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Teoria
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Manuel Castells
I due volti della globalizzazione dei mercati

Al volgere del millennio, il mondo è nel mezzo di una trasformazione di portata storica.
Come tutte le grandi trasformazioni della storia, anche questa ha molte dimensioni: è a un tempo tecnologica, economica, sociale, culturale, politica e geopolitica. Ma qual è il vero significato di questo straordinario cambiamento per l’evoluzione della società, per la vita e il benessere degli esseri umani?
Ed esiste innanzitutto un significato unico, valido per tutti, o dobbiamo distinguere tra diverse categorie di persone a seconda del loro specifico rapporto con il processo di cambiamento sociale in atto? E in questo caso quali sono i criteri da adottare per tale distinzione? È in corso in tutto il mondo un dibattito infuocato sui meriti e sui demeriti della rivoluzione tecnologica informatica e della globalizzazione dei mercati – considerando in particolare le loro dimensioni sociali su scala planetaria. Come sempre accade quando si discute su questioni di principio, il dibattito è per lo più costretto in una cornice ideologica e condotto in termini semplicistici.
Secondo i profeti della tecnologia, che credono davvero nelle virtù magiche del mercato, ogni cosa andrà per il meglio, purché si dia libero corso alla capacità inventiva e alla concorrenza. Saranno necessari solo pochi provvedimenti per prevenire la corruzione e rimuovere gli ostacoli burocratici lungo la strada che ci farà spiccare il volo verso l’ipermodernità.
Chi, viceversa, non è appassionato di internet, ma vive sulla propria pelle i licenziamenti, la mancanza di servizi sociali fondamentali, il crimine, la povertà, e ha tutta la vita messa sottosopra, pensa che la globalizzazione non sia altro che una riedizione della tradizionale ideologia capitalistica. Ai suoi occhi, la tecnologia dell’informazione è lo strumento di nuove forme di sfruttamento, che portano alla distruzione di posti di lavoro, al degrado ambientale e all’invasione della sfera privata. Tecno-élites contro neoluddisti. Ovviamente, i problemi veri non stanno da qualche parte tra queste due posizioni estreme, ma vanno cercati altrove. Lo sviluppo sociale dipende oggi dalla capacità di stabilire un’interazione sinergica tra innovazioni tecnologiche e valori umani, che conduca a un nuovo insieme di organizzazioni e di istituzioni in grado di generare un ciclo di feedback positivo tra produttività, flessibilità, solidarietà, sicurezza, partecipazione e responsabilità, nell’ambito di un nuovo modello di sviluppo che sia sostenibile per la società e per l’ambiente. È facile essere d’accordo su questi obiettivi, ma è difficile convenire sulle scelte politiche e sulle strategie da adottare per realizzarli. In parte, ovviamente, il disaccordo deriva da un conflitto tra diversi interessi, valori e priorità.
Ma il disordine che regna oggi nelle politiche sociali ed economiche è anche dovuto alla mancanza di un’interpretazione universalmente accettata dei processi di trasformazione in corso, delle loro origini e delle loro implicazioni.
Mi propongo quindi di chiarire il significato di questa trasformazione, esaminando in particolare quei processi che generalmente ne sono considerati i fattori scatenanti: la rivoluzione della tecnologia dell’informazione e il processo di globalizzazione. Come vedremo, infatti, questi due processi interagiscono con altri processi di natura diversa, in un quadro molto complesso di azioni e reazioni. Essi offrono tuttavia un punto di partenza fecondo per discutere la connessione tra il nuovo sistema socioeconomico e la comparsa su scala planetaria, in proporzioni mai viste, della disuguaglianza e dell’esclusione sociale.

Le nuove tecnologie dell’informazione

Nell’ultimo quarto del XX secolo è emersa una nuova forma di organizzazione socioeconomica: dopo il crollo dell’Unione Sovietica, per la prima volta nella storia l’intero pianeta è capitalistico, dal momento che anche le poche economie pianificate rimaste devono la propria sopravvivenza, o il proprio sviluppo, ai legami intrecciati con i mercati capitalistici globali. E tuttavia si tratta di un tipo di capitalismo al tempo stesso molto antico e sostanzialmente nuovo. È antico perché fa appello a una concorrenza spietata nella ricerca del profitto, e perché la soddisfazione individuale (immediata o differita) è la sua forza motrice. Ma è sostanzialmente nuovo perché si avvale delle nuove tecnologie dell’informazione e della comunicazione, che sono alla radice delle nuove fonti di produttività, delle nuove forme di organizzazione e della formazione di un’economia globale. Esaminiamo brevemente i caratteri di questa decisiva innovazione.
La tecnologia dell’informazione,di per sé, non è la causa dei cambiamenti che stiamo vivendo. Senza le nuove tecnologie dell’informazione e della comunicazione, però, non sarebbe possibile niente di ciò che sta cambiando la nostra vita.
Dagli anni Novanta, l’intero pianeta è organizzato intorno a reti telematiche di computer, cuore dei sistemi di informazione e dei processi di comunicazione. Tutto il complesso delle attività umane dipende dal potere dell’informazione, in una sequenza di innovazioni tecnologiche sempre più rapide da un mese all’altro. L’ingegneria genetica, sfruttando questa prodigiosa capacità di elaborazione delle informazioni, avanza a passi da gigante, consentendoci, per la prima volta nella storia, di svelare i segreti della materia vivente e di manipolare la vita, e aprendo la strada a sviluppi potenziali straordinari.
L’evoluzione del software rende più facile l’uso dei computer e permette a milioni di ragazzi – se provvisti di un’istruzione adeguata – di ampliare le proprie conoscenze, e la propria capacità di creare ricchezza e di goderne con giudizio, molto più in fretta di qualsiasi generazione passata. Internet – i cui utenti nel mondo raddoppiano di anno in anno – è un canale di comunicazione universale nel quale coesistono interessi e valori di ogni tipo, in una sorta di cacofonia creativa. Certo, la diffusione della tecnologia dell’informazione e della comunicazione è estremamente disomogenea. La maggior parte dell’Africa è confinata in una specie di apartheid tecnologico, e si potrebbe dire la stessa cosa di molte altre regioni del mondo.
È difficile rimediare a una tale situazione quando un terzo della popolazione mondiale è tuttora costretta a sopravvivere con l’equivalente di un dollaro al giorno, o poco più. La disponibilità e l’uso delle tecnologie dell’informazione e della comunicazione sono, l’equivalente funzionale di ciò che è stata l’elettricità nell’epoca industriale. Studi econometrici dimostrano una stretta relazione statistica tra la diffusione della tecnologia dell’informazione e la produttività e la competitività di paesi, regioni, industrie e imprese.
Gli stessi studi dimostrano anche che per la progettazione e l’uso produttivo delle nuove tecnologie è indispensabile un livello adeguato di istruzione in generale, e di conoscenze tecniche in particolare.  Tuttavia, né un grande numero di scienziati e di ingegneri, né l’acquisizione di tecnologie avanzate possono rappresentare fattori di sviluppo, se non sono inseriti in un contesto organizzativo adeguato.

