Manuel Castells: Nella rete delle imprese imperiali Intervista
di Benedetto Vecchi, tratta da “il manifesto”, 9 gennaio
2003
Vecchi Benedetto
Nel suo libro Galassia Internet lei si dilunga sulle diverse culture
presenti nel web. Dagli hacker agli imprenditori, tutti concorrono alla
crescita della rete. Eppure è indubbio che la new economy sia
in crisi. Molti "opinion maker" vedono in questa crisi una
rivincita della "old economy" sulle imprese dot-com. Concorda
con questa analisi?Manuel CastellsNon del tutto. Uno degli elementi
della "new economy" è l'elevata produttività,
produttività che negli Stati uniti è cresciuta del 5 per
cento, nonostante la recessione che ha contraddistinto l'economia statunitense
lo scorso anno. Ma questo fattore mette in evidenza il fatto che la
new economy costringe a ripensare e a analizzare criticamente le diverse
teorie del ciclo economico. Infatti, in passato, quando la recessione
bussava alle porte la produttività diminuiva per poi riprendere
lentamente. Ora avviene il contrario: c'è recessione, ma la produttività
continua a crescere a ritmi abbastanza sostenuti. In Galassia Internet
ho cercato di spiegare i motivi che hanno causato la crisi della new
economy. Va però subito chiarito che con questa espressione si
intendono molte cose, spesso contrastanti l'una con l'altra. E tuttavia,
gran parte degli studiosi, e io con loro, concorda sui due elementi
che l'hanno caratterizzata: l'aumento della produttività e venture
capitalists disposti ad investire in idee e innovazione. La prima è
dovuta alla diffusione del personal computer e degli emergenti modelli
produttivi riassunti nella formula "impresa a rete", mentre
il capitale di rischio veniva dalla crescita della finanza, che possiamo
considerare il motore della new economy. Gli imprenditori, i finanzieri,
chi giocava in borsa, tutti si aspettavano profitti sempre crescenti.
Tutto è andato bene fino a quando sono cominciate a girare voci
e analisi che prevedevano imminente lo scoppio della bolla speculativa.
A quel punto tutti hanno avuto paura e alle aspettative di profitti
si è sostituita la sfiducia. Da allora, il valore delle azioni
delle imprese dot-com sono crollate e le grandi corporation delle telecomunicazioni
hanno cominciato a licenziare. Come ha scritto l'economista americano
Michael Mandel siamo quindi entrati nella fase dell'internet depression.
Bene, quel clima di sfiducia è stato aggravato da una generale
incertezza politica che scoraggia gli investimenti in innovazione. Ciò
detto, mi preme sottolineare il fatto che Internet, a differenza di
quanto sostengono molti studiosi, non è un solo "fenomeno
economico", bensì è soprattutto uno spazio sociale
che favorisce la comunicazione. Un fattore, questo, molto importante
perché spiega gran parte delle difficoltà di trasformare
un "medium libero" come è Internet in un servizio a
pagamento.Vecchi BenedettoNella sua trilogia sull'"Età dell'informazione"
emergono diversi modelli di capitalismo. C'è quello statunitense,
quello renano, quello italiano, quello giapponese, tailandese, e così
via. Mi sembra però che allo stato attuale quello anglosassone
sia il modello dominante. Lei cosa ne pensa?Manuel CastellsSe la sua
domanda intendeva dire che le forze armate britanniche o statunitensi
sono gli eserciti più potenti nel mondo sono d'accordo, ma se
voleva sostenere che il capitalismo americano domina l'economia mondiale
non sono proprio d'accordo. Le diverse tipologie di capitalismo che
lei cita non sono mie, ma dell'economista americano Lester Turow. Certo
anche io nei miei studi metto in evidenza le differenze tra il modello
capitalista americano e quello europeo o giapponese. Ma ciò dipende
dal fatto che c'è una differenza tra capitalismo e società.
Le società infatti esistevano prima del capitalismo e alcune
loro caratteristiche sono rimaste. Inoltre, l'economia globale è
dominata dai mercati finanziari mondiali e dalle imprese transnazionali
e non da questa o quella nazione. Possiamo dunque dire che le reti di
imprese piuttosto che i paesi sono da considerare le strutture del dominio,
così come possiamo rintracciare nella struttura reticolare dei
rapporti sociali le forme di resistenza a tale dominio. Nel primo volume
della trilogia, La nascita della società in rete, ho sostenuto
che l'attuale capitalismo è caratterizzato da un paradigma specifico,
l'informazionalismo, che non è niente altro che la centralità
dell'informazione, della conoscenza e dell'innovazione nel capitalismo.
