Il
filosofo della passione hacker
Il capitalismo industriale aveva nell'etica protestante del lavoro uno
dei suoi pilastri. Ora alla società industriale sta subentrando
l'"era dell'informazione", un modo di produrre ricchezza che
mantiene molte delle caratteristiche del passato, ma che ne presenta altre
"nuove", come dimostra il diffondersi dell'etica hacker. Per
il giovane filosofo finlandese Pekka Himanen questa nuova etica prende
congedo dallo spirito protestante di weberiana memoria per affermare una
visione del lavoro dove si intrecciano gioco, creatività e alterità
verso le gerarchie dell'impresa. Una etica "libertaria" che
muove dalle esperienze della controcultura high-tech per abbracciare l'insieme
delle attività produttive del capitalismo posfordista.
Pekka Himanen ha compiuto gli studi in Finlandia e con una laurea fresca
in tasca si è trasferito in California, anzi a Berkeley dove attualmente
insegna. Il suo libro L'etica hacker e lo spirito dell'era dell'informazione
- Feltrinelli, pp. 172, L. . 25.000 - negli Usa è stato un piccolo
caso editoriale, dopo le animate discussioni nella West Coast. (Se ne
possono trovare echi recenti nel sito www.hackeretic.org). Vuoi per la
tesi di fondo che esprime - la caduta tendenziale dell'etica protestante
del lavoro -, ma sopratutto perché è costruito con quello
spirito di cooperazione sociale che è alla base dell'etica hacker.
Presenta infatti un prologo di Linus Torvald, il finlandese che ha elaborato
il primo nucleo del sistema operativo per computer Linux, considerato
da gran parte degli osservatori come il software senza copyright che può
cancellare l'egemonia di Bill Gates nell'informatica, e una postfazione
di Manuel Castells, lo studioso di Berkeley che ha scritto una monumentale
opera sull'"era dell'informazione" (ci sarà mai qualche
editore italiano che tradurrà il suo The age of information?).
Himanen è provocatorio, dissacrante nel cogliere un mutamento nella
concezione del lavoro che è sotto gli occhi di tutti. Alterità
alla gerarchia, ricerca continua dell'innovazione, creatività come
indice dell'appetibilità di un lavoro. Ma anche, e soprattutto,
la capacità di rompere la distinzione tra tempo di vita e tempo
di lavoro: per Himanen, infatti, nell'etica hacker il lavoro è
gioco e quindi ci si diverte, poco importa se di giorno o di notte, di
venerdì o di domenica. Ma è ingenuo nel considerare l'etica
hacker come un virus che contagia tutto il corpo sociale senza incontrare
resistenza. Quello che è certo, invece, è la funzionalità
dell'etica hacker a un un modo di produrre la ricchezza che richiede flessibilità,
creatività, condivisione e diffusione del sapere: ma sempre sotto
padrone. In altri termini, una volta individuata una tendenza, quella
stessa tendenza va articolata con i rapporti sociali dominanti, pena la
sua riconduzione a un quadro di compatibilità.
Pekka Himanen sarà oggi Milano - ore 10 al Palazzo della Triennale
- per presentare il suo libro. Per intervistarlo, lo strumento usato è
stata Internet. Come da manuale, fino all'invio finale che sovverte, creativamente,
le domande, imboccando una strada che conduce lontano, più o meno
alla natura conflittuale e non pacificata della società dell'informazione.
Nella concezione weberiana, il lavoro è sacrificio. Per gli hacker
è diverso. O ci si diverte o non vale la pena lavorare. Questa
attitudine al divertimento, alla creatività sta, secondo lei, minando
l'etica protestante del lavoro. Può spiegare cosa intende?
Per prima cosa, vorrei partire da un chiarimento, tanto più necessario
perché molti lettori di giornali o telespettatori quando leggono
o sentono parlare di crimini informatici, sentono definire inevitabilmente
i responsabili di tali atti hacker. Ma si tratta di un errore. Quando
venne coniato il termine hacker, più o meno alla metà degli
anni Sessanta, il riferimento era a persone che programmavano i computer.
Lo facevano con passione e con la stessa passione condividevano i risultati
raggiunti con altre persone. Non avevano quindi nulla a che fare con i
crimini informatici, che d'altronde sono un fenomeno che inizia a partire
da metà degli anni Ottanta. Per un vero hacker, essere definito
con quel termine equivaleva a essere insignito di un titolo onorifico.
