PEKKA
HIMANEN PRESENTA L'ETICA HACKER by Giangiacomo Feltrinelli Editore
Uno degli "hack" più famosi dei tempi recenti è
stato il successo del sistema operativo "open source"
Linux, ma lo sfruttamento commerciale di Linux sembra crescere di
giorno in giorno. In questo contesto pensi che l’etica hacker
sia compatibile con il business?
Prima
di tutto vorrei far notare che io uso la parola "hacker"
nel senso che aveva quando fu coniata nei primi anni sessanta: cioè
è relativa a una persona per la quale la programmazione è
una passione. L’etica hacker riteneva che l’informazione
dovesse essere la più "aperta" possibile. Linux
è un grande esempio di questi due elementi: passione e apertura.
Linux è un progetto iniziato da una sola persona, Linus Torvalds,
che anche scrive in questo libro, entusiasta della propria idea,
che ha condiviso apertamente con tutti. Con il tempo, altri si sono
inseriti nel processo, in cui ogni risultato poteva essere liberamente
usato, testato e ulteriormente sviluppato da chiunque. Ora che Linux
ha raggiunto una larga diffusione, si trova a dover affrontare una
forte pressione commerciale. Ma non si tratta di una contraddizione
inconciliabile tra l’hackerismo e il denaro. Anche il radicale
Richard Stallman sottolinea che il "free software" o il
software "open source" non sono questioni di denaro, ma
di libertà o accessibilità. Osserva che dovremmo pensare
all’espressione "libero" (o aperto) nel senso di
"libera espressione", non di "consumo gratuito".
Lavoro duro e dedizione non sono le qualità che il pubblico
associa generalmente agli hacker. Pensi che sarà mai possibile
per la comunità degli hacker riguadagnare il rispetto di
cui godeva negli anni sessanta?
È
vero che quando si sente la parola "hacker" molti pensano
a dei criminali informatici, ma, come ho già detto, non era
questo il senso originale della parola. Per i veri hacker si tratta
di un titolo onorifico e pertanto precisano che il termine corretto
per i creatori di virus e per chi si introduce nei sistemi informatici
altrui è "cracker", non hacker.
Associare gli hacker ai criminali informatici è un concetto
falso, che risale alla metà degli anni ottanta; ma fortunatamente
la buona reputazione degli hacker si è persa solo in parte.
Quando il popolo della rete sente la parola "hacker" pensa
a persone come Vint Cerf e Tim Berners Lee (i "padri"
di Internet e della rete), Steve Wozniak (creatore del primo personal
computer), e a Linus Torvalds (Linus scrive in questo libro cosa
significa essere un hacker). Io ritengo che quando il pubblico si
renderà meglio conto che non sono state né le grandi
corporazioni né i governi a gettare le basi dell’era
informatica, bensì alcuni appassionati che condividevano
liberamente con altri le loro creazioni, gli hacker si riguadagneranno
il completo rispetto del pubblico. E in fondo non ha importanza
che la parola "hacker" venga "ripulita" –
i fatti restano comunque veri.
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L’informazione
vuole essere libera. La Electronic Frontier Foundation, l’organizzazione
americana che si batte per il rispetto dei diritti digitali, è
stata creata anche per proteggere e per promuovere questo principio.
Ma oggi l’informazione è ben lungi dall’essere
libera. Perfino il DNA è brevettato dalle multinazionali
alla ricerca del profitto. Ritieni che questo elemento dell’etica
hacker possa sopravvivere nel prossimo secolo con una spinta continua
alla commercializzazione delle fonti di informazione?
Hai
certamente ragione: si tende a limitare sempre più la disponibilità
dell'informazione. Il concetto di proprietà è stato
esteso all’informazione in un modo senza precedenti. Ma vi
sono molti paradossi. Anzitutto noi non staremmo parlando della
tecnologia dell’informazione e della rivoluzione delle biotecnologie
se non ci fosse stato un gruppo di persone che si sono scambiate
i risultati da loro ottenuti: gli scienziati. Senza persone come
Alan Turing, John Von Neumann, Francis Crick e James Watson, che
hanno liberamente pubblicato i loro risultati, l’"economia
dell’informazione" non potrebbe esistere. Non dimentichiamo
che l’era informatica è stata creata tanto dagli scienziati,
cioè i professionisti dell'informazione, quanto dalle multinazionali.
