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"DAL REALE AL VIRTUALE:
verso una nuova dimensione dell'essere"

Intervista a Pierre Levy sulla "sua" realtàò virtuale e su come gli uomini cambiano d'identita nella rete.

"Il virtuale" è il titolo di un suo libro, che ha riscosso molto successo in Italia. In quel lavoro lei espone in maniera semplice cosa intende per realtà virtuale. Può spiegarcelo in sintesi?

Innanzi tutto dobbiamo essere consapevoli del rapporto che esiste tra lo sviluppo delle nuove tecnologie della comunicazione e quella che io definisco la "trasformazione", ovvero il passaggio da una modalità dell'essere all'altra. Assimilato questo concetto, dobbiamo dargli un nome, io ho scelto "virtuale" per definire il passaggio dall'essere reale ad un'altra dimensione ontologica. Per spiegare questo concetto serviamoci di uno degli strumenti simbolo della società digitale: il telefonino. Il cellulare opera come un dispositivo molto particolare in quanto non si limita a trasmettere una rappresentazione della voce, ma vincola la voce stessa. Il cellulare separa la voce dal corpo fisico e la trasmette a distanza. Il mio corpo fisico è qui, mentre il mio corpo logico, sdoppiato, è al contempo qui e altrove. Questo significa che questo dispositivo attualizza una forma di ubiquità, seppure ovviamente parziale. Il corpo sonoro dell'interlocutore subisce un processo simile, per cui i due attori della conversazione si trovano qui e altrove, formano un incrocio rispetto alla dislocazione del corpo fisico. Questo fenomeno dà il senso di quello che io intendo per mobilità ma, nello stesso tempo, introduce il passaggio dal reale al virtuale secondo una prospettiva nuova.


Quando si parla di virtuale si pensa a qualche cosa di immaginario, fantastico, a volte ingannevole. Lei è molto critico rispetto a questa concezione, perché?

Nel mio libro (Il virtuale, n.d.r.) non parlo di una ipotetica realtà virtuale, ma del virtuale; ed è cosa molto diversa. Il virtuale è per me una modalità dell'essere. Non è il falso o l'illusorio, come ho cercato di dire. Nel virtuale siamo immersi, fa parte di noi e a volte è dentro di noi. Nel telefonino, per rimanere all'esempio di prima, viene trasportata non solo la voce, ma anche un pensiero, un cuore e dei sogni condivisi. Esiste dunque una componente virtuale così come nel televisore, ma anche nei telegrammi, nei videogiochi e negli scacchi. Il virtuale (dal latino virtualis che viene da virtus = forza, potenza) non è una categoria che si oppone al reale, come per troppo tempo si è creduto. Il virtuale è un nodo problematico, perché ha dentro di sé tutte la potenzialità da cui può scaturire l'essere in una sua entità specifica. È, per usare un semplice immagine dal sapore aristotelico, il seme che si attualizza nella pianta, anche se non si esaurisce in essa. Per questo è ammissibile anche il processo inverso, il processo di virtualizzazione. È un processo creativo, opposto all'attualizzazione e che trascende l'oggetto, inserendolo in un campo problematico e di relazione più vasto.


Qual è il rapporto che esiste tra la categoria del virtuale e la categoria del possibile?

Il possibile è già scontato, perché tutti noi sappiamo dove ci condurrà. Il virtuale, al contrario, è il genio, la creazione, l'esplosione delle capacità intellettive, la progettazione. Professore, siamo nell'era della comunicazione globale. Con il telefonino, connesso al fax o al computer, possiamo oggi scambiare un numero altissimo di dati e informazioni.


La comunicazione è un continuo pulsare, che non si arresta mai, senza distinzione né di luogo né di tempo. Il mondo è nella rete. Cosa le fa pensare tutto questo?

Quello che dice mi riporta alla definizione di intelligenza collettiva, che si intreccia con la "filosofia della virtualità".


Di che cosa si tratta?

Dove c'è l'uomo, c'è intelligenza. Le nuove tecniche di comunicazione digitale consentono la messa in comune delle intelligenze. Permettono cioè di creare una sorta di koinè fondata su conoscenze ed esperienze diverse. Non si può parlare di un fenomeno, come la virtualità, senza tener conto del fatto che gli strumenti che la società dell'informazione ci mette a disposizione, hanno cambiato il nostro rapporto con la conoscenza, accelerando i processi cognitivi e la necessità di aggiornamento.


La rivoluzione in atto è quindi una rivoluzione non solo tecnologica, ma anche culturale?

Assolutamente sì. La nostra conoscenza invecchia sempre più e sempre più velocemente. Tutti dobbiamo fare educazione permanente, non solo gli scienziati o i ricercatori. L'ampliamento delle capacità cognitive, che si verifica grazie ai calcolatori e alle banche dati ormai diffuse, ci carica di nuove responsabilità. Inoltre, il nuovo spazio della comunicazione, costruito grazie ad oggetti come il cellulare o Internet, offre la possibilità di sperimentare forme di apprendimento cooperativo e di scambio culturale inimmaginabili per il passato.