Per questi motivi, gli hacker hanno sempre sostenuto che chi scrive virus
per computer o chi si introduce, per distruggerli, nei sistemi informatici
è un cracker. Ed ora arriviamo alla sua domanda.
Le nostre vite sono ancora largamente governate da un'etica protestante
del lavoro. Con questa espressione intendo il fatto che il lavoro, qualsiasi
esso sia, deve essere considerato il fattore più importante nella
vita di una persona. Questo modo di intendere il lavoro non riguarda solo
i protestanti, perché è un'etica del lavoro che plasma tutti
i paesi industriali, gli Stati uniti come l'Italia, la Germania come il
Giappone. Per Weber, la sofferenza nel lavoro è un fatto nobilitante.
Gli hacker sono invece convinti che la loro vita debba ruotare attorno
a una loro passione, a un loro desiderio. Questo è l'ethos che
ha consentito la creazione del personal computer e di Internet al punto
che sono diventati le basi tecnologiche delle società attuali.
Un ethos espresso da un eterogeneo gruppo di persone che ha perseguito
con determinazione la propria "visione" della tecnologia e che
comprende personaggi come Steve Wozniak, l'uomo cioè che ha fondato
la Apple, o Tim Berners-Lee, "il padre del web". Ora stiamo
assistendo alla graduale duffusione di questo "visione" del
lavoro dalla "comunità" dei programmatori ad altri settori
produttivi. Si è hacker se si ha una relazione appassionata con
il proprio lavoro, cioè se si prova piacere nel farlo. Molti operatori
dell'informazione, ingegneri, manager, progettisti, lavoratori nei media
hanno questa "visione desiderante" del proprio lavoro. Detto
questo, c'è però un fattore che bisogna sempre considerare.
Se lavori per ricevere un salario e non trovi altra motivazione se non
quella di essere pagato, allora non puoi considerarti un hacker, anche
se svolgi diligentemente la tua mansione.
Lei sostiene che l'etica hacker non è necessariamente anticapitalista.
Cita il caso di alcuni di loro che hanno fatto gli imprenditori per alcuni
anni, accumulando un bel po' di denaro, poi hanno mollato tutto e hanno
ripreso a fare gli hacker. Tutto questo fa pensare che l'etica hacker
punti a costruire un mondo parallelo dove poter sperimentare forme di
vita alternative a quella dettata dall'etica protestante. Ma è
proprio così?
Certo che sì. L'etica hacker è un fenomeno cresciuto parallelamente
all'affermazione dell'era dell'informazione. In questo senso, sta al modo
di produrre la ricchezza attuale come l'etica protestante stava alla società
industriale. Mi spiego meglio. Nella società industriale c'erano
lavori che non erano per niente amati. C'era quindi bisogno di un'etica
del lavoro che affermasse il fatto rappresentasse un fine in sé
e che rimuovesse, cioè cancellasse, domande imbarazzanti del tipo:
"sto usando il mio tempo per qualcosa che ha un reale significato
per me e che mi dà una reale opportunità per la mia realizzazione?".
Ma nell'era dell'informazione, l'ultima risorsa per la crescita, anche
per quella economica, è la creatività. E non puoi essere
creativo se non fai qualcosa che ti appassioni, che abbia le dimensioni
del gioco...
La ragione principale che mi fa parlare di etica hacker non riguarda però
una dimensione economica. Ha a che fare, lo ripeto, con l'ethos emergente
nella società dell'informazione. Penso che lo spirito protestante
del capitalismo abbia fatto ruotare la vita sociale attorno al lavoro
e al denaro. Secondo Calvino e Max Weber, chi lavora duramente è
un eroe. L'azimut di questa "visione" del lavoro è negli
stereotipi dell'eroe del lavoro sovietico e del manager occidentale con
le maniche della camicia arrotolate.
D'accordo, ma anche nel suo libro, lei sostiene che lo spirito del capitalismo
è ancora dominante. Allora, forse, ci troviamo di fronte a un paradosso:
gioco, creatività, condivisione del sapere, il lavoro come cooperazione
sociale, ma poi il mondo continua nella stessa maniera. In che rapporto
sta il capitalismo reale con l'etica hacker?
Veniamo all'altro pilastro dell'etica protestante, cioè il denaro.