Un’arma a doppio taglio

Il ruolo cruciale delle tecnologie dell’informazione e della comunicazione nel promuovere lo sviluppo è infatti un’arma a doppio taglio. Da un lato, permette ad alcuni paesi di superare in un balzo interi stadi di crescita economica, grazie alla possibilità di modernizzare i propri sistemi di produzione e di aumentare la propria competitività più rapidamente che in passato. Un esempio lampante è quello delle economie dell’Asia orientale, e in particolare i casi di Hong Kong, Taiwan, Singapore, Malesia e Corea del Sud. Il quadro non è cambiato dopo la crisi finanziaria del 1999, prodotta non tanto da una diminuzione della competitività di quei paesi ma proprio dall’attrazione che l’espansione delle economie asiatiche esercita sui flussi internazionali di capitale.
D’altro lato, il ritardo dei paesi che non sono in grado di adattarsi al nuovo sistema tecnologico tende ad accumularsi. Inoltre, la capacità di entrare nell’Era dell’Informazione dipende dalla possibilità di estendere l’istruzione, e dunque la capacità di assimilare ed elaborare informazioni complesse, a tutta la  società. Questa possibilità deve cominciare dal sistema educativo, dalle scuole elementari alle università, ma riguarda altresì lo sviluppo culturale complessivo, compresi il livello di alfabetizzazione funzionale, i contenuti dei mezzi di comunicazione e la diffusione dell’informazione fra la popolazione nel suo insieme.
Le regioni e le imprese più avanzate quanto a sistemi di produzione e di gestione si rivolgono sempre più a talenti di ogni parte del mondo, mentre una parte considerevole della popolazione più vicina – che, per livello di istruzione e per capacità tecniche o culturali, non soddisfa i requisiti del nuovo sistema di produzione – viene lasciata ai margini.
Nella Silicon Valley, la regione all’avanguardia nel mondo per la produzione di tecnologie dell’informazione, il ritmo dell’innovazione può essere mantenuto soltanto reclutando ogni anno migliaia di ingegneri e di scienziati in India, Cina, Taiwan, Singapore, Corea, Israele, Russia e Europa occidentale, destinati a incarichi che molti americani non possono ricoprire perché mancano di una formazione adeguata.
Similmente, a Bangalore, Mumbai, Seul o Campinas ingegneri e scienziati si concentrano in distretti di alta tecnologia connessi alle varie “Silicon Valley” del mondo, mentre per gran parte della popolazione restano disponibili solo lavori di basso livello e di bassa qualificazione, sempre che si abbia la fortuna di non essere disoccupati. Un paese, o una regione, non ha dunque molte possibilità di sviluppo nel contesto della nuova economia se non entra a far parte del sistema tecnologico dell’era dell’informazione.
Quello che conta non è la produzione di apparecchiature informatiche, ma la capacità di usare le tecnologie avanzate dell’informazione e della comunicazione, ciò che a sua volta richiede una complessiva riorganizzazione della società. Un processo analogo incide sulle opportunità di vita degli individui. Non tutti devono diventare programmatori di computer o analisti finanziari, ma solo chi è abbastanza istruito da sapersi riprogrammare lungo il percorso mutevole della propria vita professionale sarà in grado di sfruttare i vantaggi della nuova produttività.
Che ne sarà degli “altri”? La risposta dipende dal tipo di organizzazione sociale, dalle strategie delle imprese e dalle politiche pubbliche. Se però ci si affida alle sole forze del mercato esiste una tendenza innegabile, come preciserò più avanti, verso una struttura sociale polarizzata, tra un paese e l’altro e all’interno di ciascun paese.
In breve, la tecnologia dell’informazione e della comunicazione è nella nostra epoca lo strumento indispensabile dello sviluppo economico e del benessere materiale; ne dipendono potere, conoscenza e creatività; per il momento, è distribuita in modo disomogeneo all’interno dei singoli paesi e tra un paese e l’altro; richiede, per la piena realizzazione del suo potenziale di sviluppo, un sistema interconnesso di organizzazioni flessibili e di istituzioni orientate all’informazione.
In poche parole, lo sviluppo culturale ed educativo influenza lo sviluppo tecnologico, il quale influenza lo sviluppo economico, il quale influenza lo sviluppo sociale, il quale a sua volta stimola lo sviluppo culturale ed educativo. Si può trattare di un circolo virtuoso di sviluppo così come di una spirale negativa di sottosviluppo, e la direzione del processo non sarà decisa dalla tecnologia ma dalle dinamiche conflittuali della società.

