Attivismo
digitale.I ribelli del copyright
Se pensate che gli hacker siano i pirati informatici che diffondono
i
virus e rincorrono la vostra carta di credito su Internet, siete in errore.
Chi commette crimini attraverso il computer, quelli sono un'altra cosa.
Gli hacker veri, sono innanzitutto degli entusiasti. Magari irriverenti.
Appassionati, alla ricerca di soluzioni ai problemi informatici. Soddisfatti
solo quando le trovano e le condividono con gli altri hacker. La Rete,
quell'Internet che proprio gli hacker hanno fatto nascere, è il
loro habitat. Della Rete (e delle libertà in Rete) gli hacker sono
i pionieri.
Ecco, i tentativi di rinchiudere l'hacking in una definizione (o descrizione)
finiscono qui. Meglio non cercare confini precisi. Gli hacker sono persone
di ogni età, sesso, ceto sociale. Che di fronte a un computer sfoderano
la passione e vestono i panni del "mestiere". Perché
l'hacking è un'attitudine: verso l'uso della macchina e verso la
condivisione del sapere. Un'etica che rivendica l'accesso illimitato all'informazione
e al sapere come diritto. Un modo di pensare e lavorare intriso di innovazione
e virtuosismo tecnico.
Quello degli hacker è anche una forma raffinata di consumo critico,
a più livelli. È rifiuto dei monopoli e della sudditanza
alle grandi corporation, è rifiuto dell'essere considerati, anche
nel campo dell'informatica, utenti-merce. È anche il tentativo
di divenire attori non passivi della grande macchina dell'informazione.
Gli hacker promuovono l'alfabetizzazione informatica, spingono all'utilizzo
di software libero, fanno pressione anche sugli enti, soprattutto scuole
e università, perché ne facciano uso. Vogliono una più
equa distribuzione delle risorse, in termini di sapere, informazione,
competenze e strumenti. Gli hacker si oppongono a un accesso riservato
alla tecnologia, al fatto che il computer sia un mezzo complicato, non
alla portata di tutti.
Un mondo, quello degli hacker, che nasce alla fine degli anni '50, in
quel tempio della tecnologia che è il Mit (Massachussetts Institute
of Technology), quando i pc ancora sono un sogno e le intuizioni dei giovani
ricercatori un patrimonio da mettere in comune.
È allora che viene coniato il termine hacker: indica chi trova
una soluzione brillante a un problema informatico. Ma indica anche la
cooperazione e libertà di rielaborare e migliorare i prodotti intellettuali
altrui (in primo luogo il software). È grazie a questo modo di
lavorare che sono nati il primo personal computer e il web. O Linux, il
sistema operativo alternativo a Windows, completamente libero, cresciuto
col contributo di centinaia di persone.
È per questo che gli hacker si scagliano contro il monopolio di
Microsoft. Non si tratta di un semplice boicottaggio, ma della decisa
rivendicazione della libertà di diffondere le conoscenze a tutti
i livelli, a favore di chiunque e per il beneficio di tutti, in primo
luogo del sapere informatico. "Tutta la tecnologia al popolo".
O ancora " Socializzare saperi senza fondare poteri". Perché
solo lo scambio di saperi libero è fautore della diffusione della
tecnologia.
Quindi non parlate loro di copyright, di segreti industriali, di licenze
d'uso. Vi risponderanno che la conoscenza appartiene a tutti, quindi deve
essere libera.
Un atteggiamento, questo sì, che costituisce un grosso pericolo
per i giganti dell'information technology, gelosi dei loro programmi e
delle loro conoscenze esclusive. Sarà forse per questo che da anni
è in atto una campagna di delegittimazione, che identifica gli
hacker coi pirati informatici (che, proprio per evitare confusione, si
dovrebbero invece chiamare cracker).
In Italia il fenomeno è piuttosto recente. Inizia con gli anni
'90, ma una vera e propria comunità di hacker si forma dal 1997,
quando il costo dei pc diminuisce, inizia il boom di Internet, le capacità
e le conoscenze aumentano e si diffondono. È allora che nascono
i primi gruppi, le prime e-zine (i periodici, per lo più on line,
che si occupano di cultura hacker).
Resta impossibile dire quanti siano gli hacker in Italia. Anche perché
nessuno può definirsi tale, ma solo essere riconosciuto come hacker
dalla "comunità".
È una piramide che per base ha una vasta fascia di interesse -migliaia
di persone-, che si restringe in funzione delle competenze fino a una
manciata di super esperti, che si dedicano al bug hunting (la caccia agli
errori nei sistemi e nei software), o allo sviluppo di programmi. In mezzo
numerosi hack lab, i laboratori (a volte solo virtuali) dove gli hacker
si incontrano per scambiarsi file ed esperienze.
