Intervista | ||
Castells: «Il destino del mondo catturato dalla Rete»
A colloquio con lo studioso spagnolo, autore di una poderosa ricerca sull'«Età dell'informazione». «Il web è stato creato proprio perché non lo si potesse controllare né fermare o censurare» . Castells. Ha tutte le caratteristiche dello studioso di culto: percorso accademico irregolare, ma prestigioso (non ha mai ottenuto una cattedra nel Paese d'origine, la Spagna, ma gliene anno concesse addirittura due a Berkeley, Usa); ampie e svariate pubblicazioni, non meno di una ventina di volumi; lavoro matto e disperatissimo; nomadismo culturale per spargere il suo verbo in tutti i continenti, di fronte a platee di estasiati addetti ai lavori; traduzioni in venti lingue; cortese dribbling ai meccanismi dell'informazione-spettacolo; pettinatura a onda laterale, tipica da scienziato «genio & sregolatezza». Manuel Castells ha 60 anni, e a Milano, all'università Bocconi, ha tenuto una lectio brevis di circa tre ore sui contenuti della sua ultima opera di pensiero, La nascita della società in Rete, pubblicata in italiano dalle edizioni di questa stessa università (Egea, pagg. 601, euro 34,50). Introdotto dal rettore Carlo Secchi, da Fabrizio Rindi, presidente del Gruppo Winterthur (società di assicurazioni qui nelle vesti di sponsor di Castells) e dal sociologo Guido Martinotti, autore della prefazione al volume, Castells mostra subito il volto al quale tiene di più: quello dell'intellettuale integro e dunque nemico della divulgazione facile e semplicista. Per carità, lui parla chiaro, in varie lingue, prediligendo un inglese dallo spiccato accento ispanico; ma per ogni approfondimento rimanda al suo libro. Che tuttavia, nella sua granitica imponenza, a prima vista potrebbe dissuadere i lettori più volonterosi, tanto più che è il primo volume di una trilogia intitolata L'età dell'informazione: economia, società, cultura. E dunque, nell'attesa che appaiano anche in Italia i prossimi tomi, ci addentriamo con il professore nei meandri di un territorio che più globale non si può. Intanto, che materia è, questa? Sociologia, economia, filosofia? Si potrebbe dire tutt'e tre e magari anche qualcos'altro, se non fosse proprio lui a sgombrare subito il campo da una serie di possibili confusioni. «Non sono un futurologo né m'interesso di politica», stabilisce subito. E' già qualcosa. Attenzione, però. Castells non è neanche un lettore di fantascienza, non apprezza, nel senso che non li legge, i lavori dei più noti divulgatori odierni di temi tecnologici, dagli economisti modaioli alla Rifkin agli scrittori di fiction e analisti del costume in Rete come William Gibson. «E non ho fatto nessuno sforzo per rendere facile e leggibile questo libro», dichiara. «E' un libro di ricerca, punto e basta. Un testo accademico». Ma qui il luminare pecca di modestia, perché il suo libro, per quanto ponderoso, ha un grado di leggibilità decisamente superiore alla media dei prodotti accademici nostrani. Inoltre non mena troppa il can per l'aia, cioè non teorizza se non dopo essere passato attraverso l'analisi dei fatti. «Alcuni grandi editori italiani mi hanno proposto la pubblicazione a patto che riducessi il materiale a duecento paginette. Ho risposto che se mi sono fermato a duemila è stato solo perché temevo di morire prima di vedere finito il mio lavoro». E' questa una delle poche note ironiche della sua elaborazione verbale, affabile finché si vuole, ma viziata da una certa freddezza di fondo, appena incrinata dalla passione per la materia. E la materia è la trasformazione della società umana, cioè del mondo, a causa dell'innovazione tecnologica e informatica, in pratica di Internet. E così, con questo «approccio globale» di ambizione leonardesca, Castells ci dice che il cambiamento radicale della realtà umana è già avvenuto. Si tratta soltanto di far sì che tutti a poco a poco si adeguino. Oggi quello che conta è la capacità di tenere il passo con la rivoluzione telematica. O dentro o fuori.
William Gibson ha scritto più volte che «la Rete trova sempre la sua strada». Secondo lei che cosa vuoi dire? «Non conosco Gibson, né lo leggo. La frase tuttavia è interessante. Per me vuoi dire che la Rete è stata deliberatamente disegnata dai suoi creatori per non essere controllata. In altre parole, l'informazione in Internet non conosce ostacoli, e dovunque li trova, li aggira. Ogni censura equivale a un fallimento tecnico. Il messaggio può essere rintracciato, ma non fermato. Siamo tutti sorvegliati, è vero, e in Rete non c'è vera privacy. Per esempio l'Fbi sa benissimo come interferire con i messaggi e dove andare a rintracciarne gli autori. Ma come struttura di relazione la Rete è assolutamente aperta. Perciò la gente muore, ma il messaggio sopravvive».
Ha osservato la situazione italiana? Che ne pensa? «La conosco bene. In Italia, come in Spagna, c'è una spaccatura
tra il livello relativamente alto raggiunto dal sistema economico e la capacità
complessiva di usare Internet. Per esempio, nel vostro Paese la gente si connette più da
casa che dal lavoro, al contrario che in tutte le altre economie avanzate. Inoltre
l'università, salvo poche eccezioni, è scarsamente informatizzata. Gran parte degli
utenti di Internet in realtà non sanno bene quale utilità trarre dalla Rete. Ma non si
può avere "un pochino" di Internet. Internet è un sistema globalizzante,
perciò tocca adeguarsi». Come vede il «divario digitale» (digital divide), la
spaccatura tra il mondo tradizionale e il mondo delle tecnologie digitali?
Da una parte l'economia globale aumenta la competitività tra le aziende, dall'altra nascono i movimenti no global.. «L'economia globale non si capisce se non si capisce come si sono sviluppate negli ultimi anni le telecomunicazioni. Il mercato finanziario globale e integrato è fatto dai computer. Ma lo stesso movimento antiglobal è costruito intorno a un sistema mediatico globale. In altre parole, le manifestazioni pubbliche no global avvengono grazie a un'organizzazione che si avvale proprio di Internet. Sono due aspetti di altrettante tendenze: da una parte la crescita di competitività economica, dall'altra la crescita sociale».
Per fortuna alla fine il professore ammette non essere un determinista tecnologico. Concede cioè uno spiraglio di libero arbitrio ai capricci degli umanisti. Tutto il resto, a quanto pare, è spiegato nei suoi libri.
Fonte bibliografica: Intervista pubblicata su Il Giornale dell'11 Maggio 2002 |
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