La pace americana in armi

 

 

La pace americana in armi "A Porto Alegre, il movimento contro la guerra potrà trovare la forza non per impedirla, ma per fermarla". Un'intervista con lo storico statunitense Howard Zinn, autore del volume "Non in nostro nome" BENEDETTO VECCHI, L'analisi proposta da Howard Zinn nel volume Non in nostro nome (Il Saggiatore, pp. 281, € 15) è spietata. Con prosa avvolgente, ripercorre infatti la storia americana da quando, anno 1770, alcuni soldati inglesi uccisero cinque coloni. Quell'evento è considerato da molti studiosi l'inizio della rivoluzione americana, una storia che ha il sapore dell'epopea. Ma per questo storico radicale, la nazione americana ha ben poco di epico alle spalle. Anzi, per Zinn gli Stati uniti sono nati con una guerra e poi con altre guerre sono diventati nazione. "Gli Usa sono un paese espansionista e considerano la guerra lo strumento per affermare la loro pace", sostiene più volte nel volume che sarà nelle librerie da lunedì. Soldato durante la seconda guerra mondiale, Howard Zinn ritornò nel sue paese convinto che la guerra era una brutta cosa. Da allora è diventato uno dei personaggi di spicco di un pacifismo radicale, senza però dimenticare che dietro una guerra spesso si nascondono interessi che chi combatte preferisce occultare con parole altisonanti, come la difesa della libertà o, più recentemente, per combattere il terrorismo. E tuttavia, questa la tesi centrale del volume, è con il Kosovo che la guerra diventa, nelle strategie e nella politica estera americana lo strumento privilegiato, per mettere "ordine nel mondo". Non in nostro nome documenta questo "salto di qualità" senza mai scadere nella semplificazione.L'intervista che segue doveva essere sul forum sociale mondiale di Porto Alegre, che per Zinn sarà l'occasione di dare un respiro mondiale al movimento contro la guerra, ma poi il suo discorso è ritornato sui rischi di un intervento militare contro l'Iraq. "A Porto Alegre, la guerra sarà forse l'argomento più discusso. Certo, il forum sociale mondiale non potrà impedirla, ma potrà trovare la forza per fermarla".Vecchi BenedettoUna delle tesi del suo libro riguarda il ruolo della guerra nella politica estera statunitense. Dalla seconda guerra mondiale in poi si può dire che per gli Stati uniti l'intervento armato sono lo strumento volto a costruire la "pax americana" nel mondo. Può spiegare il suo pensiero?Howard ZinnParlare della costruzione della pace attraverso la guerra può apparire, nel migliore dei casi, come un'ironia fuori posto o come una contraddizione logica. Ma nella storia degli Stati uniti non è stato così. Se ricordiamo solo alcuni tra i conflitti militari che hanno visto coinvolto il mio paese le reiterate dichiarazioni della Casa Bianca di voler la pace appaiono come pura ipocrisia. Gli Usa sono una nazione espansionista. Hanno iniziato con i nativi, ma poi hanno continuato per anni e anni nel loro tentativo di cacciare gli indigeni dalle loro terre. E questo non è accaduto solo in patria, ma anche fuori. Tra la fine dell'Ottocento e l'inizio del Novecento, truppe americane sono state mandate anche a Cuba, Porto Rico, Hawaii e nelle Filippine. Nessuna di queste guerre aveva l'obiettivo della pace, anche se spesso sono state combattute in suo nome. In realtà, erano interventi armati per stabilire l'egemonia americana su questa o quella parte del globo.Vecchi BenedettoNella guerra la propaganda svolge sempre un ruolo importante. Negli Usa anche i mass-media hanno indossato l'elmetto quando si è trattato di fare la guerra?Howard ZinnNegli Usa, i giornali, la tv, ma anche lo star-system hollywoodiano hanno alcune volte indossato l'elmetto. Basti ricordare il ruolo svolto dai media nella mobilitazione del paese durante la seconda guerra mondiale o nelle prime fasi dell'intervento in Vietnam. Altre volte, invece, nei mass-media è prevalso uno spirito critico rispetto le posizioni del Pentagono. Detto questo, sono convinto che la Casa Bianca non cerchi quasi mai di imporre coercitivamente la "linea" ai media. Negli Usa, i legami tra politica, informazione e mondo economico sono, per così dire, continuamente ridisegnati. Come è stato ampiamente dimostrato da molti studiosi, i media sono intimamente connessi con il grande business. Se dobbiamo analizzare la funzione dei media in una guerra dovremmo prestare attenzione a questo rapporto di dipendenza. In altri termini, i media rispondo in primo luogo alle