da "il manifesto" del 26 Aprile 2001 Polvere
di povertà. Al silicio BENEDETTO VECCHI L' idea che Internet
sia il luogo dove sperimentare forme associative non mercantili è
ingenua; così come il sogno di svilupparvi comunità elettive
è da considerare niente altro che una chimera. Altra ingenuità
è guardare al cyberspazio come a una nuova frontiera dove un'impresa
attira ostilità su di sé solo per essere un'impresa. Insomma,
Internet non è un territorio libero, e poco hanno da protestare
hacker e cybernauti per la presenza di multinazionali e major dell'entertainment
in nome di un passato tanto mitico da non essere mai esistito, se non
nella mente di qualche visionario. Perché la rete è l'ambiente
ideale per lo sviluppo e l'affermazione del capitalismo digitale, che
trova nel libero mercato il suo vangelo e nella convergenza tra informatica
e telecomunicazioni il suo profeta.E' questa la tesi di Dan Schiller,
professore della di Scienze della comunicazione alla University of California,
sviluppata nel volume Capitalismo digitale (Università Bocconi
Editore, pp. 271, L. . 39.000). Per l'autore, Internet è infatti
una "colonia" delle multinazionali sin dall'inizio, mentre
la moltiplicazione esponenziale degli investimenti nell'ultimo decennio
che l'ha riguardata ne ha solo accelerato la trasformazione strutturale
in un medium che istituzionalizza le differenze di classe insite nei
rapporti sociali di produzione capitalistici, facendo leva sulla segmentazione
del mercato e nella diversificazione, in base al reddito, dell'accesso
alle autostrade elettroniche. Non c'è quindi nessun regno della
libertà all'orizzonte, sostiene convinto Schiller, polemizzando
sia con i sostenitori del libero mercato che con il cosidetto popolo
della rete, che guarda a Internet come a una "zona automoma dal
potere del capitale".Una tesi provocatoria, quindi, tanto più
se a svilupparla è uno studioso radical e considerato un esponente
di spicco di quella "sinistra accademica" americana che fa
riferimento a Noam Chomsky. E come Chomsky, Schiller è puntiglioso
e documenta accuratamente tutto ciò che scrive, traendo informazioni
da quotidiani come il Wall Street Journal e il Financial Times, da documenti
del Congresso degli Stati uniti e da discorsi dei manager delle multinazionali
dell'informatica, delle telecomunicazioni, dei maggiori network televisivi.Nulla
è lasciato al caso e alla fine del libro si ha l'impressione
di aver letto un'altra storia di quella che si conosceva sullo sviluppo
del personal computer o del provvedimento dell'antitrust statunitense
contro il colosso della telefonia At&t o dell'acquisto della Time
Warner da parte di America on line. Ma l'obiettivo di demolire molti
dei luoghi comuni che riguardano la nascita e la diffusione di Internet
è solo l'obiettivo minore di Dan Schiller. La sua maggiore ambizione
è di sviluppare un punto di vista "organico" sul capitalismo
digitale, dove ogni scelta, strategia imprenditoriale, intervento legislativo
del governo statunitense è teso a garantire tanto l'egemonia
mondiale della "dottrina di Washington" sul libero mercato
che la supremazia delle multinazionali americane. Non siamo ovviamente
a un dettagliato "piano del capitale", ma a una "eterogenesi
dei fini" in cui l'obiettivo di chi agita le parole d'ordine libertarie
del diritto all'accesso all'informazione e di tutela della privacy coincide
con quello di chi, dietro la scrivania di una grande corporation, vorrebbe
che la rete fosse preservata da un'insopportabile intervento statuale
teso a garantirne il carattere di servizio pubblico.E' indubbio che
Schiller abbia molte frecce nell'arco delle sue argomentazioni. Come
non riconoscere che Internet sia diventando l'eccellente medium per
fare affari nel mercato mondiale. Come non riconoscere che la rete sia
diventata il luogo di una convergenza tra informatica, telecomunicazioni
e televisione che dà un impulso allo sviluppo della "fabbrica
del consenso" (i capitoli dedicati all'ingresso dei vecchi media
nella rete e alla formazione e all'università sono tra i più
avvincenti del volume). Come, infine, non concordare con Schiller quando
sostiene che su Internet la pubblicità ricopre certo il ruolo
di uno degli indiscussi attori protagonisti nel condizionarne alcune
linee di sviluppo, come quella, finora però di scarso successo,
di farla diventare un sostitutivo delle vecchia e cara televisione,
con la differenza che nella web-cam, il palinsesto è personalizzato
grazie alla interattività in tempo reale tra domanda e offerta.