L'ultimo "Hackmeeting" italiano si è tenuto a giugno
a Bologna, nello storico centro sociale che è il Teatro Polivalente
Occupato (Tpo). In pochi giorni sono passati a centinaia. A entrarci non
si sarebbe detto: nel cortile, sulla sinistra, un baretto, poco più
in là una piscina con tanto di bagnanti. Dietro, un piccolo campeggio.
Ma i contenuti dell'incontro sono stati di altissimo livello. Tra i muri
disadorni del Tpo, nei seminari tecnici si sono alternati ricercatori
universitari e professionisti dell'informatica, oltre che semplici appassionati.
E il cuore di tutto è stato, come ogni anno, il "lan space",
il laboratorio (al primo piano dell'edificio), dove ognuno ha potuto portare
il proprio computer, collegarsi in una rete interna e condividere con
altri i propri materiali informatici e le proprie capacità. Il
senso: "Forzare la condivisione interna delle conoscenze. E forzare
l'utilizzo di tecnologie e software liberi e non commerciali, come il
sistema operativo Linux e gli altri programmi nati da queste filosofie".
Nella confusione di cavi, processori, scheletri di personal computer,
saldatori, birra e fumo, il lavoro frenetico di una passione non remunerata,
competenze (a tratti davvero sbalorditive) coltivate con modalità
tutt'altro che ortodosse: giocose, disordinate, slegate da orari o impegni
professionali. L'esempio più clamoroso l'ha dato Richard Stallman,
ex ricercatore al Mit di Boston, che oggi è considerato uno dei
fondatori e ispiratori della comunità hacker. All'Hackmeeting di
Bologna il guru Stallman si è presentato tra gli applausi vestito
da Sant'Ignuzio (Gnu è il progetto di free software iniziato da
Stallman nel 1983, vedi a pagina 20), con tanto di vecchio hard disk in
testa a fare da aureola digitale. Non tutti gli hacker si riconoscono
in appuntamenti come l'Hackmeeting, ma importa poco. La geografia hacker
è vasta, c'è spazio per chiunque.
La scelta del Tpo non è stata un caso. La comunità hacker
italiana si sovrappone di continuo col mondo dei centri sociali. Col tempo
si è messo in moto un processo che ha avvicinato le tecnologie
informatiche all'impegno civile e politico. Il passaggio è avvenuto
quando il computer ha smesso di essere solo uno strumento di produzione
e di calcolo per trasformarsi in potente mezzo di comunicazione e diffusione
di conoscenze. Popolare, accessibile, orizzontale. I timidi e ben vestiti
informatici si sono avvicinati al mondo alternativo e grezzo dei centri
sociali, o i ragazzi col piercing e i tatuaggi si sono lasciati affascinare
dai computer? Forse l'una e l'altra cosa. Fatto sta che nella maggior
parte dei casi gli hack lab nascono e si riuniscono in centri sociali.
L'hacking si unisce all'attivismo e nasce l'"hactivismo".
Il che non significa che tutti gli hacker siano attivisti, tutt'altro.
Significa però che molti si sono avvicinati alla tecnologia quando
hanno scoperto che si può utilizzare per la politica, l'impegno
civile. Ma non vuol dire nemmeno che gli hactivisti siano tutti frequentatori
di centri sociali. Come hanno scritto Arturo di Corinto e Tommaso Tozzi
nel libro "Hacktivism", l'hacktivismo è "un impegno
attivo per migliorare qualcosa del mondo attraverso l'uso del computer".
Ognuno come crede.
Criminali? Tempo fa il virus Lovebug (conosciuto anche come "I love
you", la frase che appariva come oggetto delle mail attraverso cui
si diffondeva) creò scompiglio nei computer di tutto il mondo.
Era stato ideato da un giovane hacker filippino, Onel de Guzman. Una proposta
per una tesi di laurea, che qualcuno aveva poi realizzato davvero. Il
virus rubava alle vittime i dati necessari per connettersi a Internet,
per renderli pubblici. Quella di Onel era un'accusa contro le tariffe
filippine di accesso alla Rete, così alte da rendere Internet un
privilegio di pochi. Ma intanto "I love you" aveva colpito e
fatto danni in tutto il mondo.
È un pinguino il pioniere del software libero
Nel 1991 il finlandese Linus Torvalds ha 22 anni. Per il suo nuovo personale
computer vuole un sistema operativo migliore di quello che usa, un Ms
Dos.
È un giovane programmatore, e decide di farsene uno tutto suo.
