Tracciare
tutto: è questo l’oneroso imperativo nel web digitalizzare
per conoscenza. L’archiviazione genera rischi d’obsolescenza
ma anche scoperte
Sesso
virtuale, economia virtuale, scrittura virtuale. Quello che conta è
la memoria. Tutto viene memorizzato, nel senso che tutto viene scritto,
registrato; con buona pace di chi si preoccupa della privacy. Austin
Hill, di ZeroKnowledge, vede per il XXI secolo nella lotta per il diritto
alla privacy il corrispettivo della lotta per i diritti umani nel secolo
appena terminato. La memoria è il nuovo oro nero.
Sotto questo aspetto della scrittura-memoria, Internet è un gigantesco
regalo. L’accesso, la posta elettronica, il tuo www. Ma soprattutto
i servizi. Dalla rassegna stampa personalizzata all’intranet dall’uso
facilissimo (http://www.intranets.com), dall’elenco del telefono
alle previsioni del tempo. Avere visitatori è fondamentale: il
registro degli ospiti è vitale. E ognuno, volente o nolente,
scrive, lascia la sua firma. Monitorare le scritture è sinonimo
di monetizzare. Non a caso stanno fiorendo società che forniscono
strumenti per restare nell’anonimato (http://www.freedom.net).
Intanto però la scrittura - involontaria quanto ignota ai più
- che registra loro malgrado i percorsi dei navigatori è l’acqua
che fa muovere la macina degli affari. E per invogliare a navigare,
si regala combustibile, si regala cioè altra memoria —
non basta mai — e la ricerca e l’uso della memoria produce
finalmente l’altra Memoria; quella vera, quella che conta, perché
fa guadagnare.
Ed ecco affermarsi siti che danno la possibilità di salvare i
file personali, di ogni tipo, alfabetici, alfaiconici, video, musicali
eccetera, al posto dei pc personali. Stupendo che sia previsto anche
il cestino comunitario: necropoli della Rete. Astolfo, nell’Orlando
furioso dell’Ariosto, deve volare sulla luna, dove è raccolto
tutto quanto si perde sulla terra; per ritrovare la ragione che Orlando
aveva smarrito, oggi basta andare a vedere uno dei tanti siti dedicati
“alle bisogne”, incerti fra la discarica e lo scrigno prezioso.
La scrittura-memoria non sta cambiando soltanto supporto. Sta mutando
natura. Scrivere era penoso, perché faticoso; soprattutto rischioso.
Nel senso che era una scelta. Non si poteva fare e dire tutto. Significava
rinunciare, perdere; perché, per trovare quello che solo la scrittura
riusciva e riesce a darti, dovevi selezionare, tagliare, sfoltire: insomma,
scegliere. La trama, l’intreccio, lo stile, gli interlocutori,
tutto era una scelta. Un libro, in byte, è poca roba. Qualche
centinaia di migliaia non di parole, bensì di caratteri. Che
delusione contare i byte della Divina commedia. E la tecnologia della
scrittura cartacea era in linea con questa cultura della scelta, dell’essenzialità;
dominava, al di là della qualità dei testi, la retorica
della povertà, che era la forza motrice di quel linguaggio: la
sola stella polare della navigazione-scrittura cartacea. Correggere
era una pena; cancellare una fatica a volte un disastro. La carta si
sciupava, il bianchetto sembrò una liberazione. E poiché
lo spazio era finito, lo spessore della carta era quello, logorato il
quale restava solo un bel buco, si faceva attenzione alle parole. Tutto
spingeva a risparmiare, a scegliere. Oggi, invece, comanda la retorica
dell’abbondanza; anzi, più esattamente, dell’infinito.
Una memoria infinita per una scrittura altrettanto infinita. E soprattutto
istintiva, naturale, facile.
La scrittura-memoria facile. Ancora meglio; lo slogan potrebbe essere:
“Meno fatica per dare più spazio alle idee”. Alcuni,
preoccupati che questo marketing della multimedialità tutto orientato
verso il grado zero della scrittura (sia essa fatta di parole e/o di
immagini e/o di suoni), cercano da tempo di spiegare che la multimedialità
è un linguaggio, a tutti gli effetti; arduo da riconoscere, ma
linguaggio fra i linguaggi. Anzi, per certi versi, linguaggio più
linguaggio di altri. Ma è difficile da spiegare. Il problema
è complesso. Non c’è dubbio.
