"I processi di globalizzazione minano alla base lo stato-nazione
che non scompare ma deve rispondere a una sovranità sovranazionale,
a una rete di poteri. L'impero non coincide con gli Stati uniti".
A Porto Alegre un incontro con Michael Hardt, autore, insieme a Toni
Negri, di "Empire"
Michael Hardt è un americano "atipico".
Gentile e timido, parla del suo lavoro - insegna Literature and Romance
studies alla Duke University - che lo ha portato ad appassionarsi di
Gilles Deleuze prima, di Michael Foucault e Pier Paolo Pasolini poi.
E' un lettore attento a quanto si produce in Francia, ma anche in Italia.
Americano di seconda generazione, ha infatti lontane origini italiane.
Negli anni scorsi ha pubblicato un libro dedicato al filosofo francese
Gilles Deleuze - Gilles Deleuze: An Apprenticeship in Philosophy - dove
ha sviluppato una tesi, come afferma lui stesso, suggestiva, cioè
che negli anni Settanta l'Italia era il laboratorio politico dove il
conflitto sociale era la materia prima per la riflessione politica francese,
cioè il centro filosofico per eccellenza del mondo capitalistico.
Ed è proprio in quegli anni che inizia la sua collaborazione
con Toni Negri, che si concretizza nel volume Il Lavoro di Dioniso (manifestolibri).
Ed è sempre alla metà degli anni Novanta che lavora a
una rassegna sul "pensiero radicale" italiano con Paolo Virno
- Radical Thought in Italy (1996) -. Infine, due anni fa manda alle
stampe un libro scritto di nuovo con Toni Negri, - Impero, da poco pubblicato
in Italia di Rizzoli - che lo fa diventare un intellettuale noto negli
Stati uniti, dopo elogiative recensioni al volume pubblicato negli Usa
dalla Harvard University Press. "Mi dà fastidio che i giornalisti
italiani mi chiedano perché ho lavorato con Toni Negri, senza
invece interrogarmi su che cosa volevamo dire con Impero", aggiunge.
Parla piano, quasi che la sua timidezza gli impedisse di alzare la voce.
E incontrarlo a Porto Alegre, mentre si sposta da un seminario all'altro,
è l'occasione per tirare il fiato e sfuggire alla bolgia della
Pontificia università cattolica. "Sono contento di essere
qui. Mi sembra di respirare finalmente aria buona, perché dopo
l'11 settembre negli Stati uniti il clima è pessimo. Mi piace
invece vedere migliaia di persone che si incontrano, parlano, discutono
sulla loro vita e di come cambiarla. Certo alcune volte rimango stordito
dalle decine di incontri che si svolgono in contemporanea: altre volte
rimango invece infastidito dalla formalità che domina le sessioni
plenarie. Tutti dicono di essere d'accordo con tutti. Ma sappiamo che
questo movimento è forte perché al suo interno convivono
modi di leggere la realtà e pratiche politiche tra loro differenti,
spesso confliggenti l'una con l'altra. Sarebbe utile che si dscutesse
fuori dai denti, come vedo accadere nei workshop o negli incontri informali.
Tutto ciò mi fa pensare che la definizione di rizoma sviluppata
da Gill Deleuze e Felix Guattari spiega bene la fusionalità,
la crescita e il modo di essere di questo movimento. Il movimento di
critica allo globalizzazione non ha un centro, si diffonde, ripiega,
poi riprende ad espandersi, mettendo uomini e donne in relazione tra
loro. In tutto questo c'è sensualità, intelligenza collettiva,
c'è quello che in Impero abbiamo chiamato, con una espressione
suggestiva, biopolitica".
Vecchi Benedetto
In altri termini, l'aspetto che ti colpisce di più a Porto Alegre
non sono le conferenze, bensì i workshop e gli incontri ravvicinati,
vis-à-vis?
Michael Hardt
Non so se è proprio così. Quello che volevo dire è
che mi aspettavo una divisione che, semplificando al massimo, riguardasse
la possibilità o meno di considerare lo stato-nazione l'arena
politica dove esercitare la resistenza alla globalizzazione economica.
Basta leggere i documenti di un'organizzazione importante come Attac,
dove si sostiene il ruolo centrale che devono avere gli stati nazionali
nel contrastare gli effetti perversi della mobilità del capitale
finanziario. Invece a Porto Alegre emerge un altro modo di vedere la
realtà mondiale e le prospettive politiche dei movimenti sociali.
Vedi, per un americano parlare di globalizzazione è un'ovvietà,
perché è come se parlasse del suo paese. Per un europeo
invece non è così, perché nel vecchio continente
lo stato-nazione ha una lunga tradizione filosofica e politica, che
ha le sue radici nella rivoluzione inglese del XVII secolo o nella guerra
dei trent'anni. Per un uomo o una donna del Sud del mondo, la nazione
ha un valore simbolico molto alto: significa lotta al colonialismo,
emancipazione dalla sudditanza dalle nazioni ricche. In questo movimento,
tuttavia, la globalizzazione significa la messa in comune degli sforzi,
delle lotte, dei conflitti per una "buona-vita", sapendo dei
legami e delle interdipendenze che ci sono tra la propria condizione
e il mondo. Un esempio banale: se ti batti contro una multinazionale
per come distrugge l'ambiente o per le condizioni di lavoro a cui ti
costringe, per essere efficace sei portato a fare i conti con la strategia
globale di quella impresa transnazionale. Ecco mi sembra che in questo
forum sociale questa consapevolezza è comune a tutti i partecipanti.
