Intervista | ||
Benedetto Vecchi Nella rete delle imprese imperiali Il web in società. I movimenti sociali nascono sempre più attorno all'affermazione di identità autonome da quelle dominanti e si diffondono grazie alle tecnologie digitali. Ma il personal computer ha consentito anche l'ascesa e la crisi delle imprese dot-com. Un'intervista con Manuel Castells a partire dalla pubblicazione de "Il potere delle identità" e "Internet Galaxy", la crisi della "new economy" mentre soffiano i venti di guerra. E l'opposizione alla globalizzazione economica sceglie Internet come lo spazio sociale per organizzarsi. La sua vita ha il sapore dolce amaro dello sradicamento. Spagnolo, Manuel Castells ha lasciato il suo paese a causa del giro di vite deciso da Franco alla metà degli anni Settanta per mettere in riga quella società spagnola sulla quale il Generalissimo aveva fatto calare una cappa di piombo che negava libertà a colpi di carcere, guardia civil e garrota. Giunto in Francia Castells è entrato a far parte di quella piccola, ma ostinata comunità intellettuale riunita attorno ad Alain Touraine dopo il Maggio francese. Ma quella francese è stata una parentesi. Rifatte le valigie, Castells si trasferisce nuovamente, questa volta per libera scelta: destinazione gli Stati uniti, più precisamente la costa occidentale. Ed è alla Stanford University che comincia a insegnare, iniziando al tempo stesso a raccogliere materiali per The Age of Information, la trilogia che lo farà conoscere in tutto il mondo. Uscita alla metà degli anni Novanta, la trilogia di Castells è frutto dei suoi studi, inchieste e del suo lungo girovagare per il mondo. La sua vocazione cosmopolita emerge sopratutto nel secondo volume da poco tradotto dalla casa editrice Egea di Milano con il titolo Potere dell'identità (pp. 463, 34,50, il primo volume è invece uscito lo scorso anno sempre per la stessa casa editrice) e nel testo Internet Galaxy pubblicato dalla Feltrinelli (pp. 312, 16). Due libri che affrontano temi per Castells complementari l'uno all'altro. Da una parte c'è il nodo dell'identità nelle società del capitalismo flessibile, dall'altra lo "spazio sociale", cioè Internet, dove il caleidoscopio dell'identità ha il suo acme. Ma se il primo tema, quello delle identità appunto, è per l'autore una risorsa per la trasformazione da parte dei movimenti sociali, in quanto "processo sociale di costruzione di significati e di attributi culturali ai propri comportamenti a cui è assegnato una priorità maggiore rispetto ad altri fonti di significato", Internet diventa invece il luogo dove le sue tesi sulle caratteristiche dell'attuale capitalismo sono messe a verifica. Per intervistarlo ci vuole un pizzico di pazienza e tanta fortuna, perché continuamente diviso tra una conferenza all'Onu, l'insegnamento a Stanford e il ciclo di lezioni a Barcellona. E l'intervista è stata condotta proprio nei giorni in cui Castells chiudeva la sua casa californiana per trasferirsi per sei mesi a Barcellona, complice la grande rete che sembra annullare lo spazio. Nel suo libro "Internet Galaxy" lei si dilunga sulle diverse culture presenti nel web. Dagli hacker agli imprenditori, tutti concorrono alla crescita della rete. Eppure è indubbio che la new economy sia in crisi. Molti "opinion maker" vedono in questa crisi una rivincita della "old economy" sulle imprese dot-com. Concorda con questa analisi? Non del tutto. Uno degli elementi della "new economy" è l'elevata produttività, produttività che negli Stati uniti è cresciuta del 5 per cento, nonostante la recessione che ha contraddistinto l'economia statunitense lo scorso anno. Ma questo fattore mette in evidenza il fatto che la new economy costringe a ripensare e a analizzare criticamente le diverse teorie del ciclo economico. Infatti, in passato, quando la recessione bussava alle porte la produttività diminuiva per poi riprendere lentamente. Ora avviene il contrario: c'è recessione, ma la produttività continua a crescere a ritmi abbastanza sostenuti. In Internet Galaxy ho cercato di spiegare i motivi che hanno causato la crisi della new economy. Va però subito chiarito che con questa espressione si intendono molte cose, spesso contrastanti l'una con l'altra. E tuttavia, gran parte degli studiosi, e io con loro, concorda sui due elementi che l'hanno caratterizzata: l'aumento della produttività e venture capitalists disposti ad investire in idee e innovazione. La prima è dovuta alla diffusione del personal computer e degli emergenti modelli produttivi riassunti nella formula "impresa a rete", mentre il capitale di rischio veniva dalla crescita della finanza, che possiamo considerare il motore della new economy. Gli imprenditori, i finanzieri, chi giocava