Predatori a banchetto

 

 

Alla fine del primo atto dell’opera di Mozart e Lorenzo da Ponte, Don Giovanni fa entrare gli invitati alla festa; cibi squisiti sono esposti sulla tavola, sui cavalletti; la gente è chiamata a fare a gara per servirsi: “è aperto a tutti quanti / Viva la libertà”, sono le parole dell'eroe predatore, che invita tutti gli altri a farsi predatori al banchetto. È una pratica questa molto cara ai potenti. La sparsio, com’era chiamata nell’antica Roma, la distribuzione di beni, tanto più gradita - ai potenti - quanto più provocava competizione, a volte risse, percosse, morte, fra i beneficiati.
Starobinsky, che ha studiato questa pratica nel libro A piene mani: dono fastoso e dono perverso1, la riteneva più o meno entrata in crisi con la rivoluzione francese. Il programma di Berlusconi la recupera, si presenta come una vera e propria sparsio, e identifica la libertà proprio come la possibilità per tutti di partecipare alla gara per accaparrarsi i beni che l’immancabile sviluppo metterà a disposizione. È chiaro, come è sempre stato chiaro, che non basteranno per tutti e che i veri potenti, a cominciare da colui che offre il banchetto, hanno già mangiato prima.
Al mondo dell’individualismo massificato, che lui stesso come grande manager di televisione e di comunicazione ha contribuito a creare, si è rivolto con un messaggio semplice e chiaro, che promette beni e insieme scioglie da responsabilità collettive; affranca dai vincoli gli individui capaci di correre nel mondo della globalizzazione; libera dall’angoscia di dover crescere chi sa che non potrà farcela, promettendo sicurezze volte a rassicurarlo nella sua minorità, a inchiodarlo in un localismo vissuto senza traumi e nutrito di qualche sogno. Soprattutto promettendo di proteggerlo contro chi sta peggio di lui. Di fronte alla crisi delle politiche nazionali, delle grandi identità collettive, all’avanzare della globalizzazione, promette il mondo come opportunità e come ricchezza ai forti, e promette di proteggere dal mondo i deboli e gli insicuri. Affronta le diversità assumendole in quanto tali e irrigidendole, nella convinzione che gli individui amano essere quel che sono, e che l’angoscia più forte in tempi di cambiamento è appunto quella di dover cambiare.
A questo universo di riferimento, che è tutto l'universo sociale ridotto in frantumi, individualizzato, Berlusconi non può che promettere una crescita senza sacrifici né doveri. Non per tutti, naturalmente, ma a tutti, come il banchetto di Don Giovanni, disponibile. Se il merito fondamentale è l'individualismo, se i valori sono ridotti all’essere padroni in casa propria, non vi sono principi superiori, nessuna dimensione etica personale o collettiva, che possa spiegare limitazioni, fallimenti, semplice dilazione del benessere individuale o familiare da acquisire; meglio, può essere solo esterna, una dilazione causata sempre da altri.
L’invenzione di un fantomatico buco nel bilancio di Amato o le torri gemelle, usate spregiudicatamente per spiegare l’impossibilità di dare subito a tutti quello che si era promesso. E soprattutto il comunismo, il cui significato è allargato fino a comprendere ogni vincolo al dispiegarsi senza limiti della capacità individuale di acquisire beni. È comunista, di volta in volta, la Magistratura, la televisione di Zaccaria, l'Europa intera, quando pretende di normare e regolare la libertà di arricchirsi. Il comunismo è l’invidia per chi ce l’ha fatta, ed è lo sbarramento da rimuovere sulla strada di chi ce la può fare.
Una crescita costante e senza limiti - una specie di euforia della borsa prolungata ed estesa a tutti i campi della vita civile e sociale - è l’orizzonte economico auspicato, promesso, l’unico che può tenere uniti gli individui atomizzati e massificati che sono la sua base sociale, coprendo e occultando in questo modo le disuguaglianze laceranti, il baratro sempre più forte tra globalisti e localisti identitari, che una crescita trainata dalla pura e semplice logica d'impresa promuove.
