gente piena di lauree. È vero, la rete si è popolarizzata e quindi ha perduto gran parte del suo fascino. Ma questo non è il punto. Quello che mi preoccupa nel discorso di Stoll è una specie di integralismo, di idea della purezza di una vita senza tecnologie. Io non credo nella purezza: credo nella contaminazione, nell'intreccio di cose diverse. Non mi fa paura la tecnologia, il problema è fino a che punto siamo in grado di governarla felicemente. In questo Stoll ha ragione, anche se rischia di diventare un integralista. Senza l'integralismo, io sono d'accordo con lui che il modello nel quale tendiamo a vivere, è un modello in cui la tecnologia prende il posto del corpo. E questo non mi piace.
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