Poi, ovviamente, ci sono le differenze sull'agire politico, sull'analisi
della globalizzazione. In altri termini, questo è un movimento
globale.
Vecchi Benedetto
Insomma, il movimento è globale perché c'è l'impero?
Michael Hardt
Lo sapevo che saremmo arrivati a questo. Per prima cosa, ti dico che
il desiderio più grande che io ho rispetto al libro è
che venga discusso e criticato per quello che dice e non per quello
che si è sentito dire. Più che un libro, è un'ipotesi
di lavoro che parte da alcune convinzioni. Mi spiego meglio. Con Toni,
siamo convinti che quello che sta accadendo è una redifinizione
della sovranità. Come dicevo prima, il concetto di sovranità
nazionale è sviluppato nel diciassettesimo secolo da filosofi
come Thomas Hobbes e Cartesio. Possiamo dire, in estrema sintesi, che
la sovranità moderna serve a regolare la guerra tra stati. I
processi di globalizzazione minano alla base lo stato-nazione. Questo
non significa che lo stato-nazione scompare, ma deve rispondere a una
sovranità sovranazionale, che formalizza un potere mondiale.
Recentemente, molti filosofi della politica hanno cominciato a parlare
di un governo mondiale che si articola su più livelli e che come
protagonista ha diverse istituzioni sovranazionali. Ma più che
un governo nazionale, io parlerei di una sovranità imperiale
che si manifesta come una rete di poteri, con le sue disomogeneità
e le sue gerarchie. L'impero è questo. Tenuto conto che è
una sovranità che deve rispondere a un processo di accumulazione
capitalista che ha come spazio di azione potenzialmente il mondo. Mi
rendo conto che tutto questo possa apparire solo una suggestione, ma
se vediamo cosa è accaduto con l'11 settembre e l'intervento
militare contro l'Afghanistan potremmo dire che lì si è
manifestata proprio una sovranità imperiale.
Vecchi Benedetto
Vuoi dire che gli Stati uniti esercitano la sovranità imperiale?
Michael Hardt
L'impero non coincide con gli Stati uniti. Guarda alla reazione dei
primi giorni dopo l'attacco alle Twin Towers. E' stata evocata Pearl
Harbour, si è cercato un nemico ed è stato trovato in
bin Laden. Ma c'è qualcosa che non funziona in tutto questo affannarsi
a evocare situazioni del passato per spiegare ciò che sta accadendo.
La guerra in Afghanistan è, potremmo dire, una guerra costituente
della sovranità imperiale. Inoltre è un conflitto militare
che ricorda un'operazione di polizia, più che una guerra. In
molti, a sinistra hanno parlato di imperialismo. Non sono convinto che
sia proprio così. Ma anche qui chiarezza. L'imperialismo individuava
una tendenza del capitale e della politica statale. Quello che mi sembra
di dire è che la tendenza al capitale a controllare le materie
prime, a produrre nuovi mercati rimanga, viene meno la dinamica del
rapporto tra stati descritta attraverso la categoria dell'imperialismo.
La sovranità imperiale non si esercita su un paese, ma su tutto
il pianeta, producendo di conseguenza forme inedite di dominio. Allo
stesso tempo è una sovranità che deve continuamente ridefinirsi,
consolidarsi. Per questo, la guerra è guerra permanente e, allo
stesso tempo, costituente di un ordine mondiale. L'impero è la
risposta del capitale al lungo ciclo di lotte iniziato negli anni Cinquanta
con le lotte anticolonialiste e culminato con il Sessantotto, cioè
con quello che Immanuel Wallerstein ha chiamato movimento antisistema
mondiale.
Vecchi Benedetto
Ma il capitale ha finora avuto bisogno anche di punti di equilibrio.
Può reggere a una guerra permanente, con l'instabilità
su scala planetaria?
Michael Hardt
Il capitale risponde a una crisi avviando un processo di costituzione
dell'impero. L'impero nasce con la crisi e può riprodursi solo
con la crisi. Questo non significa che siamo a una situazione di crollo
del capitalismo per le sue contraddizioni interne. John Maynard Keynes
pensava che l'instabilità del capitalismo dovesse essere riportata
all'ordine: il keynesismo è quindi, tra le tante cose, la produzione
politica di una situazione di equilibrio. Mi sembra di poter affermare
che il capitalismo oggi non ha bisogno di una situazione di equilibrio,
perché ha bisogno continuamente di innovazione creativa. La crisi
è quindi, anch'essa, una dimensione costituente di un processo
lavorativo e di un regime dell'accumulazione capitalista continuamente
da modificare.
Ritorniamo al "movimento dei movimenti". Possiamo dire che
è la risposta adeguata alla globalizzazione economica. In fondo,
la sua è una pratica anch'essa costituente di un potere che si
oppone al capitalismo.
Questa è una buona suggestione. Con il capitalismo postfordista,
saltano le tradizionali distinzioni tra momento economico, poltico e
sociale. Quello che esercita il capitale è un biopotere. Mi sembra
che questo movimento contrapponga la sua biopolitica. Non si tratta
soltanto di chiedere salari più alti, migliori scuole, servizi
sociali - anche se tutte cose naturalmente vanno chieste e bisogna battersi
per averle. Ma questo movimento chiede una "buona vita", che
è qualcosa di più della somma di buoni salari, buone scuole
e servizi sociali.
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