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Conflitti a colpi di mouse
Internet è un campo di battaglia
per gli attivisti telematici contro la globalizzazione neoliberista. Ma
un conto è la contestazione digitale, altra cosa è la cyberwar,
usata solo da servizi segreti ed eserciti.
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Il defacciamento dei siti (defacements)
di Rainews24 e delle Assicurazioni Generali, i presunti messaggi virali
recapitati ai dipendenti del comune di Genova e le intrusioni nei siti
delle camere di commercio e di alcuni ministeri, hanno fatto parlare dell'inizio
di una cyberguerra da parte del cosiddetto "popolo di Seattle".
Ma la protesta informatica antiglobalizazione è cominciata già
da un po'.
Facciamo solo due esempi. Nel Novembre 1999 (r)TMark pubblica http://rtmark.com/gatt.html,
un sito contente informazioni sul meeting di Seattle del 30 Novembre.
Il sito, formalmente identico a quello ufficiale dell'Organizzazione per
il commercio mondiale, a dispetto alle aspettative dei visitatori mette
in discussione gli assunti del libero mercato e della globalizzazione
economica.
Nel Febbraio 2001, invece, in occasione del Terzo Global Forum, quello
sul governo elettronico tenutosi a Napoli in Marzo, alcuni attivisti napoletani
clonano il sito della manifestazione ufficiale, ne modificano i contenuti
e lo riversano su un loro dominio ocse.org che, successivamente censurato,
viene trasferito su www.noglobal.org/ocse.
Anche in questo caso il sito plagiato dagli antiglobalizzatori conteneva
una critica radicale al Forum che, secondo loro, era volto "a definire
nuove modalità di sfruttamento e controllo sociale attraverso l'informatizzazione
degli stati" anziché a promuoverne lo sviluppo democratico.
In quell'occasione i contestatori digitali fecero anche un netstrike (corteo
telematico) al sito di "FinecoOnLine" (www.netstrike.it), e
lo usarono come occasione per dibattere la portata degli scambi finanziari
on line e delle bolle speculative del mercato borsistico telematico.
Queste pratiche di attivismo digitale, o hacktivism, non hanno niente
a che vedere con le cyberguerre e non solo perché a differenza
delle guerre non mirano a distruggere e conquistare, ma perché
la "guerriglia comunicativa" degli hacktivisti mira ad occupare
solo temporaneamente degli spazi. Spazi di comunicazione per parlare ad
una platea più vasta di quella degli altri cyberattivisti.
L'antagonismo in rete rappresenta l'altra faccia della globalizzazione
economica.
Così come si intensificano gli scambi commerciali e l'economia
diviene "virtuale", mentre la legislazione rincorre, senza afferrarli,
i cambiamenti sociali introdotti dalla comunicazione globale, così
i movimenti esprimono bisogni universali globalizzando la rivendicazione
dei diritti attraverso mezzi di comunicazione indifferenti alle frontiere
degli stati. L'hacktivism è quindi cosa diversa dalle cyberguerre
e dal cosidetto"terrorismo informatico". L'hacktivism è,
in altre parole, l'uso di hacking skills (capacità da hacker) per
supportare l'azione diretta dei movimenti politici di base (www.thehacktivist.com).
E' bene chiarire, comunque, che c'è differenza tra l'infowar (guerra
dell'informazione) e le netwars (guerre su internet) e fra queste e la
cyberwar (guerra cibernetica). Vediamo perché.
L'infowar è una guerra di parole, una guerra combattuta a colpi
di propaganda.
L'infowar si ha quando gli attivisti politici oltre che ad usare strumenti
tradizionali di comunicazione (volantini, affissioni, annunci sui giornali),
si armano di computers e cominciano ad usare la rete come mezzo per comunicare
le proprie ragioni ad una audience globale, sfruttando le peculiarità
di un mezzo potenzialmente accessibile a tutti da ogni dove, indipendentemente
dalla collocazione spaziale e temporale degli attivisti e del pubblico.
(Internet è certamente accessibile da ogni dove, ma non va tuttavia
ignorata le denunce sul digital divide che rende di fatto limitato il
diritto d'accesso alla rete).
Solo successivamente la rete viene usata come mezzo per realizzare azioni
di protesta e di disobbedienza civile. E' in questo passaggio che i computer
e la rete Internet diventano strumento e teatro della contestazione, lo
spazio dove la protesta, il rifiuto, la critica, espresse collettivamente,
prendono forma e dalle parole si passa ai fatti. E' questa la netwar.
