Wired
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In Eclipse, un romanzo cyberpunk del 1985 scritto da John Shirley, compaiono dei ballerini che si esibiscono sul palcoscenico attaccati a un fascio di cavi: wired dancers, ballerini cablati. La musica fluisce nel loro corpo direttamente, forse arriva direttamente al cervello, saltando il classico e (per questa prospettiva futuristica) macchinoso input sensoriale. Con il termine "wired", nella lingua americana di oggi, viene spesso indicata la condizione di cyborg, di essere perennemente interfacciato a una macchina. Nei testi cyberpunk, naturalmente, la condizione di wired è molto diffusa. Case, protagonista di Neuromancer di William Gibson (1984) e capofila di decine di personaggi, come lui "cow-boy della consolle" (o hacker, se preferite), entra nel ciberspazio senza bisogno di tastiera, mouse o video: si attacca alle tempie un paio di elettrodi che escono direttamente dal computer e, oplà, il gioco è fatto. Ultimo in ordine di tempo, il Brian Delaney di The Turing Option [L'uomo di Turing] ha il cervello attraversato da una pallottola. In altri tempi, pur sopravvivendo, un personaggio così sarebbe rimasto poco più che un vegetale. Ma nel romanzo di Harry Harrison e Marvin Minsky c'è un computer che provvede direttamente a ricostruire i percorsi neuronali tra i tessuti danneggiati, tramite un "micromanipolatore", una specie di Briareo le cui braccia si ramificano sempre più fino a terminare in una foresta di tubicini capillari che si insinuano nel cervello scoperto di Brian per ricostruirne le connessioni e installarvi un microprocessore. Così l'ultima versione (fantastica, certo: ma per quanto?) di wired guy realizza anche un cortocircuito molto esplicito fra il cervello e l'ambiente, fra l'interno e l'esterno.
La parola wired, però, sta acquistando un significato più ampio, allude sempre più frequentemente alla pratica del "collegamento" (con o senza fili) con le reti telematiche, il nuovo sistema nervoso dell'umanità, col quale si può forse realizzare una "collettivizzazione" del pensiero e della pratica che non significhi annullamento dell'individualità e dell'idiosincrasia, ma al contrario sappia valorizzare questi aspetti meglio della "società di massa" o "dello spettacolo" che abbiamo sinora conosciuto. I cambiamenti di significato delle parole, peraltro, sono spesso istruttivi, perché fanno riflettere sulle connessioni metaforiche tra le idee. Il verbo inglese wire, originariamente, significa "legare qualcosa con del fil di ferro" (wire, appunto), poi anche "installare un impianto elettrico", e infine "mandare un telegramma". Tutte azioni che implicano la presenza di un filo metallico, dapprima in funzione di sostegno o di collegamento meccanico, poi in funzione di comunicazione (il filo di rame in cui scorre il flusso di elettroni che chiamiamo "elettricità"): quindi c'è di mezzo qualcosa che è insieme forte, che connette, ma che non è rigido, al contrario è flessibile, adattabile a vari percorsi e funzioni. L'elettricità che corre sui fili è stata, tra la fine dell'Ottocento e i primi anni di questo secolo, lo strumento e il simbolo dell'allargamento delle comunicazioni. A questa nuova rapidità di circolazione dei messaggi, cominciata con il telegrafo e il telefono ma enormemente potenziata dalla radio e dalla televisione (due strumenti che fanno a meno dei fili, perché sfruttano le modificazioni del campo elettromagnetico che si trasmette nell'aria, o anche nel vuoto), si è subito collegata una figura tipica della piena modernità: l'uomo indaffarato e attento, pronto a cogliere le nuove informazioni che gli arrivano "sul filo" e a modificare i suoi comportamenti in relazione ad esse.