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Questa crisi radicale del tradizionale e rassicurante paradigma di distinzione fra l'interno e l'esterno ha generato, negli ultimi quarant'anni, incubi inediti anche nella più estrema radicalità libertina e nei romanzi sociali più lucidi dell'età moderna. Ritroviamo questi incubi nei testi di James Ballard (nella combinazione tra erotismo e automobile che informa Crash, nella quotidiana dissociazione della personalità che vive il protagonista di La mostra delle atrocità) come nei romanzi di Philip Dick, nelle convulsioni del Pasto nudo e nei complotti galattici di Nova Express di William Burroughs, nei bagni di sangue dei romanzi di Skipp e Spector e della narrativa "splatterpunk" in genere, nel perverso e doloroso matrimonio tra la carne e il metallo nel film Tetsuo di Shinya Tsukamoto. La fragile interiorità dell'uomo occidentale si è spezzata. Essa morirà definitivamente (per rinascere forse come interiorità di un nuovo complesso uomo/macchina) con la disseminazione del corpo operata dalle realtà virtuali. Ma questo accadrà perché già ora televisione e computer hanno aperto il guscio (il nostro guscio, non il loro) e hanno cortocircuitato i delicati meccanismi della psiche, della res cogitans. La televisione portando "il mondo in tutte le case", bruciando la nostra retina con una sovraesposizione alle immagini e "parlando al nostro corpo" come hanno detto MacLuhan e de Kerckhove. Il computer cominciando a svolgere per la prima volta alcune operazioni logiche, quelle più semplici, quelle algoritmizzabili, certo, ma pur sempre parte di un'attività che fino a ieri avevamo considerato superbamente riservata all'uomo e alla sua magnifica macchina, il cervello. Il solo fatto che si possa accettare nel linguaggio un'espressione che fino a ieri era solo un ossimoro riservato alla fantascienza, "intelligenza artificiale", misura la strada che stiamo percorrendo. Una strada che pare all'improvviso accelerarsi con la diffusione delle reti neurali. Ecco forse un nuovo paradigma per i prossimi decenni. La nostra interiorità si sta trasformando a ritmo velocissimo, nel modo più radicale possibile: perde la sua unicità, diventa confrontabile con quella della macchina.
Perché televisione e computer hanno aperto il nostro guscio, bruciando i nostri vecchi circuiti e facendone crescere di nuovi, ma noi abbiamo aperto il loro, credendo di trovare tubi catodici e circuiti stampati, e scoprendo invece con sorpresa che c'era tutto un mondo, che dentro a quelle macchine c'eravamo, piccoli piccoli, noi, con leggi di funzionamento, rapporti, sensi, un corpo nuovo: che c'era insomma il ciberspazio. Nel quale adesso navighiamo con un senso inebriante di libertà e, appunto, di "virtualità". Per il momento, finché il ciberspazio è senza regole e la condizione di wired è quella di un pioniere con la testa tra le nuvole. Poi, forse, ci sarà una fase nuova a cui però dovremmo pensare già da ora. Perché, dimenticavo, ma nello slang il verbo wire significa anche "mettere in una stanza o in una casa degli impianti di ascolto", delle microspie, insomma. E allora la trasparenza totale del ciberspazio tornerebbe ad essere "a senso unico", e non in tutte le direzioni, come vorremmo che rimanesse.