Le infowar e le netwars sono pratiche di conflitto tipiche dell'hacktivism,
le cyberguerre no. La cyberwar infatti si riferisce alla guerra cibernetica,
cioè a una guerra che usa computer e reti di comunicazione come
fossero armi convenzionali appannaggio solo degli stati e degli eserciti.
La cyberwar punta a smantellare i sistemi di comando, controllo e comunicazione
delle truppe avversarie in una maniera intenzionale e pianificata mettendo
in campo ingenti risorse computazionali centralizzate. Quindi è
per antonomasia guerra di eserciti e servizi segreti. Anche se questo
non significa che gli attivisti politici non possano farvi ricorso in
casi particolari. Le tecniche usate nei conflitti telematici sono spesso
ibride e molteplici. Così come la protesta cibernetica si esprime
in molti modi - le tecniche di interferenza e boicottaggio adottate nei
vari contesti possono essere assai diverse fra di loro, ma spesso si distinguono
per intensità motivazioni e numero di partecipanti alle azioni
- la stessa cyberwar può fare uso di tecniche di propaganda ben
codificate e di apposite "leggi di guerra".
Le tecniche di infowar sono un miscuglio di campagne di informazione e
di strategie comunicative derivate dall'arte di avanguardia che mirano
a mettere in cortocircuito l'informazione istituzionale cannibalizzando
l'attitudine al sensazionalismo tipico dei media mainstream - tv, radio
e giornali - e prendendosi gioco delle veline d'agenzia e del modo di
costruire la notizia.
Le campagne d'informazione su Internet non sono altro che l'estensione
digitale di forme di comunicazione tipiche dei movimenti politici di base
dove l'e-mail sostituisce il volantino, la petizione elettronica sotituisce
il banchetto di firme all'angolo della strada, il sito web i manifesti
murali e i cartelloni. Il panico mediatico fa invece ricorso a notizie
false per creare diffidenza e allarme. E' il caso dei finti virus o della
soffiata relativa ad una improbabile intrusione dentro sistemi informatici
protetti. Le netwars, invece somigliano assai di più alle forme
di azione diretta e puntano a creare disturbo e interferenza nelle attività
di comunicazione dell'avversario. Sia esso una lobby politica o una azienda
multinazionale, un governo locale o sovranazionale. In ogni caso si tratta
di iniziative collettive e pubbliche di comunicazione radicale.
Il fax-strike, il netstrike, il mass-mailing, sono le forme in cui in
Italia, si è sovente articolata la protesta collettiva degli attivisti
digitali. Seppure diversi, i defacements stessi - la sostituzione di una
pagina web con un'altra o con un messaggio irridente e critico - somigliano
da vicino alla copertura di un cartellone pubblicitario o alle scritte
sui muri. E anche in questo caso l'obiettivo è quello di appropriarsi
di uno spazio per esprimere le proprie opinioni, anche quelle più
estreme (www.2600.org).
Le cyberguerre sono diverse. Tanto per cominciare non mirano a delegittimare
oppure a contrastare l'avversario attraverso la propaganda, piuttosto
mirano a interrompere e sabotarne i flussi informativi, danneggiando le
sue infrastrutture di comunicazione. E' il caso del D-Dos (distributed
denial of service o blocco dei servizi), del synflood (interferenza nei
protocolli di comunicazione), del mailbombing, dei virus informatici distruttivi,
del furto e della diffusione di dati di alto valore strategico. Assaggi
di queste cyberguerre si sono avute all'epoca della crisi fra Usa e Cina
a causa della bomba recapitata "per sbaglio" all'ambasciata
cinese di Belgrado durante la guerra del Kosovo. In quel caso i computer
del Pentagono e della Nasa furono bersagliati da milioni di lettere elettroniche
con virus. Oppure nel caso del conflitto telematico che nell'inverno scorso
hanno combattuto israeliani e filo-palestinesi. Nell'ottobre scorso sono
stati proprio i giornali di Tel Aviv a riportare la notizia di un D-Dos
che aveva messo fuori uso il sito ufficiale di Hezbullah, mentre attivisti
arabi avevano deturpato i siti dell'università ebraica di Gerusalemme
e dell'accademia di Netanya ed erano penetrati nel sito della difesa israeliano.
Da qui il botta e risposta informatico che ha visto l'impiego di "cyberkatiuscia",
cioè l'uso massiccio del mailbombing con virus distruttivi, entrambi
diretti a mettere fuori uso i nodi di comunicazione avversari. No,
la protesta digitale non è la cyberguerra.
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