in borsa, tutti si aspettavano profitti sempre crescenti. Tutto è andato bene fino a quando sono cominciate a girare voci e analisi che prevedevano imminente lo scoppio della bolla speculativa. A quel punto tutti hanno avuto paura e alle aspettative di profitti si è sostituita la sfiducia. Da allora, il valore delle azioni delle imprese dot-com sono crollate e le grandi corporation delle telecomunicazioni hanno cominciato a licenziare. Come ha scritto l'economista americano Michael Mandel siamo quindi entrati nella fase dell'internet depression. Bene, quel clima di sfiducia è stato aggravato da una generale incertezza politica che scoraggia gli investimenti in innovazione. Ciò detto, mi preme sottolineare il fatto che Internet, a differenza di quanto sostengono molti studiosi, non è un solo "fenomeno economico", bensì è soprattutto uno spazio sociale che favorisce la comunicazione. Un fattore, questo, molto importante perché spiega gran parte delle difficoltà di trasformare un "medium libero" come è Internet in un servizio a pagamento. Nella sua trilogia sull'"Età dell'informazione" emergono diversi modelli di capitalismo. C'è quello statunitense, quello renano, quello italiano, quello giapponese, tailandese, e così via. Mi sembra però che allo stato attuale quello anglosassone sia il modello dominante. Lei cosa ne pensa? Se la sua domanda intendeva
dire che le forze armate britanniche o statunitensi sono gli eserciti più potenti nel
mondo sono d'accordo, ma se voleva sostenere che il capitalismo americano domina
l'economia mondiale non sono proprio d'accordo. Le diverse tipologie di capitalismo che
lei cita non sono mie, ma dell'economista americano Lester Turow. Certo anche io nei miei
studi metto in evidenza le differenze tra il modello capitalista americano e quello
europeo o giapponese. Ma ciò dipende dal fatto che c'è una differenza tra capitalismo e
società. Le società infatti esistevano prima del capitalismo e alcune loro
caratteristiche sono rimaste. Inoltre, l'economia globale è dominata dai mercati
finanziari mondiali e dalle imprese transnazionali e non da questa o quella nazione.
Possiamo dunque dire che le reti di imprese piuttosto che i paesi sono da considerare le
strutture del dominio, così come possiamo rintracciare nella struttura reticolare dei
rapporti sociali le forme di resistenza a tale dominio. Nel primo volume della trilogia,
La nascita della società in rete, ho sostenuto che l'attuale capitalismo è
caratterizzato da un paradigma specifico, l'informazionalismo, che non è niente altro che
la centralità dell'informazione, della conoscenza e dell'innovazione nel capitalismo. In
fondo, computer oltre che a far di conto, consente di comunicare e questa caratteristica
è trasversale a tutti i settori produttivi. Insomma, dalla sua analisi si può dedurre che i movimenti sociali debbano navigare tra Scilla e Cariddi, cioè tra emancipazione e populismo reazionario. E' d'accordo su questa analisi? Inoltre, mi sembra che l'identità più che un concetto indichi un processo sociale: non sarebbe quindi più appropriato parlar di forme di vita piuttosto che di identità collettive? Si, nel cyberspazio possiamo trovare le identità in tutti i formati possibili. Ma con una avvertenza: su Internet si esprimono tutte le identità che esistono nella società. Così, nei forum di discussione sul web coesistono i cristiani fondamentalisti, cioè una forma specifica di stile di vita inquisitorio, con la teologia della liberazione. Gli esempi sono infiniti, ma ciò che mi interessa sottolineare è che nella network society il tema dell'identità è essenziale per comprendere i comportamenti degli attori sociali. Ne il Potere dell'identità definisco precisamente cosa intendo per identità e nel quale sono documentati molti case studies sulle dinamiche sociali legate all'identità, che possono essere di diversi tipi: quella di resistenza, quella che punta alla legittimità, quella legata a un progetto di vita, e così via. Possono apparire definizioni poco chiare, ma se guardiamo l'identità dalla prospettiva degli attori sociali tutto diventa più chiaro. Infatti, sono gli attori sociali che definiscono l'identità come un processo sociale di costruzione di significati e di attributi culturali ai propri comportamenti a cui è assegnato una priorità maggiore rispetto ad altri fonti di significato. Non sono quindi d'accordo con lei che l'identità sia un concetto vago. Infatti, per un indio del Chiapas è chiaro cosa significa la difesa della sua identità: che è un modo di vivere, di guardare alla natura, di intendere i rapporti tra gli uomini e tra questi e le donne. Infine, è una forte spinta alla trasformazione come testimoniano gli attuali movimenti sociali. Molti