Sicuramente, quando Max Weber scriveva i suoi libri il denaro vi svolgeva
un ruolo importante, nei termini che la massimizzazione del guadagno era
un fine in sé. L'etica hacker è, a suo modo, una critica
radicale alla massimizzazione del profitto propria del capitalismo. Fin
dai loro esordi, infatti, gli hacker hanno messo l'accento sulla condivisione
dell'informazione. Molti di loro, infatti, e penso ad esempio a Linus
Torvald, affermano che il denaro non è l'obiettivo primario. Anche
nel testo presente nel mio volume, Linus sostiene che il motivo che lo
spinse a creare Linux non era di arricchirsi, ma fare qualcosa di divertente
con altre persone. Questo perché molti hacker considerano le loro
"creazioni" come artefatti che liberamente ognuno può
usare, modificare, migliorare. Il fatto che il denaro non occupi un posto
centrale nella loro vita e che l'arricchimento personale non rappresenti
un modello di comportamento spiega il successo di sistemi operativi come
Linux o come la Rete. Ovvero: quando cominci una cosa senza il pensiero
di come farci un business, sei mosso dalla passione di realizzarla e di
voler condividere il risultato con altre persone e che da quel risultato
ti aspetti il riconoscimento dei tuoi pari. L'autorealizzazione e il riconoscimento
sociale sono, ovviamente, ampiamente studiate in psicologia per la loro
indubbia forza nel motivare le persone. Bene, quando noi consideriamo
questo processo in una prospettiva sociale, possiamo trovarvi la stessa
dinamica dello ricerca scientifica: per molto tempo, gli scienziati e
i ricercatori hanno considerato le loro scoperte come "libere",
scoperte che potevano essere usate, criticate, sviluppate da chiunque
fosse interessato. Gli hacker applicano questo modello di diffusione del
sapere al software. Se poi ci tiri fuori dei soldi, tanto meglio, ma non
è la massimizzazione del profitto che è alla base dell'etica
hacker.
Condivisione del sapere, critica al copyright, opposizione alla proprietà
intellettuale. Sono questi alcuni degli elementi distintivi dello spirito
hacker. Eppure la privatizzazione del sapere, la tutela del copyright
e la difesa a oltranza del diritto proprietario delle imprese sul sapere
sono le linee guida di molti governi e di organismi sovranazionali come
il Wto. Questi due modi di intendere il sapere sono già in rotta
di collisione, provocando continui conflitti su Internet e nel mondo fuori
lo schermo del computer. E proprio la critica alla proprietà intellettuale,
in quanto strumento di mantenimento delle diseguaglianze sociali nel pianeta,
è uno degli argomenti del movimento di contestazione alla globalizzazione
economica. Lei che ne pensa?
Credo che gli hacker affermano cose simili a quelle sostenute da alcuni
movimenti politici, come quello contro la globalizzazione economica. Ma
tra di loro nessuno è contro la globalizzazione: ne propongono,
semplicemente, un modello diverso da quello dominante: cioè, quello
di un piccolo gruppo di persone che si arricchiscono sacrificando al profitto
il resto del genere umano. Nel 1999, i tre uomini più ricchi del
mondo, incluso quindi Bill Gates, possedevano più ricchezza dell'intero
ammontare del prodotto interno lordo dei cinquanta paesi più poveri
del pianeta, dove vivono, va ricordato, più di seicento milioni
di persone. Sappiamo anche che i brevetti, o altri simili marchingegni,
non sono una questione astratta che riguarda solo lo sviluppo di un buon
software.
L'estensione massiccia della legislazione sulla proprietà intellettuale
significa anche che molte persone nei paesi in via di sviluppo non possono
accedere a medicine sottoposte a brevetti per i loro alti costi. Questo
significa essere condannati a non poter cambiare il proprio destino solo
perché le "informazioni critiche" non possono circolare
liberamente. Inoltre, il movimento antiglobalizzazione si organizza usando
la rete, cioè usa una "invezione" degli hacker. Questo
non significa che gli hacker sono tutti politicizzati. E tuttavia, gli
hacker hanno contribuito a creare un medium politico. Per anni gli hacker
hanno aiutato molti dissidenti che vivono in paesi autoritari usando la
Rete per far conoscere la condizione di vita in quesi paesi, una circolazione
di informazioni che ha facilitato l'organizzazione di proteste contro
la mancanza di libertà e l'oppressione in quelle realtà
nazionali. Credo che la diffusione di Linux e di Internet accelererà
quei mutamenti sociali e l'etica hacker della libertà svolgerà
un ruolo da protagonista.
