Berardi Franco "Nessuna patologia, qui si tratta di mutazione sociale" (intervista di Mediamente, 28/2/2001) Ma quale
net-addiction? Per Franco "Bifo" Berardi, il discorso del rapporto
tra individui e nuove tecnologie non è tanto un discorso di patologia
più o meno marcata. Piuttosto si tratta di un vero e proprio cambiamento,
in profondità dell'individuo. "Per la verità, questa
storia dell'assuefazione al virtuale non mi ha convinto mai. Perché
noi non stiamo parlando di una malattia. Stiamo parlando di una mutazione.
La mutazione è una vera e propria trasformazione irreversibile
dell'organismo individuale e dell'organismo sociale. Questo è ciò
che produce il virtuale, in bene e in male. È evidente che in un
processo di mutazione l'organismo, fisico e psichico, attraversi delle
fasi di malessere, di febbre, ma questa è parte di una mutazione
irreversibile e inevitabile". D'altra
parte si può dire che Internet non crei patologie, ma sottolinei
delle patologie già esistenti. Se una
patologia della relazione nel nostro tempo esiste, ed esiste di sicuro,
questa non dipende dal fatto che c'è Internet, dipende dal fatto
che la vita, la sessualità, il lavoro, la famiglia, i rapporti
sociali, sono a tal punto frenetici, competitivi, malati, che spesso noi
preferiamo staccare tutto, chiuderci di fronte ad una scatola colorata
e rimanere in rapporto con la virtualità. Ma questo non vuol dire
che Internet sia una malattia o un fattore patogeno. Significa che Internet
è un rifugio inevitabile in una vita che tende a diventare patologica,
uno dei tanti rifugi possibili. Cambiare
identità in Rete è un gioco o una patologia? Quanto
più siamo capaci di rinunciare ad un'identità fissa, tanto
più possiamo diventare ricchi conoscitivamente e psicologicamente.
Quindi, l'abbandono e la moltiplicazione dell'identità non è
affatto una patologia. Può diventare una patologia, ma per ragioni
che non dipendono dalla tecnologia. Può diventarlo per ragioni
che dipendono dalla nostra relazione con gli altri. O per ragioni che
dipendono dal lavoro che facciamo. Ripeto: non credo che qui si tratti
di una malattia. Credo che si tratti di un processo di mutazione, che
ha certo degli aspetti spaventosi, ma che non sono isolabili dal contesto
sociale. Hai mai
esagerato nel tuo rapporto con la Rete? Francamente
no, ad un certo punto sono stanco e mi capita di dover fare qualcosa di
più interessante. Se esagero è perché il lavoro mi
costringe a farlo. Non è colpa della Rete, è colpa del lavoro
che mi costringe a stare davanti ad uno schermo più a lungo di
quanto vorrei. A questo
punto cosa ci rimane da fare, ci disconnettiamo tutti? Disconnettersi
sarebbe una vera stupidaggine, perché perderemmo molto del piacere
intellettuale del nostro tempo. Però è vero che dovremmo
essere capaci di modulare meglio il nostro rapporto con la connessione.
In verità io credo che se c'è un vero pericolo sta più
in strumenti come il telefono cellulare, che entra continuamente nella
nostra vita. Mentre Internet, proprio per il suo carattere volontario,
non entra nella nostra vita. Siamo noi che entriamo in Internet. Quindi
l'importante è mantenere il governo del proprio tempo e della propria
connessione. Se talvolta perdiamo questo controllo, la colpa non è
di Internet. La colpa è semmai della relazione sociale, produttiva
ed economica rispetto alla quale Internet è solo un elemento. Tu hai
scritto un libro dedicato alla new economy che si intitola "La fabbrica
dell'infelicità". Un titolo da apocalittico, ma sembri più
un integrato. Io sono
un apocalittico e un integrato. Sono apocalittico quando parliamo dei
regimi sociali che ci costringono a trasformare tutta la nostra intelligenza,
la nostra vita, le nostre comunicazioni in lavoro, denaro, accumulazione.
Invece sono perfettamente integrato quando si tratta di parlare di tecnologia
e comunicazione. Amo la connessione, a patto di essere io a decidere come,
quando e perché. Da anni
Clifford Stoll sostiene la necessità di disconnetterci. Non è
che nel suo modo di pensare, oltre ad una sincera preoccupazione, c'è
lo snobismo di chi era presente all'inizio e non ci sta più ora
che Internet è diventato un fenomeno di massa? Stoll è molto simpatico, e dice più cose vere. La prima è che il nostro rapporto con il nostro corpo e con il corpo delle persone che abbiamo intorno tende a diventare qualcosa di disturbato. Ma questo è colpa delle tecnologie solo in misura minuscola. In realtà è colpa dell'economia, è colpa del modello sociale nel quale noi viviamo, a cui le tecnologie sono organiche. Poi è anche vero che Clifford Stoll ricorda un'epoca leggendaria della Rete, in cui la Rete era frequentata solo da gente piena di lauree. È vero, la Rete si è popolarizzata, e quindi ha perduto gran parte del suo fascino. Ma questo non è il punto. Quello che mi preoccupa nel discorso di Stoll è una specie di integralismo, di idea della purezza di una vita senza tecnologie. Io non credo nella purezza: credo nella contaminazione, nell'intreccio di cose diverse. Non mi fa paura la tecnologia, il problema è fino a che punto siamo in grado di governarla felicemente. In questo Stoll ha ragione, anche se rischia di diventare un integralista. Senza integralismo, io sono d'accordo con lui che il modello nel quale tendiamo a vivere, è un modello in cui la tecnologia prende il posto del corpo. E questo non mi piace.
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