In fondo, computer oltre che a far di conto, consente di comunicare
e questa caratteristica è trasversale a tutti i settori produttivi.Per
tornare alla sua domanda, non ritengo quindi che si stia affermando
un modello anglosassone di capitalismo. L'epoca turbolenta che stiamo
vivendo ha a che fare con questo salto di paradigma che vede affermarsi
l'informazionalismo.Vecchi BenedettoDice che il world wide web è
il luogo dove il caleidoscopio delle identità svolge un ruolo
dirompente. Mi sembra, però, che il discorso sulle identità
sia caratterizzato da una forte ambivalenza. Da una parte è un
campo di possibilità di emancipazione, basti pensare ai temi
portati avanti dai movimenti degli afroamericani, delle donne, dei gay,
delle lesbiche. Dall'altra parte mostra però il lato oscuro,
quello del fondamentalismo. Insomma, dalla sua analisi si può
dedurre che i movimenti sociali debbano navigare tra Scilla e Cariddi,
cioè tra emancipazione e populismo reazionario. E' d'accordo
su questa analisi? Inoltre, mi sembra che l'identità più
che un concetto indichi un processo sociale: non sarebbe quindi più
appropriato parlar di forme di vita piuttosto che di identità
collettive?Manuel CastellsSi, nel cyberspazio possiamo trovare le identità
in tutti i formati possibili. Ma con una avvertenza: su Internet si
esprimono tutte le identità che esistono nella società.
Così, nei forum di discussione sul web coesistono i cristiani
fondamentalisti, cioè una forma specifica di stile di vita inquisitorio,
con la teologia della liberazione. Gli esempi sono infiniti, ma ciò
che mi interessa sottolineare è che nella network society il
tema dell'identità è essenziale per comprendere i comportamenti
degli attori sociali. Nel librodefinisco precisamente cosa intendo per
identità e nel quale sono documentati molti case studies sulle
dinamiche sociali legate all'identità, che possono essere di
diversi tipi: quella di resistenza, quella che punta alla legittimità,
quella legata a un progetto di vita, e così via. Possono apparire
definizioni poco chiare, ma se guardiamo l'identità dalla prospettiva
degli attori sociali tutto diventa più chiaro. Infatti, sono
gli attori sociali che definiscono l'identità come un processo
sociale di costruzione di significati e di attributi culturali ai propri
comportamenti a cui è assegnato una priorità maggiore
rispetto ad altri fonti di significato. Non sono quindi d'accordo con
lei che l'identità sia un concetto vago. Infatti, per un indio
del Chiapas è chiaro cosa significa la difesa della sua identità:
che è un modo di vivere, di guardare alla natura, di intendere
i rapporti tra gli uomini e tra questi e le donne. Infine, è
una forte spinta alla trasformazione come testimoniano gli attuali movimenti
sociali.Vecchi BenedettoMolti studiosi sostengono che la cosiddetta
globalizzazione economica sia un processo inarrestabile. Eppure da alcuni
anni c'è, a livello mondiale, un forte movimento di contestazione
del "Washington consensus". Un movimento che guarda alla tematica
dell'identità con qualche diffidenza. O più precisamente
che vede l'identità come un problema più che la soluzione
ai processi di trasformazione che vediamo in atto nel mondo. Qual è
la sua analisi sul movimento antiglobalizzazione?Manuel CastellsNon
credo che la globalizzazione sia un processo inarrestabile. O meglio:
che c'è una legge non scritta nelle società: ovunque c'è
un dominio c'è anche resistenza a quel dominio. Nei miei libri
ho scritto a lungo di ciò che ritengo possa essere considerato
"l'altra faccia del pianeta". Mi riferisco al movimento contro
la globalizzazione basato su valori e identità autonome da quelle
dominanti. E' un movimento che ha avuto inizio con la rivolta zapatista
e che poi abbiamo visto all'opera in tante occasioni e con modalità
molto differenti da paese a paese, da situazione a situazione. Così,
se ci troviamo di fronte a un processo di globalizzazione capitalista
che coinvolge e include tutte le economie del pianeta, allo stesso tempo
ci troviamo di fronte a una rete globale di movimenti contro la globalizzazione
economiche: sono cioè due aspetti della stessa realtà.Vecchi
BenedettoNella sua ricostruzione della nascita e dello sviluppo di Internet,
lei sottolinea che l'impulso alla "nascita" della rete sia
venuto dal complesso militare-industriale. Tuttavia, se la sua genesi
è segnata dal Pentagono, la crescita del web può essere
considerata come un lungo congedo dall'influenza che potevano esercitare
i militari. Infatti, lei sostiene, a ragione, che il tratto distintivo
della rete è la rivendicazione dell'autonomia del web dal potere
economico. Questo spiega anche la forte opposizione al diritto d'autore.