Per conto mio, voglio qui riportare la conclusione a cui sono giunti
i partecipanti a un convegno internazionale che si è tenuto poco
tempo fa a Verona, organizzato dalla Fondazione Franceschini (antesignana
nel campo della filologia multimediale) dall’Università
di Verona e dal Craiat, dell’Università di Firenze (http://www.sismel.meri.unifi.it).
Si tratta di studiosi di testi antichi, di filologia, di archivistica,
di filosofia, di codicologia eppure esperti di multimedialità
(Mosele, Leonardi, Santi, Morelli, De Prisco, Diaz De Bustamante, Bozzetti,
Marinucci, Durano, Schuler, Montanari, Mastrandrea, Pini, Landi). La
sintesi di due giornate di lavori è una storia, emblematica,
del nostro tempo tecnologico, narrata dalla relatrice Irma Schuler.
La prestigiosa Biblioteca Apostolica Vaticana nel 1994 aveva deciso
di dare vita a un progetto pilota: digitalizzare tutti i manoscritti
(molti dei quali magnificamente miniati) e metterli in rete. Due gli
evidenti vantaggi: consultazione remota e conservazione e salvaguardia
del patrimonio. In collaborazione con l’Ibm e con l’Università
Pontificia di Rio de Janeiro cominciò il lavoro. Migliaia e migliaia
di fogli venivano riprodotti e archiviati. Poi il progetto prese a rallentare,
fino a fermarsi del tutto. Oggi è chiuso. Perché? Molte
le ragioni, ma risolutivo è stato constatare che i cambiamenti
della tecnologia non davano tregua, rendendo inutilizzabile il già
svolto. L’upgrading, il trasferimento continuo da un supporto,
da un software a un altro, era impraticabile. La memoria multimediale
non aiutava a riscrivere il passato così da preservarlo dal tempo.
Tutto sbagliato, allora? No certamente. In attesa che si definiscano
gli standard, che il mondo della scrittura-memoria digitale si dia delle
regole precise, prendendo coscienza di essere un nuovo linguaggio, un
linguaggio anche per ricordare, la digitalizzazione dei manoscritti
si sta rivelando un potente strumento per interrogare, indagare quelle
carte; per esplorarle al di là dei limiti dell’occhio umano,
E successo così che quei testi hanno cominciato a raccontare
storie sconosciute, facendo emergere dal passato disegni, parole altrimenti
persi per sempre.
Il convegno di Verona, riflettendo sui problemi legati all’elaborazione
delle immagini nelle discipline umanistiche, ha messo in evidenza un
punto centrale per capire il senso della rivoluzione digitale. La sua
natura linguistica. La multimedialità, come ogni supporto, riscrive
tutto ciò che incontra, che le viene affidato: valorizzandone
alcuni aspetti e penalizzandone altri. Così mentre si è
sottolineato il valore testuale dei data base, strutture potenti che
influenzano la lettura e l’interpretazione dei singoli dati, lontani
da avere un valore assoluto; si è sottolineata la necessità
di ridefinire il rapporto fra archiviazione, da una parte, e strategia
comunicativa e fruizione-usabilità dall’altra. Il che significa
sollecitare a riflettere circa il rapporto fra memorizzazione e lettura,
a tutto vantaggio delle potenzialità conoscitive di questo nuovo
linguaggio. Restituire alla multimedialità la sua complessità,
sottolinearne la forza cognitiva e analitica, appare premessa indispensabile
per liberare questo straordinario strumento dai vincoli di una cultura
ancora oggi sospesa fra idealismo e positivismo; certo restia, anche
camuffandosi da tecnologia avanzata, a riconoscere alla natura materiale
dell’ agire umano un valore morale e scientifico. Del resto, da
questo punto di vista, l’analogico non ha vissuto né vive
fortune migliori.
E pensare che tutto cominciò, in Vaticano, quando ci si dovette
arrendere davanti al fatto che, nonostante l’ alta qualità
delle digitalizzazioni, non si riusciva a riprodurre il colore dell’oro
usato nelle miniature. Da quel momento la rivincita sull’oro virtuale
era già segnata.
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