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Intervista

Francesca Reboli

Assedio a Internet

Manuel Castells, il maggiore studioso a livello mondiale della società dell'informazione, da vent'anni s'interessa di Internet e del suo impatto sulla società contemporanea. Spagnolo, 61 anni, Castells ha insegnato nelle università di mezzo mondo, da Berkeley a Nanterre, ed è stato anche consulente dell'Onu. Alla vigilia della guerra in Iraq, Castells è stato in Italia, invitato da eBiscom. "L'espresso" lo ha intervistato sulle prospettive e gli scenari dell'Occidente informatizzato.

Tre anni fa guardavamo a Internet come a un serbatoio infinito di libertà e ricchezza. Oggi pensiamo alla Rete in termini di flop, disoccupazione, censura e cyber-conflitti. Eravamo pazzi allora o lo siamo adesso?
«Tre anni fa non tutti gli studiosi della Rete erano così follemente ottimisti. Molti erano consci che lo sviluppo del Web sarebbe dipeso dall'uso che ne avrebbero fatto le persone, e dalla loro capacità di accordarlo ai loro valori e bisogni. Il vero danno è stato provocato dai futurologi, i sedicenti guru del Net, e dai consulenti finanziari che hanno "venduto" Internet alle compagnie e ai risparmiatori che sapevano nulla, o ben poco, su come usare la Rete. È stato per tutti più facile affidarsi all'ottimismo acritico piuttosto che prestare fede alle analisi dei ricercatori e alle loro statistiche sulla realtà della Rete. Io porto avanti una battaglia doppia, sul piano teorico e sul piano economico, contro i futurologi. Li ritengo uno dei maggiori pericoli per la società perché, con le loro previsioni azzardate e prive di fondamento inquinano il presente. Le loro parole hanno già provocato troppi fallimenti e disastri».

E oggi, allora, a chi dobbiamo credere?
«Oggi siamo passati dalle fantasticherie dei futurologi e degli analisti finanziari alla teorizzazione dello sboom, della fine della sbornia economica. Dobbiamo basarci sull'analisi pratica di eventi e dati reali, affidandoci a coloro che seriamente se ne occupano: gli unici che abbiano la possibilità di darci indicazioni sul presente e sul futuro, ma solo quello prossimo, vicino a noi e perciò prevedibile».

Ma Internet è moribonda sì o no?
«Assolutamente no. Siamo semmai in una fase di transizione. Siamo alla fine dei sogni, all'inizio della realtà: innovativa, produttiva, ricca di possibilità ma dura, difficile. Internet è l'equivalente dell'elettricità nella vecchia era industriale: è la base del networking, la forma di organizzazione più importante della nostra società, l'essenza stessa del nostro presente, dalla politica alla guerra, dal lavoro alle relazioni sociali alle azioni militari, dal movimento No global al terrorismo».

Se Internet non è finita, però è malconcia. È il bersaglio preferito della censura, dei divieti, del tentativo di bloccare lo scambio delle informazioni e delle idee...
«Internet non risolve i problemi della società: li riflette, li esprime e li amplifica. Adesso ci troviamo in un momento critico per la libertà, soffiano venti di repressione, e la priorità dei governi riguarda la sicurezza e la necessità di controllare la circolazione delle informazioni. Alla luce di questa situazione, Internet , che è una tecnologia liberatrice e favorisce il flusso incontrollato della comunicazione e delle idee, diventa l'obiettivo principale».

Quindi Internet è sotto assedio?
«Sì, in modo duplice: assediata dai governi, che per la prima volta nella storia non possono controllare l'informazione. E poi, come dicevo, sul fronte economico, per l'attuale situazione di crisi».

La guerra contro l'Iraq ha portato a un inasprimento del controllo della Rete? E quali conseguenze ha questo conflitto sulla nostra libertà on line?
«La particolare situazione internazionale che stiamo vivendo ha acuito la pressione dei governi su Internet. Fin dalle origini del Web, i governi, di destra e di sinistra senza nessuna distinzione, anzi con una pericolosa concordanza, l'hanno considerato come una grande minaccia: quella rappresentata dalla libertà di comunicazione e informazione senza limiti e confini. Spaventati dall'impossibilità di un controllo centralizzato, hanno sviluppato quella che chiamo "China syndrome", ovvero il tentativo di mettere a punto una legislazione speciale, e più restrittiva, per definire i limiti della libertà in Rete. Ma queste leggi speciali non sono necessarie. Abbiamo già tutte le leggi che ci servono; si tratta solo di trovare le modalità appropriate per applicarle alla Rete, senza nessun bisogno di renderle più dure».

Però adesso accade il contrario. Perché?
«È vero, questo è quello che sta accadendo. Negli Stati Uniti e in Europa vengono criminalizzati atti che fuori dal Web sono leciti e legali, come i netstrike, i cortei virtuali, trattati alla stregua di reati. Questo avviene perché i governi hanno realizzato che qualcosa di fondamentale sta sfuggendo al loro controllo. Per riappropriarsene, usano leggi più dure e cercano di giustificarle alla luce della necessità, in questo momento storico, di maggior controllo e sicurezza contro il rischio di attentati, il terrorismo, i gruppi estremisti. Prima la giustificazione erano i pedofili o i cracker, ma lo scopo era identico: controllare le persone in Internet».

Che cosa cerca di fare Bush con progetti come il Total Awareness Information?
«Cerca di trasformare la Rete in una specie di Minitel: il vecchio sistema francese di informazioni via computer, un circuito centralizzato e perfettamente sotto controllo. Ma Internet non è il Minitel: è una tecnologia di libera comunicazione, che, per sopravvivere, deve essere difesa dai suoi utenti, che sono milioni».