I due volti della globalizzazione

Questa nozione e le sue implicazioni sono avvolte da una tale nebbia ideologica che è indispensabile darne anzitutto una definizione precisa, per poi determinarne empiricamente l’estensione e l’evoluzione. Il modo migliore per comprendere la globalizzazione è partire dalla sua dimensione economica. Un’economia globale è un’economia le cui attività centrali funzionano come un’unità integrata che opera simultaneamente su scala planetaria.
I mercati dei capitali sono interconnessi in tutto il mondo, in modo che in tutti i paesi i risparmi e gli investimenti, anche se non sono investiti globalmente, dipendono per i loro risultati dall’evoluzione e dal comportamento dei mercati finanziari globali. Durante i primi anni Novanta, le società multinazionali davano lavoro direttamente “soltanto” a circa settanta milioni di lavoratori, ma questi lavoratori producevano un terzo del prodotto totale del settore privato nel mondo. Nel 1992 il valore complessivo delle vendite di tali società è stato di 5.500 miliardi di dollari, pari al valore totale del commercio mondiale nello stesso anno aumentato del 25 per cento.
Le società multinazionali dell’industria, dei servizi, e della finanza, con le loro reti ausiliarie di imprese piccole e medie, costituiscono dunque il nucleo   dell’economia mondiale. Inoltre, il livello più alto della scienza e della tecnologia, che dà forma e direzione allo sviluppo tecnologico complessivo, è concentrato in poche decine di centri di ricerca e di innovazione, situati soprattutto negli Stati Uniti, in Europa e in Giappone.
Gli ingegneri russi, indiani e cinesi, generalmente molto validi, possono proseguire le loro ricerche oltre un certo livello soltanto allacciando rapporti con quei centri. Il lavoro altamente qualificato è dunque sempre più globale: quando imprese e governi hanno bisogno di lavoratori con particolari competenze e sono disposti a pagare per assicurarseli, li reclutano in tutto il mondo.
Ciò significa che mentre la stragrande maggioranza delle persone che lavorano, non sono globali ma sono locali e regionali, tuttavia il destino, il lavoro, la qualità della vita delle persone dipendono in ultima istanza dal settore globalizzato dell’economia nazionale, o dalla connessione diretta tra le unità economiche in cui i lavoratori sono attivi e le reti globali del capitale, della produzione e del commercio.
Questa economia globale è storicamente nuova, per la semplice ragione che solo negli ultimi vent’anni è nata l’infrastruttura tecnologica necessaria per il suo funzionamento come un’unità integrata su scala planetaria: telecomunicazioni, sistemi d’informazione, produzione e lavorazione industriale basate sulla microelettronica, trasporto aereo basato sull’informazione, trasporto marittimo in container, treni ad alta velocità e servizi finanziari internazionali diffusi in tutto il mondo.
Tuttavia, se la nuova economia globale arriva a estendersi sull’intero pianeta – se i suoi effetti interessano tutte le popolazioni e tutti i territori – non tutti i luoghi né tutte le persone ne fanno parte direttamente. Di fatto, la maggior parte dei territori e delle popolazioni sono esclusi, dimenticati, come produttori, come consumatori o in entrambe le vesti. La flessibilità di questa economia globale permette al sistema complessivo di connettere in rete tutto ciò che è giudicato prezioso alla stregua dei valori e degli interessi dominanti, lasciando isolato ciò che non ha o che perde valore.
Ciò che caratterizza la nuova economia globale, così come si configura nell’era dell’informazione, è proprio questa capacità di includere ed escludere simultaneamente persone, territori e attività. Processi analoghi di globalizzazione selettiva, segmentata, caratterizzano altre dimensioni strumentali decisive della nostra società, quali i media, la scienza, la cultura e l’informazione in genere.
La globalizzazione e la liberalizzazione non mettono fine allo Stato nazionale, ma ne ridefiniscono sostanzialmente il ruolo e influiscono sul suo modo di operare.
Le banche centrali (compresa la nuova Banca centrale Europea) non sono in grado di esercitare un vero controllo sui flussi globali di capitale nei mercati finanziari. E questi mercati non sono sempre governati da regole di natura economica, ma da turbolenze dell’informazione di diversa origine. I governi nazionali, nel tentativo di conservare un qualche controllo sui flussi globali di capitale e di informazioni, si coalizzano per creare o aggiornare istituzioni sovranazionali (come il FMI, l’Unione Europea, il NAFTA), alle quali cedono gran parte della propria sovranità. In tal modo riescono a sopravvivere, ma sotto forma di un nuovo tipo di Stato che connette istituzioni sovranazionali, Stati nazionali, governi regionali e locali e perfino organizzazioni non governative in una rete di interazioni e di processi decisionali comuni, e che sta diventando il modello politico prevalente dell’era dell’informazione: lo Stato rete.
La globalizzazione, in breve, è una nuova realtà storica – non semplicemente inventata dall’ideologia neoliberista per convincere i cittadini ad arrendersi al mercato, ma iscritta nei processi di ristrutturazione, innovazione e concorrenza capitalistica, e attuata con i potenti strumenti delle nuove tecnologie dell’informazione e della comunicazione.