Come giudica il movimento dell'open source e del "free software"?Manuel
CastellsIo sono convinto, come d'altronde sostengono molti storici o
esegeti del World wide web, che l'impulso iniziale ad Internet sia venuto
dai militari del Pentagono. I finanziamenti del ministero della difesa
statunitense sono stati indispensabili per avviare i progetti di ricerca
che successivamente hanno portato ad Internet. E tuttavia i militari
sono stati "discreti", non hanno cioè fatto pressioni
sui ricercatori impegnati nei progetti da loro finanziati. Per questo,
sarebbe errato considerare Internet come il risultato di un programma
di armamenti. Il ministero della difesa americano era convinto che per
essere superiori militarmente gli Stati uniti dovessero essere superiori
tecnologicamente ed è per questo motivo che hanno investito milioni
di dollari nei progetti di sviluppo della computer science. Possiamo
dire che hanno agito con il senso della prospettiva storica. Infatti,
ora che le forze armate americane si stanno trasformando in una "rete
militare" capace di fronteggiare scenari di guerra che richiedono
flessibilità e adattabilità delle truppe impegnate i computer
sono essenziali per elaborare informazioni di intelligence o per decodificare
le informazioni del nemico. E' quindi abbastanza ovvio affermare che
la superiorità tecnologica degli Usa si è tradotta in
una superiorità militare.Quindi, piuttosto che parlare di lungo
congedo dal Pentagono, preferisco riconoscere il ruolo determinante
degli investimenti del Ministero della difesa americano nello sviluppo
della computer science e di Internet e al tempo stesso sottolineare
l'"autonomia operativa" dei ricercatori scientifici e della
loro tendenza alla reciprocità e alla cooperazione tra eguali,
che è da sempre stata una caratteristica della comunità
scientifica. Ma su Internet è però accaduta anche un'altra
cosa molto importante: è venuta meno la distinzione tra specialista
e utente. Tutti infatti in rete possono dire la loro e ciò che
ogni singolo esprime ha uguale peso di un altro. Questo non significa
che non emergano figure carismatiche o delle autorità o delle
gerarchie, ma generalmente il metro di giudizio usato è quello
meritocratico. Aver scritto un buon programma, aver sviluppato un'idea
radicalmente innovativa, dire qualcosa che riflette il sentire comune:
questo è ciò che conta nel Web. Il ricercatore Pekka Himanen
ha scritto dell'emergere di un'etica hacker del capitalismo. Concordo
con lui. Per quanto riguarda l'open source e il free software sono delle
realtà molto interessanti, perché attingono proprio a
quello "spirito cooperativo" alla base di Internet.Vecchi
BenedettoNella sua analisi sull'"era dell'informazione" la
guerra sembra appartenere al recente passato. Ma dalla guerra del Golfo
all'Afghanistan, sembra drammaticamente tornata in auge. Lei che ne
pensa dei venti di guerra che soffiano nel pianeta?Manuel CastellsSe
lei si riferisce alle guerre così come le abbiamo conosciute
nel Novecento potrei concordare con lei, ma nei miei studi sono stato
molto attento ai nuovi tipi di guerra che io ho chiamato "instant
war", cioè guerre mordi e fuggi combattute con tecnologie
molto sofisticate per diminuire i tempi bellici e minimizzare le perdite.
Allo stesso tempo e all'opposto esistono guerre tra poveri che durano
anni e anni. Stiamo entrando in un periodo che potremmo definire di
"guerre in rete", nelle quali le reti degli agenti globali
del terrore usano strumenti high-tech dove gli atti bellici sono compressi
nel tempo, mentre i risultati di quegli atti durano negli anni e mutano
le nostre vite. Penso che ci troviamo di fronte al crudele paradosso
che la più grande e profonda rivoluzione tecnologica incentrata
sulla creatività e sulla libertà di comunicare sta subendo
una mutazione perché è sempre più imbrigliata da
una mentalità poliziesca e da una ossessione per la sicurezza.
Allo stesso tempo quelle stesse tecnologie sono sempre più usate
per produrre armi di distruzione di massa.Da questo punto di vista,
potremmo provocatoriamente affermare che i terroristi hanno già
vinto una battaglia culturale, rendendo possibile un supporto popolare
ai vari Berlusconi presenti nel mondo. Ma come affermavo prima, c'è
sempre una resistenza alle forme del dominio. In questo caso c'è
resistenza a questa mentalità poliziesca e a questa manipolazione
del sentimento di insicurezza. Non è una cosa facile, ma la vita
e la creatività l'avranno vinta. E Internet può aiutarci
in questa resistenza. Per questo motivo molti governi, dalla Cina a
quello di Roma, ultimamente sono spaventati da Internet.
spazioinwind.libero.it/rfiorib/ documenti/rete_imperiale.htm