studiosi sostengono che la cosiddetta globalizzazione economica sia un processo inarrestabile. Eppure da alcuni anni c'è, a livello mondiale, un forte movimento di contestazione del "Washington consensus". Un movimento che guarda alla tematica dell'identità con qualche diffidenza. O più precisamente che vede l'identità come un problema più che la soluzione ai processi di trasformazione che vediamo in atto nel mondo. Qual è la sua analisi sul movimento antiglobalizzazione? Non credo che la globalizzazione sia un processo inarrestabile. O meglio: che c'è una legge non scritta nelle società: ovunque c'è un dominio c'è anche resistenza a quel dominio. Nei miei libri ho scritto a lungo di ciò che ritengo possa essere considerato "l'altra faccia del pianeta". Mi riferisco al movimento contro la globalizzazione basato su valori e identità autonome da quelle dominanti. E' un movimento che ha avuto inizio con la rivolta zapatista e che poi abbiamo visto all'opera in tante occasioni e con modalità molto differenti da paese a paese, da situazione a situazione. Così, se ci troviamo di fronte a un processo di globalizzazione capitalista che coinvolge e include tutte le economie del pianeta, allo stesso tempo ci troviamo di fronte a una rete globale di movimenti contro la globalizzazione economiche: sono cioè due aspetti della stessa realtà. Nella sua ricostruzione della nascita e dello sviluppo di Internet, lei sottolinea che l'impulso alla "nascita" della rete sia venuto dal complesso militare-industriale. Tuttavia, se la sua genesi è segnata dal Pentagono, la crescita del web può essere considerata come un lungo congedo dall'influenza che potevano esercitare i militari. Infatti, lei sostiene, a ragione, che il tratto distintivo della rete è la rivendicazione dell'autonomia del web dal potere economico. Questo spiega anche la forte opposizione al diritto d'autore. Come giudica il movimento dell'open source e del "free software"? Io sono convinto, come
d'altronde sostengono molti storici o esegeti del World wide web, che l'impulso iniziale
ad Internet sia venuto dai militari del Pentagono. I finanziamenti del ministero della
difesa statunitense sono stati indispensabili per avviare i progetti di ricerca che
successivamente hanno portato ad Internet. E tuttavia i militari sono stati
"discreti", non hanno cioè fatto pressioni sui ricercatori impegnati nei
progetti da loro finanziati. Per questo, sarebbe errato considerare Internet come il
risultato di un programma di armamenti. Il ministero della difesa americano era convinto
che per essere superiori militarmente gli Stati uniti dovessero essere superiori
tecnologicamente ed è per questo motivo che hanno investito milioni di dollari nei
progetti di sviluppo della computer science. Possiamo dire che hanno agito con il senso
della prospettiva storica. Infatti, ora che le forze armate americane si stanno
trasformando in una "rete militare" capace di fronteggiare scenari di guerra che
richiedono flessibilità e adattabilità delle truppe impegnate i computer sono essenziali
per elaborare informazioni di intelligence o per decodificare le informazioni del nemico.
E' quindi abbastanza ovvio affermare che la superiorità tecnologica degli Usa si è
tradotta in una superiorità militare. Nella sua analisi sull'"era dell'informazione" la guerra sembra appartenere al recente passato. Ma dalla guerra del Golfo all'Afghanistan, sembra drammaticamente tornata in auge. Lei che ne pensa dei venti di guerra che soffiano nel pianeta? Se lei si riferisce alle
guerre così come le abbiamo conosciute nel Novecento potrei concordare con lei, ma nei
miei studi sono stato molto attento ai nuovi tipi di guerra che io ho chiamato
"instant war", cioè guerre mordi e fuggi combattute con tecnologie molto
sofisticate per diminuire i tempi bellici e minimizzare le perdite. Allo stesso tempo e
all'opposto esistono guerre tra poveri che durano anni e anni. Stiamo entrando in un
periodo che potremmo definire di "guerre in rete", nelle quali le reti degli
agenti globali del terrore usano strumenti high-tech dove gli atti bellici sono compressi
nel tempo, mentre i risultati di quegli atti durano negli anni e mutano le nostre vite.
Penso che ci troviamo di fronte al crudele paradosso che la più grande e profonda
rivoluzione tecnologica incentrata sulla creatività e sulla libertà di comunicare sta
subendo una mutazione perché è sempre più imbrigliata da una mentalità poliziesca e da
una ossessione per la sicurezza. Allo stesso tempo quelle stesse tecnologie sono sempre
più usate per produrre armi di distruzione di massa.
Fonte bibliografica: Intervista pubblicata sul Manifesto del 9 gennaio 2003 |
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