Dalla fabbrica alla rete

Nel corso della storia, le grandi trasformazioni  della tecnologia o dell’economia sono sempre state accompagnate da una corrispondente trasformazione dei modelli organizzativi. La grande fabbrica, destinata alla produzione di massa, è stata decisiva per la formazione dell’era industriale, esattamente come lo sviluppo e la diffusione di nuove fonti di energia. Nell’era dell’informazione, il modello organizzativo chiave è quello della rete. Una rete non è altro che insieme di nodi interconnessi. Può avere una gerarchia, ma non ha un centro.
Le relazioni tra i singoli nodi sono asimmetriche, ma sono tutte necessarie per il funzionamento della rete: per la circolazione di denaro, informazione, tecnologia, immagini, beni, servizi o persone attraverso la rete. La distinzione più importante in questa logica organizzativa è quella tra essere e non essere – nella rete.
Chi è nella rete ha accesso alle opportunità e, con il tempo, può aumentare le proprie. Per chi è fuori della rete, o ne viene escluso, le opportunità svaniscono, perché tutto ciò che conta è organizzato in una trama mondiale di reti che interagiscono tra loro. Le reti rappresentano la forma di organizzazione adatta al funzionamento di un’economia globale, interconnessa, basata su un adattamento incessante e su una flessibilità estrema – su una domanda economica variabile e su una tecnologia continuamente rinnovata, e sulle molteplici strategie (individuali, culturali, politiche) dispiegate da diversi operatori, che danno vita a un sistema sociale instabile con un livello crescente di complessità. Certo, le reti sono sempre esistite come modelli organizzativi umani. Ma solo ora sono diventate il mezzo più potente per organizzare la strumentalità, piuttosto che l’espressività.
La ragione è fondamentalmente di tipo tecnologico. La forza delle reti è la flessibilità, la capacità di decentramento, la geometria variabile, la capacità di adattarsi a nuovi compiti ed esigenze senza distruggere le regole di organizzazione fondamentali o modificare gli obiettivi più generali. Tuttavia, la loro debolezza essenziale, nel corso della storia, è stata la difficoltà del coordinamento verso un obiettivo comune, uno scopo definito, che richiede una concentrazione spaziale e temporale delle risorse nell’ambito di grandi organizzazioni, come eserciti, burocrazie, grandi fabbriche, società a struttura verticale.
Con la nuova tecnologia dell’informazione e della comunicazione, la rete è a un tempo centralizzata e decentrata. Può essere coordinata senza che esista un centro. Le interazioni hanno preso il posto delle istruzioni. Livelli di complessità molto più alti possono essere gestiti senza grandi problemi. Questo non vuol dire che le grandi società vengano sostituite da imprese piccole e medie, o che le multinazionali siano ormai obsolete. In realtà, si può constatare che avviene esattamente il contrario: in tutto il mondo è in pieno svolgimento la corsa alle fusioni. “Grande è bello” sembra essere la massima che ha ispirato una serie di operazioni societarie negli ultimi anni, come mostrano il matrimonio tra Citicorp e Travelers Insurance, la Bank of America che resta con il cuore a San Francisco ma sposta il denaro nella Carolina del Nord, la Daimler Benz che incorpora la Chrysler, la Volkswagen che nobilita il proprio status acquisendo la Rolls Royce, e le banche americane che assorbono banche e società finanziarie asiatiche, in una sorta di rivalsa storica dell’Occidente sui paesi dell’Asia orientale, con i loro alti tassi di crescita.

La concentrazione del capitale

Ma il decentramento dell’organizzazione è accompagnato dalla concentrazione del capitale. Le grandi società multinazionali funzionano internamente come reti decentrate, i cui elementi sono dotati di un notevole grado di autonomia. Ogni elemento di queste reti di solito è parte di altre reti, alcune delle quali sono formate da imprese ausiliarie piccole e medie; altre reti sono collegate con altre grandi società intorno a progetti e obiettivi specifici, entro specifici confini spaziali e temporali. Alla fine, è vero, tutta questa complessità si riduce alla necessità di assicurarsi un profitto. Ma in che modo, e a vantaggio di chi? Anche dopo che si sono serviti (generosamente) i dirigenti, gran parte del capitale resta da distribuire tra un numero crescente di azionisti. Gli utili non restano all’interno delle imprese (che siano di produzione, di servizi o finanziarie), ma vengono investiti nel casinò globale dei mercati finanziari interconnessi, il cui destino è deciso in ultima istanza da una serie di fattori che solo in parte hanno a che vedere con i fondamentali economici. A causa di questo alto livello di incertezza e di complessità, le reti a cui sono ancorate tutte le imprese, piccole o grandi, si spostano, si riadattano, si formano e si trasformano in una variazione infinita. Le imprese e le organizzazioni che non seguono la logica della rete (negli affari, nei media o in politica) vengono spazzate via dalla concorrenza, perché non sono attrezzate per il nuovo modello di gestione. In definitiva, le reti – tutte le reti – progrediscono ristrutturandosi, anche se questo significa cambiare la propria composizione, i propri membri e perfino i propri obiettivi. Il problema è che le persone e i territori i cui mezzi di sussistenza e il cui destino dipendono dalla posizione assunta in queste reti non sono in grado di adattarsi così facilmente. Le reti si adattano, eludono il territorio (o le persone), e si ricostituiscono da qualche altra parte, o con altre persone. Ma il materiale umano da cui dipende l’esistenza della rete non può cambiare altrettanto facilmente, e rimane invece intrappolato, degradato o sprecato. Il risultato di tutto ciò è il sottosviluppo sociale, proprio alle soglie dell’epoca potenzialmente più ricca di promesse di realizzazione per l’uomo.