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Il
capitalismo industriale aveva nell'etica protestante del lavoro uno dei
suoi pilastri. Ora alla società industriale sta subentrando l'"era
dell'informazione", un modo di produrre ricchezza che mantiene molte
delle caratteristiche del passato, ma che ne presenta altre "nuove",
come dimostra il diffondersi dell'etica hacker. Per il giovane filosofo
finlandese Pekka Himanen questa nuova etica prende congedo dallo spirito
protestante di weberiana memoria per affermare una visione del lavoro
dove si intrecciano gioco, creatività e alterità verso le
gerarchie dell'impresa. Una etica "libertaria" che muove dalle
esperienze della controcultura high-tech per abbracciare l'insieme delle
attività produttive del capitalismo posfordista.
Pekka Himanen ha compiuto gli studi in Finlandia e con una laurea fresca
in tasca si è trasferito in California, anzi a Berkeley dove attualmente
insegna. Il suo libro L'etica hacker e lo spirito dell'era dell'informazione
- Feltrinelli, pp. 172, L. . 25.000 - negli Usa è stato un piccolo
caso editoriale, dopo le animate discussioni nella West Coast. (Se ne
possono trovare echi recenti nel sito www.hackeretic.org). Vuoi per la
tesi di fondo che esprime - la caduta tendenziale dell'etica protestante
del lavoro -, ma sopratutto perché è costruito con quello
spirito di cooperazione sociale che è alla base dell'etica hacker.
Presenta infatti un prologo di Linus Torvald, il finlandese che ha elaborato
il primo nucleo del sistema operativo per computer Linux, condiderato
da gran parte degli osservatori come il software senza copyright che può
cancellare l'egemonia di Bill Gates nell'informatica, e una postfazione
di Manuel Castells, lo studioso di Berkeley che ha scritto una monumentale
opera sull'"era dell'informazione" (ci sarà mai qualche
editore italiano che tradurrà il suo The age of information?).
Himanen è provocatorio, dissacrante nel cogliere un mutamento nella
concezione del lavoro che è sotto gli occhi di tutti. Alterità
alla gerarchia, ricerca continua dell'innovazione, creatività come
indice dell'appetibilità di un lavoro. Ma anche, e soprattutto,
la capacità di rompere la distinzione tra tempo di vita e tempo
di lavoro: per Himanen, infatti, nell'etica hacker il lavoro è
gioco e quindi ci si diverte, poco importa se di giorno o di notte, di
venerdì o di domenica. Ma è ingenuo nel considerare l'etica
hacker come un virus che contagia tutto il corpo sociale senza incontrare
resistenza. Quello che è certo, invece, è la funzionalità
dell'etica hacker a un un modo di produrre la ricchezza che richiede flessibilità,
creatività, condivisione e diffusione del sapere: ma sempre sotto
padrone. In altri termini, una volta individuata una tendenza, quella
stessa tendenza va articolata con i rapporti sociali dominanti, pena la
sua riconduzione a un quadro di compatibilità.
Pekka Himanen sarà oggi Milano - ore 10 al Palazzo della Triennale
- per presentare il suo libro. Per intervistarlo, lo strumento usato è
stata Internet. Come da manuale, fino all'invio finale che sovverte, creativamente,
le domande, imboccando una strada che conduce lontano, più o meno
alla natura conflittuale e non pacificata della società dell'informazione.
Nella concezione weberiana, il lavoro è sacrificio. Per gli hacker
è diverso. O ci si diverte o non vale la pena lavorare. Questa
attitudine al divertimento, alla creatività sta, secondo lei, minando
l'etica protestante del lavoro. Può spiegare cosa intende?
Per prima cosa, vorrei partire da un chiarimento, tanto più necessario
perché molti lettori di giornali o telespettatori quando leggono
o sentono parlare di crimini informatici, sentono definire inevitabilmente
i responsabili di tali atti hacker. Ma si tratta di un errore. Quando
venne coniato il termine hacker, più o meno alla metà degli
anni Sessanta, il riferimento era a persone che programmavano i computer.
Lo facevano con passione e con la stessa passione condividevano i risultati
raggiunti con altre persone. Non avevano quindi nulla a che fare con i
crimini informatici, che d'altronde sono un fenomeno che inizia a partire
da metà degli anni Ottanta. Per un vero hacker, essere definito
con quel termine equivaleva a essere insignito di un titolo onorifico.