Sono tutte tendenze in atto, ciò è indiscutibile. Sembra
però di trovarsi di fronte a una realtà già consolidata,
senza smagliatura alcuna, dove tutto funziona perfettamente e dove gli
unici elementi di distrurbo sono dovuti all'aspra concorrenza tra le
imprese e ai limiti stessi del "capitale", individuati nella
sua incapacità di far crescere a dismisura il consumo di merci.
Messa così, verrebbe la tentazione di abbandonare il campo e
ritirarsi in qualche aula di università o di un centro di studi;
oppure rinchiudersi tra le pareti domestiche e sperimentare qualche
forma di vita "alternativa" a quelle dominanti. Ma poiché
il libro di Schiller è un libro condivisibile, ne va per questo
evidenziata la sottovalutazione di due elementi che sono "centrali"
nel capitalismo sans phrase.In primo luogo, i rapporti sociali di produzione
capitalistici sono affrontati in maniera al quanto tradizionale, dividendo
rigidamente il consumo dalla produzione, relegando quest'ultima a un
ruolo marginale, quasi bastasse "decrittare" le strategie
commerciali per avere la chiave d'accesso alla comprensione dell'effettivo
funzionamento del "capitalismo digitale". Quando invece tra
produzione e consumo il legame è da sempre simbiotico. Così
come è proprio la maggiore interattività tra impresa e
consumatore consentita dalla rete che garantisce un effettivo just in
time produttivo. Ma è soprattutto su un punto che il volume di
Schiler non fa i conti. La "dialettica" esistente tra la dominante
presenza su Internet di una articolata e sfaccettata controcultura hi-tech
ha fin qui sì garantito l'innovazione organizzativa e tecnologica
della rete, ma ha anche costituito il limite stesso al capitalismo digitale.
Una controcultura basata su una condivisione dei saperi e del know-how
tecnico-organizzativo di cui le imprese cercano di appropriarsi grazie
all'intervento legislativo dell'amministrazione americana teso a privatizzare
il "sapere sociale", attraverso una regolamentazione dei brevetti
e del copyright favorevole alle imprese. Sono queste due assenze che
non consentono alora a Schiller di individuare i momenti di resistenza
alla "dottrina di Washington".Capitalismo digitale ha comunque
il pregio di sottolineare come "la colonizzazione" della rete
è andata di pari passo con il moltiplicarsi degli interventi
legislativi dell'amministrazione americana tesi a "regolamentare"
la rete. Dalla regolamentazione della privacy alla battaglia contro
la pornografia in rete, il governo federale americano ha sempre puntato
a due obiettivi. Da una parte, demolire l'idea di servizio pubblico.