Ma come si fa a difendere Internet?
«Se in Italia le leggi minacciassero la libertà di informazione sulla stampa, le persone reagirebbero. Lo stesso bisogna fare con Internet: reagire. Il problema è che non a tutti è chiaro il potenziale di libertà insito nella Rete, il suo enorme valore; soltanto le generazioni più giovani lo capiscono. Purtroppo però sono i più anziani, lontani da Internet e dalla sua mentalità, ad avere il potere. I giovani hanno solo i sogni».

Un giro di vite riguarda anche le recenti leggi sul copyright, che bloccano lo sviluppo orizzontale della Rete e il suo spirito cooperativo. Eppure i diritti di proprietà sono riconosciuti in tutto il mondo. Come si può favorire lo sviluppo della Rete senza violare il copyright?
«Internet si è sviluppata per trent'anni in un contesto di libera creatività, all'interno di uno scambio tra pari in cui i linguaggi di programmazione erano open source, liberi e aperti a tutti, al di fuori quindi di ogni legge sul copyright. Con questo tipo di restrizioni oggi non avremmo Internet, che è nata grazie al software libero: molti dei programmi che la fanno funzionare sono open source, come per esempio Sendmail che distribuisce la posta. D'altro canto, questo non significa che i diritti di proprietà non siano utili e necessari: in alcuni casi sono indispensabili. Si tratta però di trovare una modalità di applicazione che possa funzionare in Rete. Molte persone sono già al lavoro per raggiungere questo scopo».

Anche nel caso dei software il copyright è indispensabile?
«No, in questo caso il copyright è deleterio. La ragione per cui oggi i comuni software per gli utenti sono tremendamente indietro rispetto ad altre tecnologie è il monopolio di Microsoft».

Quindi Bill Gates ha bloccato lo sviluppo dei software?
«Sì, il monopolio, o quasi-monopolio, di Microsoft ha impedito per anni lo sviluppo di un intero settore, appunto quello dei software di uso comune, bloccando creatività, produttività, innovazione. Qualcosa è cambiato soltanto con l'arrivo di Linux e di altri sistemi open source».

Cosa accadrà alla Rete con gli Umts e i videocellulari?
«Con l'Umts e i telefoni di terza generazione in Italia e in Europa siamo di fronte a un caso esemplare di corto circuito tra le previsioni, sbagliate, dei futurologi e l'euforia acritica delle compagnie. I futurologi hanno indicato nella telefonia 3G, nella Rete mobile sui cellulari, il prossimo Eldorado, inducendo le società di telecomunicazioni a buttarsi a capofitto in questo segmento. Tra gli analisti e le compagnie, poi, si sono inseriti i governi con il racket delle licenze, vendute a prezzi scandalosi. Il risultato è che adesso molte delle più grandi compagnie europee sono stritolate dai debiti, con la conseguenza che non sono più in grado di adeguarsi alle aspettative, di fornire cioè i servizi promessi».

Dunque non potremo contare sulla Rete mobile e senza fili?
«Al contrario. Internet mobile è utile e perfino necessaria, ma solo quando incontra le esigenze reali, pratiche, delle persone, come dimostra il successo del Wi-fi, un sistema di connessione alla Rete tramite computer portatile molto più pratico ed economico dell'Umts. Inoltre, la gente non ha bisogno del Web senza fili, se non ha a disposizione anche servizi studiati apposta per questa tecnologia. Questi servizi non sono ancora sufficienti nel caso dell'Umts».

Quindi lei crede nello sviluppo dell'Wi-fi e non dell'Umts?
«Il Wi-fi sta conoscendo oggi un'incredibile espansione, e siamo solo all'inizio. Di sicuro, rispetto all'Umts, è una tecnologia più aderente ai bisogni reali della gente».

Con il Wi-fi molti di noi saranno sempre connessi, attaccati alla Rete per 24 ore. Vuol dire che lavoreremo di più?
«Anche se siamo noi a cambiare la tecnologia, e non viceversa, è vero che la possibilità tecnologica di essere "always on" crea la possibilità di lavorare sempre, in ogni luogo e momento. Ma questo non significa necessariamente lavorare di più. Significa lavorare in modo diverso, più mobile: da casa, dall'ufficio, dal treno, dall'albergo, dall'aeroporto, bevendo un caffè, camminando in strada. Ciò che sta cambiando veramente, e in modo massiccio, ciò che oggi è veramente mobile è il posto di lavoro».

Ma questo non significa appunto lavorare di più?
«Soltanto se guardiamo le cose dal punto di vista dell'ideologia del tempo libero, inteso come qualcosa che inizia dopo il lavoro e ci libera da esso. Non se ci appropriamo di una mentalità più flessibile, che vede il divertimento come una parte fondamentale del lavoro. Naturalmente, questo discorso non si applica agli operai o alle colf, ma a professionalità più alte. In questi casi, a volte, non c'è nulla come il lavoro, soprattutto per le donne che fanno molta più fatica a casa, alle prese con figli, faccende, mariti, che non al lavoro».

Internet ha creato una società superveloce e difficilmente governabile. Secondo alcuni, come il filosofo francese Paul Virilio, questa velocizzazione della realtà è anche una maggiore vulnerabilità. Per colpa di Internet viviamo con la catastrofe dietro l'angolo. È così?
«Internet rende più vulnerabili i governi, non la società; quindi la tesi di Virilio è condivisibile se pensiamo che la vulnerabilità della società dipenda da quella dei governi. Ma in molti casi questo non è vero, e io ho grande fiducia nella capacità della società di autogovernarsi, attraverso la Rete».

 

Fonte bibliografica: “L’Espresso Online” del 27/03/2003

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