corporation, e se queste solo per la guerra, prevale il consenso alla guerra. Un elemento tanto più evidente ora che il controllo su giornali, tv, Internet e Hollywood è concentrato nelle mani di quattro, cinque grandi conglomerati produttivi.Vecchi BenedettoL'11 settembre è rappresentato come uno spartiacque tra un prima e un dopo. Il "prima" è il secolo americano. Ma cosa viene "dopo"?Howard ZinnSe guardiano il prossimo secolo dal punto di vista dell'amministrazione Bush, questo inizio di millennio si configura come il periodo in cui il secolo americano deve raggiungere uno stadio di perfezione maggiore di prima, visto che gli Stati uniti rivendicano il diritto di intervenire in ogni parte del mondo in nome della lotta al terrorismo. Se però abbandoniamo il punto di vista della Casa Bianca, il dubbio che il prossimo secolo sarà americano è più che legittimo. Per quanto mi riguarda, posso dire che spero di potere assistere al crollo dell'impero americano. Sperò quindi di poter contribuire alla crescita di una opposizione alla politica estera statunitense tanto in casa che fuori dal paese.Vecchi BenedettoL'intervento statunitense in Afghanistan è stato condotto in nome della lotta al terrorismo. In molti, però, ritengono che dietro la strategia dell'amministrazione Bush ci sia l'obiettivo del controllo delle fonti petrolifere e la costruzione di un contesto geopolitico favorevole al "Washington Consensus". Lei che ne pensa?Howard ZinnNon nutro molti dubbi che al centro delle motivazioni della Casa Bianca di attaccare l'Afghanistan ci sia stato il petrolio. E questo vale ancor di più per la decisione di togliere di mezzo Saddam Hussein. Sono anni che gli Stati uniti considerano un obiettivo strategico il controllo della produzione e della distribuzione dell'energia. Un fattore che ha radici lontane e che coincide, più o meno, con l'approssimarsi della fine della Seconda Guerra mondiale. E' di quel periodo, infatti, l'incontro di Franklin Delano Roosevelt con re Ibn Saud dell'Arabia Saudita che ratificò l'appoggio statunitense alla dinastia saudita nel loro scontro con gli inglesi che aveva come oggetto del contendere proprio il controllo del petrolio nel paese.Vecchi BenedettoDi fronte alla prospettiva di un attacco all'Iraq di Saddam Hussein, il Pentagono sembra oscillare tra la volontà di attaccare e la difficoltà di convincere i suoi alleati sulla necessità della guerra. E tuttavia non le sembra che anche la sola minaccia di una guerra rappresenti una potente arma politica?Howard ZinnSì, la minaccia della guerra può diventare un'arma politica potente tanto quanto l'uso dei cacciabombardieri. Sono però convinto che, nonostante ci sia qualche incertezza da parte del Pentagono ad iniziare la guerra a causa della ritrosia dei suoi alleati nel seguirla e soprattutto dalla perdita di consenso della prospettiva militare tra gli americani, gli Stati uniti sceglieranno comunque l'intervento militare, a meno che qualcuno non trovi un'altra soluzione che favorisca comunque gli interessi americani. Una prospettiva, questa, comunque difficile. C'è infatti in ballo il potere e l'influenza americani. La Casa Bianca non può permettersi una perdita di potere nello scacchiere mondiale.Vecchi BenedettoCome è organizzata la mobilitazione contro la guerra negli Usa?Howard ZinnDopo l'11 settembre, l'amministrazione Bush e il Congresso hanno approvato alcune leggi, prima tra tutte il decreto antiterrorismo, che limitano alcune libertà individuali e che rendono più difficile manifestare l'opposizione alla guerra o alla politica americana. Ciononostante, la mobilitazione contro la guerra è cresciuta molto più rapidamente che durante la guerra nel Golfo e, cosa più sorprendente, molto più rapidamente che all'inizio dell'intervento in Vietnam. Per prima cosa va però sottolineato il fatto che non c'è un coordinamento nazionale del movimento contro la guerra. Tutte le iniziative nascono spontaneamente a livello locale, tanto nelle piccole che nelle grandi città. Nell'ultimo mese sono state censite centinaia di piccole azioni. Azioni spesso organizzate da uomini e donne che nella stragrande maggioranza dei casi non militano in nessun gruppo o associazione di base. Certo, poi alla fine qualcuno ha proposto una manifestazione nazionale a Washington, ma questi due fattori, la spontaneità e l'autonomia, hanno dato al movimento contro la guerra una grande forza di persuasione nei confronti dell'opinione pubblica.