L’altra faccia dell’era dell’informazione:
disuguaglianza, povertà, miseria ed esclusione sociale

Allo scopo di analizzare le tendenze in atto nel mondo per quanto riguarda la povertà e la disuguaglianza, dobbiamo fare anzitutto un po’ di chiarezza concettuale. In primo luogo, occorre distinguere tra rapporti di consumo e rapporti di produzione; in secondo luogo, tra quattro diversi processi in entrambe le categorie di rapporti. I rapporti di consumo riguardano l’appropriazione del prodotto del proprio lavoro da parte dell’uomo. Qui dobbiamo distinguere tra disuguaglianza, polarizzazione, povertà e miseria. La disuguaglianza è l’appropriazione diseguale di ricchezza (redditi e patrimoni) da parte di individui o gruppi sociali. La polarizzazione è un particolare processo di disuguaglianza che ha luogo quando, lungo la scala di distribuzione della ricchezza, il segmento più alto e quello più basso crescono più velocemente del centro. La povertà è il livello di reddito che una società considera necessario per vivere secondo uno standard accettabile. La miseria, o povertà estrema, è il livello che stabilisce lo standard di vita materiale minimo, al quale è difficile persino la sopravvivenza. I dati raccolti nel mondo sui fenomeni sociali durante gli ultimi vent’anni permettono di individuare alcune tendenze. Cresce in generale la disuguaglianza tra un paese e l’altro, mentre il bilancio delle disuguaglianze interne è più vario: in alcuni paesi (India, paesi dell’Estremo Oriente, Spagna) la situazione è migliorata, ma altrove le disuguaglianze interne si sono approfondite (Stati Uniti, Regno Unito, Messico, Brasile). La polarizzazione aumenta dappertutto.
A livello globale, il rapporto tra i redditi della quinta parte più ricca della popolazione e quelli della quinta parte più povera è passato da 30 a 1, nel 1960, a 78 a 1 nel 1994. E il patrimonio personale di 385 miliardari è maggiore del reddito annuale di paesi che rappresentano il 45 per cento della popolazione del pianeta. L’evoluzione della povertà è un fenomeno complesso. La modernizzazione ha contribuito a ridurre la percentuale dei poveri in alcuni paesi molto grandi, come la Cina, l’India e il Brasile.
Tuttavia, la percentuale dei poveri continua a crescere nella popolazione della maggior parte dei paesi. E il numero delle persone povere è aumentato dappertutto in modo significativo. Inoltre la povertà estrema, o miseria – generalmente definita come la condizione di coloro che vivono al di sotto del 50 per cento del livello di povertà – è il destino di quel segmento della popolazione povera che cresce più rapidamente in quasi tutti i paesi.

La desocializzazione del lavoro

Vediamo ora come evolvono i rapporti di produzione i rapporti di produzione, un’espressione che indica i modi e i mezzi con cui le persone si guadagnano da vivere. Non entrerò qui in un’analisi dettagliata di tutti i rapporti di produzione esistenti nella nostra società, ma mi concentrerò sulle quattro condizioni che sembrano influenzare in modo decisivo i rapporti di consumo. Il primo fenomeno che caratterizza l’era dell’informazione come conseguenza della sua forma di organizzazione in rete è la crescente individualizzazione del lavoro: mi riferisco al processo per cui il contributo del lavoro alla produzione è determinato specificamente per ogni individuo, mentre hanno scarso peso la contrattazione collettiva o i regolamenti.
Se l’era industriale è consistita nel portare una popolazione di contadini e artigiani a condizioni di lavoro socializzate, l’era dell’informazione è esattamente l’inverso. Si tratta della desocializzazione del lavoro e della crescente flessibilità e individualizzazione delle prestazioni lavorative. Tutto ciò non è necessariamente un bene né un male. La flessibilità del lavoro può consentire o meno agli individui di organizzare meglio la propria vita, ma in ogni caso trasforma il rapporto sociale tra capitale e lavoro, tra dirigenti e operai, e tra gli stessi operai. Ha inoltre implicazioni essenziali per l’attività politica.
Una seconda caratteristica degli attuali rapporti di produzione è il l’ipersfruttamento: mi riferisco all’imposizione di norme di compensazione o di condizioni di lavoro sfavorevoli a determinate categorie di lavoratori (immigrati, donne, giovani, minoranze) a causa della loro vulnerabilità alla discriminazione. Le donne, in particolare, sono entrate in massa nel mondo del lavoro retribuito, ma spesso per salari miserabili.
Una terza caratteristica è l’esclusione sociale, vale a dire il processo per cui ad alcuni individui o gruppi è impedito l’accesso a posizioni sociali che darebbero loro il diritto di provvedere adeguatamente a se stessi, in modo autonomo, nell’ambito delle istituzioni e dei valori prevalenti.
Generalmente, nel capitalismo dell’informazione, una posizione di quel tipo è associata alla possibilità di accedere a un lavoro retribuito relativamente regolare per almeno un membro di una famiglia stabile; oppure con il diritto di ricevere a lungo termine un’assistenza sufficiente da un sistema di welfare che non applichi ai propri beneficiari un marchio d’infamia. Il numero di coloro che sperimentano l’esclusione sociale sta crescendo in modo straordinario in quasi tutti i paesi del mondo, tranne che nelle democrazie scandinave.
Infine, un quarto tipo di rapporto di produzione importante per le attuali tendenze di sottosviluppo sociale è quello che ho chiamato integrazione perversa. Si tratta del lavoro nell’ambito dell’economia criminale – vale a dire di quelle attività produttive di redditi che normalmente gli Stati dichiarano criminose. Molte persone, escluse dall’accesso a un’occupazione regolare, entrano a far parte della manovalanza del crimine. Si potrebbe dire che alcuni di loro non hanno scelta. Chi non risponde ai requisiti dell’era dell’informazione non per questo scompare dalla scena. E anzi la scena è sempre più affollata, perché – con l’eccezione della Russia – in molti paesi l’aspettativa di vita cresce costantemente.