Il problema è che una crescita di questo tipo non c’è e non ci sarà più. E la possibilità di dare quanto promesso alla parte più lucida - e più ricca - del suo fronte, quella che ha consapevolmente scommesso sul venir meno di ogni vincolo di socialità e di solidarietà, che non sia compassionevole, senza toccare gli interessi e le tasche degli individualisti immaginari, non esiste.
I tagli alla spesa pubblica e al welfare devono essere anticipati per permettere il pieno dispiegarsi degli spiriti animali del mercato. Quelli che si aspettano tanto dallo Stato a prescindere da ogni dovere e responsabilità pubblica, stanno per fare i conti con le conseguenze che la caduta dello spirito pubblico avrà sulle loro pensioni, sulla loro salute, sull’istruzione dei propri figli. Le stesse grandi imprese che operano in una dimensione europea e globale, le piccole e medie imprese dei distretti e dei sistemi locali, impegnate a confrontarsi con le reti lunghe dell’economia globalizzata, saranno chiamate a fare i conti con i guasti che l’economia dell’aiutati che Dio - si fa per dire - ti aiuta provocherà proprio sui fattori decisivi per competere su un mercato sempre più globalizzato: gli investimenti in ricerca e formazione, le politiche a livello locale orientate alla innovazione e alla qualità, la coesione sociale necessaria a dare affidabilità alle reti locali e, nello stesso tempo, a sorreggere gli investimenti a medio e lungo termine necessari per promuovere l’innovazione. È necessaria, quindi, per i lavoratori e per il Paese una dura, seria, vigorosa politica di contrasto, che sia sorretta da due convinzioni preliminari:
1) che alcuni dei temi che Berlusconi agita contro i valori della solidarietà e del collettivo, corrispondono a fenomeni reali, che davvero non è più proponibile la triade big industry, big labour, big State che segnò la storia del fordismo e della socialdemocrazia classica;
2) che non esistono più blocchi sociali stabili e coesi, e che proprio per questo la stessa difesa dalle proprie basi sociali di riferimento può aver successo solo se parla anche a quegli interessi e quei valori oggi egemonizzati dal centro destra.
L’individualizzarsi del lavoro e della vita, il differenziarsi, fino alla persona, dei percorsi lavorativi, la crescente autonomia necessaria a svolgere un numero sempre più ampio di lavori, qualunque sia la natura giuridica del rapporto, sono le basi oggettive per cui alcuni elementi della cultura imprenditoriale e di mercato sono entrati anche nel nostro campo, e non è possibile difendersi senza dare una risposta alla innovazione sociale che ci attraversa, più compiuta e più seria di quello che siamo stati in grado di fare quando la sinistra era al governo. Questa è oltretutto la condizione per poter puntare a incrinare il fronte degli altri, per evitare che dietro la formula della centralità dell'impresa si ritrovino le grandi multinazionali e le imprese dei distretti, i competitivi da costi e le aziende di qualità, i padroni delle televisioni e il popolo frammentato e disperso dalle partite Iva. È questa la partita aperta per il sindacato.
È un grande risultato aver ricostruito le ragioni di una risposta unitaria all'attacco del Governo ai diritti dei lavoratori, ma occorre sapere che le ragioni della divisione possibile sono ancora vive, stanno dentro di noi, stanno nella scomposizione della nostra stessa base sociale, e che una posizione puramente difensiva è destinata a farle emergere. C’è una vera e propria corsa contro il tempo da affrontare: incrinare il fronte che fa capo alla centralità ideologica dell'impresa è condizione perché non si incrini il nostro fronte.
