Archeologie del virtuale |
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Introduzione dell'autore. Le migrazioni delle farfalle. Sull’onda dell’interesse (in qualche caso dell’entusiasmo)
per le nuove tecnologie di realtà virtuale, che stavano arrivando
in Italia dopo il boom di qualche anno prima (1988-90) negli Usa e in
Giappone, usciva a Milano nel settembre del 1993 il primo numero di
Virtual. In quella rivista, diretta da Stefania Garassini (che durò
sino al 1998), si ritrovarono per qualche tempo, accanto a giornalisti
più sperimentati, anche persone che negli anni Ottanta si erano
interessate alla videoarte, alla computer graphics e ad altri fenomeni
vagamente inquadrabili o avvicinabili all’immaginario scientifico
e tecnologico. Naturalmente, fra costoro, solo i più inquieti
e i meno rispettosi delle tradizioni intuivano confusamente che le “realtà
virtuali” segnavano una svolta non solo in quel ristretto e specifico
settore, ma nell’immaginario complessivo. Cominciammo a tenerci
aggiornati sulle novità delle tecnologie digitali, a riflettere
sulle possibili conseguenze del diffondersi di quelle tecnologie, a
studiare le coordinate del cambiamento fra i comportamenti delle generazioni
più giovani, a seguire le riviste, i libri, i film, i saggi dei
circoli cyberpunk (poi, più concisamente, “cyber”)
internazionali; imprecammo contro Nicholas Negroponte, assistemmo alle
performance di Stelarc, leggemmo Derrick de Kerckhove e Pierre Lèvy.
Le realtà virtuali si defilarono ben presto dall’orizzonte
mediatico, e arretrarono un poco su quello della tecnologia e dell’immaginario.
In capo a un paio d’anni arrivava il boom mondiale di Internet,
e al suo seguito la new economy, la globalizzazione, il movimento di
Seattle. Ma la cosiddetta “era del virtuale”, negli anni
intorno al 1993, era cominciata così. |