Disoccupazione e supersfruttamento

Fin qui si tratta tuttavia soltanto di osservazioni empiriche sulla crescente crisi sociale (non immuni da possibili obiezioni circa la selezione e l’interpretazione dei dati). Qual è allora il significato dell’analisi? Qual è il rapporto, ammesso che ne esista uno, tra queste tendenze e la struttura e la dinamica del capitalismo globale dell’informazione? In primo luogo, l’estrema sperequazione sociale che caratterizza il processo è legata alla flessibilità e alle dimensioni globali del capitalismo dell’informazione.
Se ogni cosa, e ogni persona, che rappresenti una risorsa valida può essere facilmente connessa – e non appena smetta di essere utile può essere facilmente disconnessa (a causa ell’individualizzazione e dell’estrema mobilità delle risorse) – allora il sistema di produzione globale è popolato allo stesso tempo da individui e gruppi estremamente preziosi e produttivi e da persone (o luoghi) che non sono o non sono più considerati preziosi, anche se fisicamente non sono scomparsi dalla scena.
A causa del dinamismo e della competitività del sistema dominante, gran parte dei precedenti modi di produzione vengono destrutturati, e alla fine eliminati, o trasformati in tributari di un sistema altamente integrato, dinamico e globalizzato. In secondo luogo, l’istruzione, l’informazione, la scienza e la tecnologia diventano decisive per la creazione (e la remunerazione) di valore nell’economia internazionale. L’istruzione scolastica è ormai diffusa dappertutto, e diventa cruciale la sua qualità.
Nei paesi in via di sviluppo e negli Stati Uniti, la maggior parte delle scuole pubbliche non sono in grado di formare adeguatamente la nuova forza lavoro dell’informazione. Ma anche nei paesi dotati di un sistema educativo di buon livello il clima culturale e tecnologico complessivo, necessario per l’esercizio delle competenze informatiche, non è al passo con il dinamismo del sistema. Così, in quasi tutti i paesi il deficit di istruzione e la mancanza di un’infrastruttura informatica fanno sì che l’intera economia dipenda dai risultati dei pochi settori globalizzati, sempre più vulnerabili alle tempeste dei flussi finanziari globali. In terzo luogo, poiché le nuove tecnologie, i nuovi sistemi di produzione e l’organizzazione del commercio internazionale distruggono l’agricoltura tradizionale (che alla fine del millennio dà ancora lavoro ai due terzi della popolazione mondiale), si sta verificando un gigantesco esodo dalle campagne – specialmente in Asia.
Gli abitanti delle campagne sono destinati ad essere assorbiti, fra mille difficoltà, nell’economia informale di megalopoli sovrappopolate e sull’orlo di una catastrofe ecologica. In quarto luogo, poiché gli Stati vengono elusi dai flussi globali, costretti a misure di rigore finanziario da chi controlla questi flussi (come il FMI), o limitati da quelle istituzioni sovranazionali cui hanno dato vita per sopravvivere nella globalizzazione, lo Stato sociale è messo in pericolo, le regole saltano e il contratto sociale, dovunque sia esistito, deve fronteggiare una sfida decisiva. Come dimostrano le ricerche empiriche, le nuove tecnologie non creano disoccupazione.
In effetti, a livello mondiale si registra piuttosto una massiccia creazione di posti di lavoro, ma nella maggior parte dei casi a condizioni di ipersfruttamento: è illuminante che, mentre si parla di fine del lavoro, nel mondo siano circa 250 milioni i bambini che lavorano.
La disoccupazione esiste tuttavia in Europa occidentale, dove di fronte all’esistenza di normative rigide, di salari alti e di un’assistenza sociale generosa le imprese rifiutano di creare posti di lavoro. Esse hanno infatti la possibilità di introdurre sistemi di automazione, di subappaltare e/o di investire altrove, continuando a vendere beni e servizi nel mercato europeo.