Occorre allora scegliere la nostra scala di priorità, contrapporre alla logica del libro bianco sul lavoro e della Finanziaria, le nostre rivendicazioni, per affrontare l’innovazione economica e sociale in un quadro di rispetto dei diritti e delle libertà reali delle persone che lavorano. Nella consapevolezza che, al contrario di quanto pensano i deregolatori, la produzione di nuovi diritti e di nuove sicurezze è la condizione fondamentale per assicurare flessibilità al sistema e maggiori libertà per le persone.
Il primo terreno di proposte non può che riguardare le politiche della ricerca e della formazione. Il neo liberismo sempre più palesemente non è in grado di rispondere a quello che ormai la stragrande maggioranza degli economisti, le grandi istituzioni internazionali, l’Europa, considerano il problema centrale: il fattore decisivo, sia della crescita economica, sia dello sviluppo dei diritti umani e della coesione sociale, è la capacità dei sistemi territoriali di produrre e riprodurre sapere e di internalizzarlo nei propri modi di produrre merci e servizi. Bush in Usa è qui che taglia per ridurre le tasse, voltando in qualche modo le spalle a quella che è stata la ragione forte della crescita americana degli ultimi decenni: una forte innovazione produttiva sostenuta da forti investimenti pubblici in ricerca. Si rivela qui una contraddizione della economia di mercato governante, che ha a che fare con gli stessi destini dell’umanità: l'incapacità di sostenere politicamente e culturalmente forti spese in ricerca di base, senza l’assillo della minaccia esterna e della competizione con un sistema nemico. L’incapacità cioè di spostare nella lotta al cancro, all’Aids, nella promozione del benessere dei popoli e delle persone, le risorse per la ricerca che si trova normali investire di fronte alla minaccia esterna. Forse questo spiega - di fronte al possibile rallentamento della crescita della produttività americana, proprio per il diminuire degli investimenti in ricerca - la riedizione anacronistica dello scudo spaziale, palesemente inadatto a difendersi dai nemici di oggi.
La ricerca di base, e la formazione, non sono e saranno sempre meno producibili con pure logiche di mercato, anzi servono al mercato quanto più sono prodotte in libertà e autonomia. Lo sanno i premi Nobel, e lo sanno gli stessi imprenditori più avanzati, che vedono sempre più allontanarsi, per ragioni connesse alla stessa crisi del fordismo e della economia di scala, la possibilità di produrre ricerca in proprio, e affidano il proprio futuro alla capacità di connettersi in rete con i centri in cui il sapere viene prodotto e riprodotto. Lo sanno bene gli hackers di Pekka Himanen2, quelli che programmano con entusiasmo, che non avrebbero mai prodotto innovazione senza libertà, senza la costruzione e la difesa di connessioni aperte e orizzontali, contro le logiche verticali del comando d’impresa. Non lo sa il provincialismo della nostra destra, che pensa che la detassazione degli investimenti d’impresa possa compensare la non crescita, se non la vera e propria riduzione, degli investimenti pubblici in Università e Ricerca previsti dalla Finanziaria. Ma l'attacco allo sviluppo e alla coesione sociale si esprime anche nella derubricazione della centralità degli investimenti in scuola e formazione.
È questo, tra gli altri, l’aspetto peggiore del libro bianco, l’aver sganciato politicamente e culturalmente, la questione della flessibilità dall’innalzamento della qualità del lavoro, della sua crescita culturale e professionale. Il libro bianco è, da questo punto di vista, l’altra faccia della riforma della scuola della Moratti, con i suoi meccanismi di divisione precoce, di segmentazione dell'utenza prima dei 14 anni, nel modo in cui sarà declinato l’intreccio fra scolarità obbligatoria e facoltativa fin dalle elementari. Su questo terreno non basta opporsi, ma occorre produrre un’idea di libertà e di sicurezza in grado di rispondere all’articolarsi del mondo del lavoro, per coniugare in maniera nuova il differenziarsi dei percorsi e l’unità del mondo del lavoro, le ragioni dell’individuo e i nuovi spazi per la contrattazione collettiva.