Per questi motivi, gli hacker hanno sempre sostenuto che chi scrive virus
per computer o chi si introduce, per distruggerli, nei sistemi informatici
è un cracker. Ed ora arriviamo alla sua domanda.
Le nostre vite sono ancora largamente governate da un'etica protestante
del lavoro. Con questa espressione intendo il fatto che il lavoro, qualsiasi
esso sia, deve essere considerato il fattore più importante nella
vita di una persona. Questo modo di intendere il lavoro non riguarda solo
i protestanti, perché è un'etica del lavoro che plasma tutti
i paesi industriali, gli Stati uniti come l'Italia, la Germania come il
Giappone. Per Weber, la sofferenza nel lavoro è un fatto nobilitante.
Gli hacker sono invece convinti che la loro vita debba ruotare attorno
a una loro passione, a un loro desiderio. Questo è l'ethos che
ha consentito la creazione del personal computer e di Internet al punto
che sono diventati le basi tecnologiche delle società attuali.
Un ethos espresso da un eterogeneo gruppo di persone che ha perseguito
con determinazione la propria "visione" della tecnologia e che
comprende personaggi come Steve Wozniak, l'uomo cioè che ha fondato
la Apple, o Tim Berners-Lee, "il padre del web". Ora stiamo
assistendo alla graduale duffusione di questo "visione" del
lavoro dalla "comunità" dei programmatori ad altri settori
produttivi. Si è hacker se si ha una relazione appassionata con
il proprio lavoro, cioè se si prova piacere nel farlo. Molti operatori
dell'informazione, ingegneri, manager, progettisti, lavoratori nei media
hanno questa "visione desiderante" del proprio lavoro. Detto
questo, c'è però un fattore che bisogna sempre considerare.
Se lavori per ricevere un salario e non trovi altra motivazione se non
quella di essere pagato, allora non puoi considerarti un hacker, anche
se svolgi diligentemente la tua mansione.
Lei sostiene che l'etica hacker non è necessariamente anticapitalista.
Cita il caso di alcuni di loro che hanno fatto gli imprenditori per alcuni
anni, accumulando un bel po' di denaro, poi hanno mollato tutto e hanno
ripreso a fare gli hacker. Tutto questo fa pensare che l'etica hacker
punti a costruire un mondo parallelo dove poter sperimentare forme di
vita alternative a quella dettata dall'etica protestante. Ma è
proprio così?
Certo che sì. L'etica hacker è un fenomeno cresciuto parallelamente
all'affermazione dell'era dell'informazione. In questo senso, sta al modo
di produrre la ricchezza attuale come l'etica protestante stava alla società
industriale. Mi spiego meglio. Nella società industriale c'erano
lavori che non erano per niente amati. C'era quindi bisogno di un'etica
del lavoro che affermasse il fatto rappresentasse un fine in sé
e che rimuovesse, cioè cancellasse, domande imbarazzanti del tipo:
"sto usando il mio tempo per qualcosa che ha un reale significato
per me e che mi dà una reale opportunità per la mia realizzazione?".
Ma nell'era dell'informazione, l'ultima risorsa per la crescita, anche
per quella economica, è la creatività. E non puoi essere
creativo se non fai qualcosa che ti appassioni, che abbia le dimensioni
del gioco...
La ragione principale che mi fa parlare di etica hacker non riguarda però
una dimensione economica. Ha a che fare, lo ripeto, con l'ethos emergente
nella società dell'informazione. Penso che lo spirito protestante
del capitalismo abbia fatto ruotare la vita sociale attorno al lavoro
e al denaro. Secondo Calvino e Max Weber, chi lavora duramente è
un eroe. L'azimut di questa "visione" del lavoro è negli
stereotipi dell'eroe del lavoro sovietico e del manager occidentale con
le maniche della camicia arrotolate.
D'accordo, ma anche nel suo libro, lei sostiene che lo spirito del capitalismo
è ancora dominante. Allora, forse, ci troviamo di fronte a un paradosso:
gioco, creatività, condivisione del sapere, il lavoro come cooperazione
sociale, ma poi il mondo continua nella stessa maniera. In che rapporto
sta il capitalismo reale con l'etica hacker?
Veniamo all'altro pilastro dell'etica protestante, cioè il denaro.