Il quarto mondo

Attualmente, dunque, le regole e la tutela dei lavoratori sono sopraffatte da un mercato che può contare sulla maggiore mobilità delle risorse resa possibile dal nuovo contesto tecnologico.
Questo è il motivo per cui, nel pieno del periodo più straordinario per la capacità inventiva dell’uomo, in tutto il mondo si diffonde il panico. E questo è anche il motivo per cui, accanto al benessere e alla prosperità di una minoranza ragguardevole (circa un terzo della popolazione nei paesi sviluppati – e probabilmente circa un quinto nel mondo in generale – che ha migliorato in modo significativo il proprio livello di vita durante gli ultimi dieci anni), sta prendendo forma un quarto mondo, caratterizzato dall’esclusione sociale.
Questo quarto mondo è composto di persone e territori che non hanno alcun valore per gli interessi dominanti nel capitalismo dell’informazione. Alcuni perché offrono un contributo troppo scarso come consumatori o come produttori; altri perché non hanno istruzione, o sono analfabeti in senso funzionale; altri perché si ammalano, o diventano deboli di mente; altri perché, non potendo sostenere le spese dell’affitto, perdono la casa, e sono consumati dalla vita di strada; altri perché, incapaci di affrontare la vita, diventano tossicodipendenti o alcolizzati; altri perché, per sopravvivere, vendono il proprio corpo e la propria anima, prostituendosi a ogni possibile desiderio; altri perché, entrati nel circuito dell’economia criminale, vengono arrestati e vanno a infoltire la popolazione di un pianeta carcerario sempre più vasto (quasi il tre per cento dei maschi adulti negli Stati Uniti).
Intere comunità acquistano così un marchio d’infamia, vengono isolate dalla polizia e completamente dimenticate dalle reti delle comunicazioni e degli investimenti. In questo modo, mentre le persone e i luoghi giudicati preziosi sono globalmente connessi, le località prive di pregio vengono disconnesse, e decine di milioni di persone, di tutti i paesi e di tutte le culture, sono socialmente escluse. Questo quarto mondo dell’esclusione sociale, al di là della povertà, esiste dappertutto, anche se in proporzioni diverse – dal South Bronx a Mantes-la-Jolie, da Kamagasaki a Meseta de Orcasitas, dalle favelas di Rio alle baracche di Jakarta. Esiste inoltre, come ho cercato di mostrare, una relazione sistemica tra la nascita di un capitalismo globale dell’informazione, alle condizioni attuali, e la straordinaria crescita dell’esclusione sociale e della disperazione umana.

Una Silicon Valley sospesa nel vuoto?

Per millenni lo sviluppo sociale non è stato altro che sopravvivenza sociale: lo scopo quotidiano degli esseri umani, con l’eccezione di una minuscola minoranza al potere, era quello di cavarsela, formare una famiglia e strappare qualche momento di gioia all’asprezza della condizione umana. Tale è ancora oggi il destino di molti. Negli ultimi due secoli, tuttavia, con l’avvento dell’era industriale, lo sviluppo sociale ha avuto per obiettivo di migliorare le condizioni di vita degli esseri umani. Accumulazione del capitale, investimenti e sviluppo tecnologico hanno potenziato la produzione materiale, e l’impiego di forti quantità di lavoro e di risorse naturali ha generato nuova ricchezza, sia nei sistemi capitalistici che nelle economie pianificate.
Le lotte sociali e le riforme politiche – o le rivoluzioni – hanno distribuito i frutti della produttività in tutta la società, pur con le imperfezioni di un mondo diviso tra Nord e Sud, e organizzato in società di classe che tendevano a riprodurre se stesse. L’era dell’informazione ha portato alcune novità. Si può sostenere sulla base di dati empirici che all’origine della produttività e della competitività (che insieme determinano la produzione di ricchezza e la sua appropriazione da parte di unità economiche diverse) ci sia la capacità di produrre nuova conoscenza e di elaborare informazioni utili in modo efficiente. Certo, informazione e conoscenza sono sempre state fattori essenziali del potere e della produzione.
Tuttavia, da quando le nuove tecnologie dell’informazione e della comunicazione hanno dato all’uomo la possibilità di far reagire la conoscenza sulla conoscenza, l’esperienza sull’esperienza, esiste un potenziale di produttività senza precedenti, così come un legame particolarmente stretto tra l’attività della mente e la produzione materiale, di beni o di servizi. La vecchia scuola di pensiero incentrata sulla nozione di capitale umano è pienamente riscattata. L’investimento nella formazione è un investimento produttivo. Una forza lavoro istruita è fonte di produttività. Ma l’istruzione non serve a niente se i lavoratori non godono di buona salute, di un’abitazione dignitosa, di stabilità psicologica e soddisfazione culturale – in altri termini, di un miglioramento multidimensionale della qualità della vita. Insomma, lo Stato del welfare, alleggerito dei suoi puntelli burocratici, dovrebbe diventare fonte di produttività, e non essere semplicemente un insieme di oneri di bilancio.
L’interazione tra crescita economica e sviluppo sociale nell’era dell’informazione è tuttavia un fenomeno ancora più complesso.
È l’intera organizzazione sociale che può diventare produttiva o, al contrario, di ostacolo all’innovazione, e dunque alla crescita della produttività. La libertà personale (e dunque la libertà nel senso più pieno) è un presupposto indispensabile dell’iniziativa imprenditoriale. La solidarietà sociale è decisiva per la stabilità , e quindi per la prevedibilità dell’esito degli investimenti. La sicurezza familiare è essenziale per la disponibilità ad assumere rischi.
La fiducia nei propri concittadini, e nelle istituzioni di governo, è alla base della socializzazione delle invenzioni in un dato spazio e tempo, ciò che rende possibile ad altri di godere dei frutti di quelle invenzioni. In una parola (e ripercorrendo il ciclo continuo di cambiamento citato all’inizio), lo sviluppo sociale porta allo sviluppo culturale, che porta all’innovazione, che porta allo sviluppo economico, che promuove la stabilità e la fiducia nelle istituzioni; e tutto ciò sottende un nuovo modello sinergico che coniuga crescita economica e miglioramento della qualità della vita. Senza sviluppo sociale, senza stabilità istituzionale, lo sviluppo economico resta possibile, ma sarebbe basato sull’abbassamento dei costi piuttosto che sull’aumento della produttività. Inoltre, entrambe queste spirali (la via maestra della produttività dell’informazione e la scorciatoia della competitività economica attraverso il taglio dei costi) sono cumulative e contagiose. Se la competizione tra imprese e nazioni passa attraverso il peggioramento delle condizioni di lavoro, e i frutti della produttività restano concentrati in poche mani, la maggior parte dei lavoratori non avrà più incentivi a investire il proprio capitale intellettuale in un’impresa collettiva, la curva dell’istruzione rallenterà, e si restringeranno sia il potere d’acquisto che la spinta all’innovazione.
La Silicon Valley continuerà a prosperare grazie all’innovazione, e continuerà a calamitare da tutto il mondo una quantità di talenti intellettuali nel campo della tecnologia dell’informazione. Ma le dimensioni dalla tecno-élite della Silicon Valley rispetto alla popolazione complessiva – compresa la parte più istruita – diventeranno così ridicolmente piccole, in confronto al suo potere e alla sua ricchezza, da creare una situazione socialmente insostenibile.
Il sogno di un mondo sempre più piccolo di consumatori altamente produttivi, ricchissimi e voraci, sospeso al di sopra della manodopera poco qualificata e ignaro dei buchi neri in cui sono destinati a sprofondare persone e luoghi svalutati, è semplicemente insostenibile. Si tratta piuttosto di un incubo, scosso dalla furia del fondamentalismo e dal timore di disperate minacce terroristiche. La dissociazione tra crescita economica e sviluppo sociale nell’era dell’informazione non è soltanto moralmente sbagliata, ma anche impossibile da sostenere.