La formazione per tutti e per tutto l’arco della vita può e deve essere il punto di partenza per costruire una nuova generazione di diritti e nuovi spazi di contrattazione. L’assicurare a tutti i lavoratori, qualunque sia il carattere giuridico del proprio rapporto, la possibilità di continuare a crescere culturalmente e professionalmente, di rispondere con un proprio progetto all’obsolescenza rapida dei saperi e delle professioni, deve diventare, in questo inizio secolo, una parola d'ordine capace di suscitare altrettante energie di quanto richiese, all’inizio di questo secolo, la conquista del diritto all’alfabetizzazione per tutti i bambini.
Da qui può partire la stessa idea di un nuovo diritto del lavoro, e da qui un nuovo capitolo nella storia della contrattazione collettiva, per dare alla formazione lo stesso peso e la stessa dignità che ha la contrattazione del salario e dell’orario. Non c’è discussione possibile sulla flessibilità che possa prescindere da questa premessa, decisiva non solo per la tutela reale dei lavoratori in tempi di rapido cambiamento, ma anche dirimente per capire la direzione in cui le imprese intendono gestire il cambiamento: se verso una riduzione pura e semplice dei diritti e dei costi dei lavoratori, o verso l’innovazione e la crescita qualitativa del nostro sistema produttivo e di servizi, realizzando una flessibilità capace di coniugarsi con maggiori gradi di libertà delle persone. Il sistema ricerca - università - scuola - formazione è oggi il punto decisivo per ridefinire nell’epoca nuova il rapporto fra Stato e mercato, fra esigenze pubbliche di promozione umana e sociale e direzione dello sviluppo - o del non sviluppo – economico. Su questo terreno si gioca una partita che riguarda insieme la capacità di mantenere forti livelli di coesione sociale nel mondo del lavoro che cambia, e interrogare attivamente le imprese sulle proprie priorità.
La questione degli ammortizzatori sociali è l’altra grande questione, a questa strettamente connessa. Il Governo, nel suo libro bianco, usa i diversi livelli di copertura dal rischio di disoccupazione fra le differenti specie di lavoratori, come pretesto per una sistematica e puntuale opera di deregolazione, fino alla individualizzazione del contratto di lavoro, che la residua contrattazione collettiva dovrebbe limitarsi a registrare. Alla diversità, alla disuguaglianza in atto si risponde con la prospettiva strategica della polverizzazione dei rapporti. Ma non si può rispondere al Governo senza rispondere al problema. E allora la sfida non può che essere affrontata proponendo in positivo il terreno di una riforma degli ammortizzatori secondo i criteri, a dire il vero un po’ troppo generali, definiti unitariamente col precedente governo, tesi a ridefinire reti di protezione dall’insicurezza insieme più universali e più mirate, ossia capaci sia di affrontare i problemi di una platea molto più ampia di quella attualmente coperta dagli ammortizzatori forti (la cassa integrazione straordinaria, gli aborriti ma mai abbandonati, soprattutto dalle imprese, prepensionamenti) sia di fare i conti con le esigenze di sicurezza dei lavoratori della piccolissima impresa e dell’artigianato, dei lavoratori a termine e di quegli insicurissimi imprenditori di se stessi che sono i nuovi lavoratori autonomi. Sapendo che una risposta di questo tipo, più universale e più specifica, non può che tenere insieme la richiesta di nuovi diritti esigibili con la costruzione di nuove reti di mutualità, che chiamino in causa, attivamente, in maniera bilaterale, i lavoratori e le imprese.