Linus sa che basta chiederlo, e saranno in molti a dargli una mano: le
nuove sfide entusiasmano gli hacker (come lui), così come la voglia
di confrontarsi l'un l'altro. Lavora a partire da Unix, un sistema non
utilizzato per i personal. Quel che nasce prenderà il nome "Linux".
Linus non sa quel che sta per accadere. Più o meno consapevolmente,
sta per sconvolgere il mondo dell'informatica. Cogliendo a pieno lo spirito
hacker, ha fatto partire un'onda che coinvolgerà migliaia di programmatori
in tutto il pianeta.
Oggi Linux è il sistema operativo alternativo a Windows in tutto
e per tutto. Anzi migliore, secondo molti. Ma con una semplice differenza:
chiunque può prenderlo e farne ciò che vuole. Usarlo, copiarlo,
modificarlo, migliorarlo. Con una condizione: che rimanga sempre libero
e che ogni miglioria sia resa disponibile a tutti. Perché Linux
è un patrimonio intellettuale di tutti. Nessuno potrà mai
dire: se volete utilizzare Linux dovete pagarmi i diritti. È così
che è nato e continua a svilupparsi.
Si calcola che non meno di 18 milioni di computer utilizzino Linux. C'è
chi parla di 60 milioni. L'Ibm stessa installa Linux sui propri computer.
Il diretto concorrente dell'impero di Microsoft non ha proprietario, né
nessuno che ci guadagni dal suo utilizzo.
Quello di Linux è il capitolo più famoso di una storia che
inizia nel 1983, sempre a Boston.
Richard Stallman, guru e pioniere della comunità hacker, lascia
il Mit e dà vita al progetto Gnu. Gnu (con la "G" dura,
come guaio) è un acronimo ricorsivo che vuol dire "Gnu is
Not Unix", Gnu non è Unix.
Il progetto vuole creare un sistema operativo con le stesse potenzialità
di Unix, ma libero, gratuito e accessibile a tutti. Manca solo il nucleo
centrale (chiamato kernel). Linux è il kernel che manca (per questo
si dovrebbe dire sistema Gnu/Linux).
Oggi esistono numerose versioni -chiamate "distribuzioni"- di
Gnu/Linux. La più avanzata si chiama Debian.
Anche il progetto di Debian è rappresentato al cento per cento
da contributi volontari. Gli sviluppatori sono un migliaio. Insieme hanno
stilato un "contratto sociale", attraverso il quale si sono
impegnati a mantenere Debian libero.
Utilizzando la distribuzione Debian si hanno a disposizione più
di 9.500 "pacchetti" di software, tra utilità e applicazioni
(come i programmi di video scrittura o di calcolo, quelli per navigare
in Internet o per la posta elettronica).
Forse siamo tutti un po' hacker
Gli hacker scomodano Weber. Pekka Himanen è finlandese come Linus
Torvalds, ma è più giovane: ha 29 anni. Prendendo ispirazione
dal famoso saggio "L'etica protestante e lo spirito del capitalismo"
del sociologo Max Weber, ha scritto un libro sugli hacker. Anzi, sull'hacker
che c'è in ognuno di noi. L'etica protestante è un'espressione
che ormai ha assunto un significato slegato da quello religioso. È
l'etica di chi mette il lavoro come dovere al centro della vita, principio
su cui è modellata la società capitalistica e consumistica.
In funzione del lavoro e del denaro sono regolati i rapporti sociali e
il tempo delle nostre esistenze.
All'etica protestante fa da contraltare, secondo Himanen, l'etica hacker,
che mette al centro la passione per il lavoro, l'intrattenimento e il
divertimento. Con il gusto di sapersi sfidare e di condividere il sapere
con gli altri. Quindi chiunque può essere un hacker nella vita,
anche senza occuparsi di informatica: tutto sta nell'atteggiamento che
si assume di fronte ai propri impegni. "Gli hacker non credono che
il tempo libero sia automaticamente più significativo del tempo
lavorativo. La desiderabilità di entrambi dipende da come vengono
realizzati. Ai fini di una vita significativa, il dualismo lavoro/tempo
libero deve essere del tutto abbandonato. (...) Il significato della vita
non può essere cercato nel lavoro o nel tempo libero, ma deve scaturire
dalla natura dell'attività in quanto tale. Dalla passione. Dal
valore sociale. Dalla creatività".
Anche AltrEconomia pubblicherà a breve un libro, il cui titolo
dovrebbe suonare più o meno: "Come passare al software libero
e vivere felici". Un piccolo contributo a favore di chi ha capito
l'importanza di una riflessione critica sui consumi informatici, e vuole
scommetterci, come scommette sul commercio equo e solidale. E anche l'occasione
per vedere cosa di buono l'etica hacker è riuscita fare.
|