E' noto che negli Stati uniti non è mai esistito un gestore pubblico
delle telefonia e della televisione. Ma entrambi i medium, indipendentemente
da chi venivano gestiti, dovevano sottostare a dei vincoli che ne valorizzavano
il carattere "pubblico". Bene, dagli anni Settanta in poi,
l'intervento del governo federale ha cercato di "demolire"
la legislazione che imponeneva obbligi nella fornitura del servizio
garantendone il carattere "universale". E solo dopo aver compiuto
questa operazione è diventata possibile l'avvio della "convergenza",
cioè la "fusione" tra i settori industriali da sempre
considerati separati, come lo sono stati l'informatica, l'elettronica
di base, le telecomunicazioni, la televisione e il cinema. Da una parte,
però, le reti telematiche aumentano la produttività dell'impresa,
perché razionalizzano il processo produttivo e garantiscono,
attraverso la disarticolazione del tempo di lavoro, l'aumento della
giornata lavorativa sociale. Ma dall'altra parte, Internet permette
la divisione verticale del mercato. E' il fenomemo del digital divide,
che non riguarda solo il Nord e il Sud del pianeta, ma anche i paesi
più sviluppati. In altri termini, le imprese cominciano a investire
sui servizi destinati ad altre imprese e alla parte di popolazione con
un alto reddito. Si tratta di investimenti che riguardo tanto le tecnologie
che i servizi propriamente detti. E' quindi sulla differenziazione dell'accesso
alla rete che le multinazionali hanno spinto l'accelleratore.Alla fine,
e siamo giunti agli anni Novanta, risulta demolita l'idea di servizio
pubblico, grazie all'attivismo dell'amministrazione statunitense che,
tanto all'interno che negli organismi internazionali - Wto e Banca mondiale
- cerca di instaurare un vero e proprio regime del libero mercato. L'esempio
più noto è la serie di modifiche della legge sul copyright
e la costituzione di un organismo internazionale a difesa della "diritto
d'autore", che Schiller chiama giustamente "regime della proprietà
intellettuale".La differenziane dell'accesso in base al censo e
il "regime della proprietà intellettuale" saranno i
grimaldelli per una radicale trasformazione della rete. Negli ultimi
anni si è parlato molto di new economy. Ma il libro di Schiller
parla della conquista della "vecchia economia" della rete,
grazie alla fanteria meccanizzata rappresentata dalla pubblicità.
"In una epoca di crescenti disuguaglianze di classe - scrive l'autore
- le imprese, da Att a Disney a General Motors, hanno adottato piani
di marketing duale, in cui il lancio di prodotti e le campagne di vendita
sono oggetto di una polarizzazione che tiene conto di 'due diverse Americhe',
quella dei ricchi e quella dei poveri". Il cerchio, secondo Schiller,
è alla fine chiuso con la costituzione della "fabbrica della
conoscenza" - il sistema misto della formazione universitaria e
professionale - che garantisce il buon funzionamento di una "economia
a innovazione permamente".Il capitalismo digitale è quindi
questo incrocio tra dottrina del libero mercato e politica diversificata
dei diritti civili. All'orizzonte non c'è nessuna opposizione
sociale e politica consistente. Sono queste le amare conclusioni di
Dan Schiller. Che la sua analisi sia in gran parte condivisibile si
è già detto, l'amara conclusione sarà il tempo
a confutarla o meno. Quello che importa sottolineare è che il
linguaggio dei diritti civili presenti in rete è però
ambivalente e può essere inteso anche come diritti della forza-lavoro.
Una cosa è infatti certa nel capitalismo digitale: la scomparsa
della distinzione tra tempo di vita e tempo di lavoro. E' semplicemente
la nuda vita ad essere messa la lavoro. La rivendicazione del diritto
alla parola o all'informazione è quindi da considerare un diritto
del lavoro vivo. Che l'"humus" libertario - attitidini, stili
di vita, agire comunicativo - sia presente in rete è d'altronde
indubbio. Che in passato sia stato piegato alla diffusione del capitalismo
digitale è altrettanto vero. E tuttavia la contraddizione - diritti
civili versus logica imprenditoriale - rimane e le grandi multinazionali
non riescono a risolverla proprio perché i diritti civili sono
diventati anche diritti del lavoro vivo. Solo così si spiega
la loro determinazione a istituire un "regime della proprietà
intellettuale". Regime che però riesce solo ad accumulare
su di sé l'ostilità di chi vive in rete e di chi vive
della rete. |
|