Il lavoratore, la cui vita è un percorso, e sempre meno un posto a vita, è però una persona che ha diritto di sposarsi, di fare figli, di accedere a un percorso di formazione, di accendere un mutuo per la casa. Sarà tanto più in grado di flessibilizzare la sua prestazione quanto più avrà sicurezze di fronte a questi eventi. Dal punto di vista del lavoro, la formazione e la rete dei nuovi ammortizzatori non possono che essere un’assoluta priorità, rispetto a qualsiasi altra proposta tesa a flessibilizzare ulteriormente un mondo del lavoro che, in assenza della generalizzazione di questi nuovi strumenti di opportunità e tutela, appare già eccessivamente precarizzato. A guardare bene è possibile scoprire che proprio a partire da questo è possibile affrontare e risolvere le questioni decisive che spingono fuori del mercato del lavoro le persone sopra i 55 anni e scoraggiano a entrarci le donne, che prolungano i tempi di attesa dei giovani, spaventati più che invogliati dall’appello a essere imprenditori di se stessi, senza che questo generi una nuova rete di sicurezze e di opportunità. Le questioni cioè che sono alla base del basso tasso di occupazione del nostro Paese, e che il libro bianco pensa di risolvere deregolando, mettendo in discussione l’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori.
Infine credo che il movimento sindacale debba rivendicare con forza il valore della concertazione. Non solo per quello che ha rappresentato per la nazione italiana la politica dei redditi rispetto alla sua possibilità di essere pienamente in Europa, ma per quei livelli di coesione sociale che la concertazione ha permesso e promosso e che stanno alla base dello sviluppo locale e dello sviluppo di qualità del nostro Paese. La concertazione, la capacità di individuare obiettivi di crescita territorialmente condivisa e di fare squadra rispetto ad essi, hanno coinvolto in Italia centinaia di amministratori locali, di imprenditori, di sindacalisti, molto al di là degli stessi patti territoriali o contratti d’area formalmente firmati.
Si è costruito nel concreto una cultura politica della società civile e degli attori economici capaci di tenere insieme le ragioni dello sviluppo e quelli della coesione sociale e della democrazia. Di costruire cioè quel capitale sociale di tipo nuovo che è oggi dai più individuato come fattore essenziale dello sviluppo territoriale nell'epoca della globalizzazione. Le politiche per l’impresa ridotte ad incentivi automatici, l’orizzonte culturale dell’individualismo massificato, la presa diretta fra stato e mercato, fra potere e individuo, senza il fardello di corpi intermedi, che è tipica del neo liberismo, rischiano di fare piazza pulita di esperienze attraverso le quali i distretti del nord e del centro hanno potuto affrontare la trasformazione dei modelli storici consolidati, e molti territori del sud hanno cominciato a sperimentare la possibilità di crescere contando sulle proprie forze.
La riduzione delle politiche dello sviluppo a politiche redistributive verso le imprese può provocare una rottura del legame faticosamente costruito fra politiche del territorio e politiche dello sviluppo, e il collasso di quelle nuove formazioni intermedie e concertative che, in maniera formale e informale, si erano assunte in questi anni la responsabilità dello sviluppo possibile e sostenibile. Il risultato di questo, l’accentuazione del carattere redistribuitivo dell’intervento statale a scapito della sua capacità di promozione di opportunità, può provocare, e già in parte provoca specialmente al Sud, un misto schizofrenico di aspettative eccessive nei confronti dello Stato centrale accompagnato ad una svalorizzazione generalizzata del suo ruolo come fattore di crescita economica e sociale.
In questo quadro il liberismo proclamato può sfociare in nuove, pesanti richieste di assistenzialismo, in una competizione non economica ma politica fra i territori, sulla base della loro capacità di drenare risorse pubbliche.
Anche su questo terreno la riduzione degli spazi pubblici e delle concrete occasioni di democrazia economica, colpisce le ragioni della rappresentanza del lavoro e, insieme, quelle delle imprese che più coraggiosamente hanno scommesso sulla coesione sociale come fattore di sviluppo. Sono questi i motivi per i quali, anche su questi temi, la difesa è indistinguibile da una nuova capacità di proposta che colleghi l’iniziativa locale e nazionale a quelli che continuano a essere, piaccia o no a Berlusconi e a D’Amato, gli orientamenti fondamentali delle politiche europee per promuovere lo sviluppo. •

[A cura di Ranieri Andrea]

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