Un progetto politico di solidarietà globale

Per coniugare sviluppo sociale e crescita economica attraverso gli strumenti dell’innovazione tecnologica, del management dell’informazione e di uno sviluppo mondiale omogeneo non basterà dunque lasciare libero corso alle forze di mercato. Non saranno sufficienti neppure gli sforzi dei singoli Stati, impegnati ciascuno nelle proprie strategie difensive. Piuttosto, occorrerà un grande sforzo di aggiornamento tecnologico da parte di nazioni, imprese e famiglie in tutto il mondo – una strategia del massimo interesse per tutti, compreso il mondo degli affari, e in particolare per le imprese dell’alta tecnologia. (L’uso appropriato di internet è di fatto l’aspetto più importante di un tale aggiornamento).
Saranno dappertutto necessari grandi investimenti per riformare il sistema dell’istruzione attraverso la collaborazione tra governi nazionali e locali, istituzioni internazionali e enti preposti al credito, imprese internazionali e locali, nonché con il contributo delle famiglie, che dovranno essere disposte a fare sacrifici per un miglioramento tangibile del futuro dei propri figli. Sarà necessaria l’istituzione di una rete scientifica e tecnologica su scala mondiale, nella quale le università più all’avanguardia accettino di mettere a disposizione le proprie conoscenze ed esperienze per il bene comune.
Si tratterà di invertire, a un ritmo lento ma sicuro, la tendenza all’emarginazione di intere nazioni, città o quartieri, in modo che il potenziale umano che oggi va sprecato – in particolare quello dei bambini – possa essere nuovamente investito. Tutti devono essere giudicati produttori e consumatori preziosi, e devono essere riconosciuti come esseri umani anche al di là dei messaggi promozionali delle organizzazioni internazionali.
Tutto questo è realizzabile. Abbiamo le conoscenze tecniche e tecnologiche necessarie, e sappiamo con quali strategie economiche e istituzionali metterle in atto. Gli ostacoli, ovviamente, sono di natura politica. In parte, dipendono dal persistere di strategie economiche anguste. Ma se sappiamo ciò che vogliamo, perché lo vogliamo e come possiamo realizzarlo, abbiamo già la piattaforma da cui partire per tentare di convincere i governi e il mondo degli affari.
Credo che sia nell’interesse degli ambienti più illuminati del mondo degli affari sostenere la via maestra dello sviluppo dell’informazione, che coniuga produttività, qualità della vita e investimenti in tecnologia e istruzione in tutto il mondo. Una forte pressione dell’opinione pubblica mondiale in favore di questa strategia dello sviluppo comune, con le sue ricadute potenzialmente positive sulla conservazione dell’ambiente, potrebbe alla fine mettere i governi di fronte all’alternativa di aderire o essere mandati a casa dai propri cittadini.
In un mondo globalizzato, solidarietà significa solidarietà globale. Significa anche solidarietà tra le generazioni.
Il nostro pianeta è la sola casa che abbiamo, e non ci farebbe piacere se i nipoti dei nostri nipoti rimanessero senza casa. Si tratta di principi fondamentali, elementari di un’economia e di un’azione politica che “tengano conto delle persone”. E sono pienamente coerenti con la logica creativa e produttiva insita nella nostra società basata sull’informazione. Che tutto ciò suoni come un mero auspicio è solo la prova di quanto siamo disorientati in questo momento di transizione storica decisiva.

 

Fonte bibliografica: Lettera internazionale” n. 70 - Rivista trimestrale europea

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