Alla storia dei computer siamo debitori di un insegnamento paradossale:
se ci si chiude troppo, si perde. La Apple ha perso nei confronti
del PC IBM perché si è basata su un’architettura
chiusa mentre quella IBM era aperta. Gli standard Internet hanno
vinto perché si sono sviluppati liberamente, al contrario
di quelli delle organizzazioni ufficiali per la standardizzazione.
I protocolli Web aperti hanno avuto più successo del Gopher
da quando hanno iniziato a circolare voci secondo le quali il Gopher
sarebbe diventato privato. Ci sono molto altri casi del genere,
che insegnano una unica lezione: se introducete una nuova e importante
innovazione tecnologica dovete lasciarla disponibile a tutti in
modo che possano impiegarla nei mesi seguenti, altrimenti rimarrete
soli con la vostra tecnologia obsoleta. Perciò anche se il
vostro scopo è soltanto quello di battere la concorrenza,
la strategia migliore per raggiungere i vostri "sporchi propositi"
è quella di lasciarla aperta agli altri. Ma naturalmente,
come vorrei sostengo nel mio libro, la ragione principale per esigere
l’accessibilità è di ordine etico.
La nuova rivoluzione informatica ha molti elementi in comune con
la rivoluzione industriale. Pensi che si evolverà una nuova
tipologia di hacker che prenda in considerazione la nuova forza
trainante, o che i tradizionali valori hacker potranno sopravvivere
in questo scenario?
Io
direi che l’etica hacker si è già adattata bene
all’era informatica. Perciò la sfida non consiste tanto
nel cambiare l’etica hacker, ma nel cambiare il modo di pensare
predominante, quello ereditato dall’era industriale. Il conflitto
più importante è quello tra l’etica hacker e
l’etica protestante.
Nel mio libro cerco di inquadrare questo conflitto nel suo contesto
storico. L’etica protestante era necessaria alla società
industriale perché in quella società molti lavoratori
avevano compiti poco o per nulla motivanti, e pertanto vi era la
necessità di un’etica che considerasse il lavoro come
fine a se stesso, e non ci si potesse porre la domanda: "Ma
io sto usando il mio tempo per qualcosa che non mi significa niente,
e che non mi dà alcuna opportunità di realizzarmi?".
.L’etica protestante esaltava il lavoro, al cui culmine erano
le immagini dell’Eroe sovietico che zappava i campi, o il
manager occidentale con le maniche rimboccate. Il pensiero protestante
era incentrato sul lavoro.
Questo atteggiamento nei confronti del lavoro è iniziato
a partire dal XVII secolo, cioè un periodo piuttosto breve
dal punto di vista storico. Vorrei ricordare che era del tutto alieno
alla società agricola precedente al protestantesimo. Volendosi
esprimere un po’ ironicamente si potrebbe dire che i filosofi
medievali tendevano a porsi domande come: "Ci sarà vita
dopo la morte?", ma nessuno si era mai preoccupato di chiedersi
se ci sarebbe stato lavoro dopo la vita. Prima del protestantesimo,.
il lavoro non faceva parte dei più alti ideali. Iddio stesso
ha lavorato sei giorni, e si è riposato il settimo, e questo
è diventato anche l’obiettivo degli esseri umani. In
Cielo non vi era la necessità di lavorare. Si può
dire che la risposta originale della cristianità alla domanda:
"Qual è il fine della vita?" fosse: il fine della
vita è la domenica. Poiché i primi cristiani paragonavano
la nostra vita terrena al venerdì, potremmo dire che nell’etica
protestante lo scopo della vita fosse il venerdì. Il modo
di pensare prima del protestantesimo è incentrato non sul
lavoro, ma sul piacere.
In una grande contesto storico l’etica hacker rappresenta
un atteggiamento nuovo, adatto alla società informatica.
Si potrebbe dire perciò che lo scopo della vita non è
né la domenica né il venerdì. È invece
il poter fare qualcosa che abbia un significato, fonte di gioia
e di ispirazione – e non ha importanza classificarlo come
"lavoro" o "piacere", perché non sono
le etichette che possono rendere desiderabile un’azione. Sia
il lavoro sia il divertimento possono essere una noia, quel che
è fondamentale è la natura dell’attività.
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