Libertà di comunicare La retorica sulla società dell'informazione nasconde una piccola, ma indiscussa verità. Cioè che l'informazione pervade la vita sociale. Cercare quindi di controllare la produzione e la circolazione dell'informazione significa segnare influenzare o manipolare la costruzione dell'opinione pubblica. Ed è quindi ovvio che attorno al mondo dei media si giochi una partita importante, come testimoniano alcuni recenti episodi che hanno visto coinvolti sia la televisione pubblica che alcuni media indipendenti. Ma quello che è accaduto nelle settimane scorse attorno alle perquisizioni di Indymedia e alla minacci di chiusura di Radio onda rossa ha ben altro sapore.In primo luogo, Indymedia è un media indipendente che si è formato attorno alle mobilitazioni contro la globalizzazione neoliberista e funziona in modo sostanzialmente diverso da come opera normalmente una televisione o un giornale. Ha scelta per medium Internet e funziona proprio come una rete, che ha dei nodi dove tutti possono dare il loro contributo, indipendentemente se sono o no "operatori della comunicazione", ma solo a patto che si è partecipato in prima persona a un "fatto".La vicenda di Radio onda rossa ha invece il sapore amaro della beffa, perché rischia di essere chiusa per cavilli amministrativi. Emittente romana da sempre di "movimento", ha accompagnato da sempre ciò che si muoveva nella capitale al di fuori delle organizzazioni istituzionali della sinistra storica. Questo fino allo scorso luglio, quando l'emittente romana diede avvio, assieme ad altro radio "alternative", all'esperienza di Radio Gap, un network che si poneva di seguire le mobilitazioni contro la riunione del G8 a Genova. (L'esperienza di Radio gap è raccontata nel volume "Le parole di Genova" edito della Fandango).Le due vicende hanno però in comune quel nodo della libertà di comunicare in una realtà che vede manifestarsi due tendenze. Da una parte, per tutti gli anni Ottanta e gli anni Novanta è proseguita la concentrazione dei media nella mani di poche, grandi corporation, dando vita a convergenze tecnologiche e organizzative per cui accade che una impresa transnazionale sia proprietaria di televisioni, giornali, radio. Dall'altra è accaduto che la concentrazione ha provocato che quelle stesse corporation moltiplicassero le pubblicazioni o le televisioni destinati a settori di pubblico differenziati. Ciò che ha scompaginato il quadro è stata Internet e l'inesorabile abbassamento dei costi delle apparecchiature."Don't hate the media, become the media", recita lo slogan di Indymedia. "Non odiare i media, diventa un media" è così diventato l'obiettivo di operatori della comunicazione e di smanettatori del computer, a Seattle come a Barcellona, a New Delhi come a Rio de Janeiro. Un piccolo esercito di giovani e qualche giornalista "arrabbiato" degli anni Sessanta e Settanta si sono messi in cammino e si sono moltiplicati siti, radio, financo televisioni che si fregiano, a ragione, del titolo di media indipendenti. Per questo piccolo esercito, il problema non è più quello di chiedere obiettività ai media tradizionali, ma di produrre informazione in proprio. E' stato così a Seattle. E' stato così a Genova. Ma con un'importante novità: che i media tradizionali sono stati investiti da questo modo di produrre informazione. Basti ricordare cosa è accaduto a Genova: Indymedia e Radio Gap, assieme ad altri giornali e radio indipendenti, comunicavano il movimento.I media tradizionali non hanno potuto fare altro che registrare il fatto che "become the media" era divenuta una realtà con cui fare i conti. La manifestazione di oggi parla di questo. Della concentrazione dei media nelle mani di poche corporation e, ma anche di come mettere in pratica la libertà di comunicazione
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