Sicuramente, quando Max Weber scriveva i suoi libri il denaro vi svolgeva
un ruolo importante, nei termini che la massimizzazione del guadagno era
un fine in sé. L'etica hacker è, a suo modo, una critica
radicale alla massimizzazione del profitto propria del capitalismo. Fin
dai loro esordi, infatti, gli hacker hanno messo l'accento sulla condivisione
dell'informazione. Molti di loro, infatti, e penso ad esempio a Linus
Torvald, affermano che il denaro non è l'obiettivo primario. Anche
nel testo presente nel mio volume, Linus sostiene che il motivo che lo
spinse a creare Linux non era di arricchirsi, ma fare qualcosa di divertente
con altre persone. Questo perché molti hacker considerano le loro
"creazioni" come artefatti che liberamente ognuno può
usare, modificare, migliorare. Il fatto che il denaro non occupi un posto
centrale nella loro vita e che l'arricchimento personale non rappresenti
un modello di comportamento spiega il successo di sistemi operativi come
Linux o come la Rete. Ovvero: quando cominci una cosa senza il pensiero
di come farci un business, sei mosso dalla passione di realizzarla e di
voler condividere il risultato con altre persone e che da quel risultato
ti aspetti il riconoscimento dei tuoi pari. L'autorealizzazione e il riconoscimento
sociale sono, ovviamente, ampiamente studiate in psicologia per la loro
indubbia forza nel motivare le persone. Bene, quando noi consideriamo
questo processo in una prospettiva sociale, possiamo trovarvi la stessa
dinamica dello ricerca scientifica: per molto tempo, gli scienziati e
i ricercatori hanno considerato le loro scoperte come "libere",
scoperte che potevano essere usate, criticate, sviluppate da chiunque
fosse interessato. Gli hacker applicano questo modello di diffusione del
sapere al software. Se poi ci tiri fuori dei soldi, tanto meglio, ma non
è la massimizzazione del profitto che è alla base dell'etica
hacker.
Condivisione del sapere, critica al copyright, opposizione alla proprietà
intellettuale. Sono questi alcuni degli elementi distintivi dello spirito
hacker. Eppure la privatizzazione del sapere, la tutela del copyright
e la difesa a oltranza del diritto proprietario delle imprese sul sapere
sono le linee guida di molti governi e di organismi sovranazionali come
il Wto. Questi due modi di intendere il sapere sono già in rotta
di collisione, provocando continui conflitti su Internet e nel mondo fuori
lo schermo del computer. E proprio la critica alla proprietà intellettuale,
in quanto strumento di mantenimento delle diseguaglianze sociali nel pianeta,
è uno degli argomenti del movimento di contestazione alla globalizzazione
economica. Lei che ne pensa?
Credo che gli hacker affermano cose simili a quelle sostenute da alcuni
movimenti politici, come quello contro la globalizzazione economica. Ma
tra di loro nessuno è contro la globalizzazione: ne propongono,
semplicemente, un modello diverso da quello dominante: cioè, quello
di un piccolo gruppo di persone che si arricchiscono sacrificando al profitto
il resto del genere umano. Nel 1999, i tre uomini più ricchi del
mondo, incluso quindi Bill Gates, possedevano più ricchezza dell'intero
ammontare del prodotto interno lordo dei cinquanta paesi più poveri
del pianeta, dove vivono, va ricordato, più di seicento milioni
di persone. Sappiamo anche che i brevetti, o altri simili marchingegni,
non sono una questione astratta che riguarda solo lo sviluppo di un buon
software.
L'estensione massiccia della legislazione sulla proprietà intellettuale
significa anche che molte persone nei paesi in via di sviluppo non possono
accedere a medicine sottoposte a brevetti per i loro alti costi. Questo
significa essere condannati a non poter cambiare il proprio destino solo
perché le "informazioni critiche" non possono circolare
liberamente. Inoltre, il movimento antiglobalizzazione si organizza usando
la rete, cioè usa una "invezione" degli hacker. Questo
non significa che gli hacker sono tutti politicizzati. E tuttavia, gli
hacker hanno contribuito a creare un medium politico. Per anni gli hacker
hanno aiutato molti dissidenti che vivono in paesi autoritari usando la
Rete per far conoscere la condizione di vita in quesi paesi, una circolazione
di informazioni che ha facilitato l'organizzazione di proteste contro
la mancanza di libertà e l'oppressione in quelle realtà
nazionali. Credo che la diffusione di Linux e di Internet accelererà
quei mutamenti sociali e l'etica hacker della libertà svolgerà
un ruolo da protagonista.
[A
cura di Vecchi Benedetto]
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