Il filosofo della passione hacker

 

 

Il capitalismo industriale aveva nell'etica protestante del lavoro uno dei suoi pilastri. Ora alla società industriale sta subentrando l'"era dell'informazione", un modo di produrre ricchezza che mantiene molte delle caratteristiche del passato, ma che ne presenta altre "nuove", come dimostra il diffondersi dell'etica hacker. Per il giovane filosofo finlandese Pekka Himanen questa nuova etica prende congedo dallo spirito protestante di weberiana memoria per affermare una visione del lavoro dove si intrecciano gioco, creatività e alterità verso le gerarchie dell'impresa. Una etica "libertaria" che muove dalle esperienze della controcultura high-tech per abbracciare l'insieme delle attività produttive del capitalismo posfordista.
Pekka Himanen ha compiuto gli studi in Finlandia e con una laurea fresca in tasca si è trasferito in California, anzi a Berkeley dove attualmente insegna. Il suo libro L'etica hacker e lo spirito dell'era dell'informazione - Feltrinelli, pp. 172, L. . 25.000 - negli Usa è stato un piccolo caso editoriale, dopo le animate discussioni nella West Coast. (Se ne possono trovare echi recenti nel sito www.hackeretic.org). Vuoi per la tesi di fondo che esprime - la caduta tendenziale dell'etica protestante del lavoro -, ma sopratutto perché è costruito con quello spirito di cooperazione sociale che è alla base dell'etica hacker. Presenta infatti un prologo di Linus Torvald, il finlandese che ha elaborato il primo nucleo del sistema operativo per computer Linux, considerato da gran parte degli osservatori come il software senza copyright che può cancellare l'egemonia di Bill Gates nell'informatica, e una postfazione di Manuel Castells, lo studioso di Berkeley che ha scritto una monumentale opera sull'"era dell'informazione" (ci sarà mai qualche editore italiano che tradurrà il suo The age of information?).
Himanen è provocatorio, dissacrante nel cogliere un mutamento nella concezione del lavoro che è sotto gli occhi di tutti. Alterità alla gerarchia, ricerca continua dell'innovazione, creatività come indice dell'appetibilità di un lavoro. Ma anche, e soprattutto, la capacità di rompere la distinzione tra tempo di vita e tempo di lavoro: per Himanen, infatti, nell'etica hacker il lavoro è gioco e quindi ci si diverte, poco importa se di giorno o di notte, di venerdì o di domenica. Ma è ingenuo nel considerare l'etica hacker come un virus che contagia tutto il corpo sociale senza incontrare resistenza. Quello che è certo, invece, è la funzionalità dell'etica hacker a un un modo di produrre la ricchezza che richiede flessibilità, creatività, condivisione e diffusione del sapere: ma sempre sotto padrone. In altri termini, una volta individuata una tendenza, quella stessa tendenza va articolata con i rapporti sociali dominanti, pena la sua riconduzione a un quadro di compatibilità.
Pekka Himanen sarà oggi Milano - ore 10 al Palazzo della Triennale - per presentare il suo libro. Per intervistarlo, lo strumento usato è stata Internet. Come da manuale, fino all'invio finale che sovverte, creativamente, le domande, imboccando una strada che conduce lontano, più o meno alla natura conflittuale e non pacificata della società dell'informazione.
Nella concezione weberiana, il lavoro è sacrificio. Per gli hacker è diverso. O ci si diverte o non vale la pena lavorare. Questa attitudine al divertimento, alla creatività sta, secondo lei, minando l'etica protestante del lavoro. Può spiegare cosa intende?
Per prima cosa, vorrei partire da un chiarimento, tanto più necessario perché molti lettori di giornali o telespettatori quando leggono o sentono parlare di crimini informatici, sentono definire inevitabilmente i responsabili di tali atti hacker. Ma si tratta di un errore. Quando venne coniato il termine hacker, più o meno alla metà degli anni Sessanta, il riferimento era a persone che programmavano i computer. Lo facevano con passione e con la stessa passione condividevano i risultati raggiunti con altre persone. Non avevano quindi nulla a che fare con i crimini informatici, che d'altronde sono un fenomeno che inizia a partire da metà degli anni Ottanta. Per un vero hacker, essere definito con quel termine equivaleva a essere insignito di un titolo onorifico. Per questi motivi, gli hacker hanno sempre sostenuto che chi scrive virus per computer o chi si introduce, per distruggerli, nei sistemi informatici è un cracker. Ed ora arriviamo alla sua domanda.
Le nostre vite sono ancora largamente governate da un'etica protestante del lavoro. Con questa espressione intendo il fatto che il lavoro, qualsiasi esso sia, deve essere considerato il fattore più importante nella vita di una persona. Questo modo di intendere il lavoro non riguarda solo i protestanti, perché è un'etica del lavoro che plasma tutti i paesi industriali, gli Stati uniti come l'Italia, la Germania come il Giappone. Per Weber, la sofferenza nel lavoro è un fatto nobilitante. Gli hacker sono invece convinti che la loro vita debba ruotare attorno a una loro passione, a un loro desiderio. Questo è l'ethos che ha consentito la creazione del personal computer e di Internet al punto che sono diventati le basi tecnologiche delle società attuali. Un ethos espresso da un eterogeneo gruppo di persone che ha perseguito con determinazione la propria "visione" della tecnologia e che comprende personaggi come Steve Wozniak, l'uomo cioè che ha fondato la Apple, o Tim Berners-Lee, "il padre del web". Ora stiamo assistendo alla graduale duffusione di questo "visione" del lavoro dalla "comunità" dei programmatori ad altri settori produttivi. Si è hacker se si ha una relazione appassionata con il proprio lavoro, cioè se si prova piacere nel farlo. Molti operatori dell'informazione, ingegneri, manager, progettisti, lavoratori nei media hanno questa "visione desiderante" del proprio lavoro. Detto questo, c'è però un fattore che bisogna sempre considerare. Se lavori per ricevere un salario e non trovi altra motivazione se non quella di essere pagato, allora non puoi considerarti un hacker, anche se svolgi diligentemente la tua mansione.
Lei sostiene che l'etica hacker non è necessariamente anticapitalista. Cita il caso di alcuni di loro che hanno fatto gli imprenditori per alcuni anni, accumulando un bel po' di denaro, poi hanno mollato tutto e hanno ripreso a fare gli hacker. Tutto questo fa pensare che l'etica hacker punti a costruire un mondo parallelo dove poter sperimentare forme di vita alternative a quella dettata dall'etica protestante. Ma è proprio così?
Certo che sì. L'etica hacker è un fenomeno cresciuto parallelamente all'affermazione dell'era dell'informazione. In questo senso, sta al modo di produrre la ricchezza attuale come l'etica protestante stava alla società industriale. Mi spiego meglio. Nella società industriale c'erano lavori che non erano per niente amati. C'era quindi bisogno di un'etica del lavoro che affermasse il fatto rappresentasse un fine in sé e che rimuovesse, cioè cancellasse, domande imbarazzanti del tipo: "sto usando il mio tempo per qualcosa che ha un reale significato per me e che mi dà una reale opportunità per la mia realizzazione?". Ma nell'era dell'informazione, l'ultima risorsa per la crescita, anche per quella economica, è la creatività. E non puoi essere creativo se non fai qualcosa che ti appassioni, che abbia le dimensioni del gioco...
La ragione principale che mi fa parlare di etica hacker non riguarda però una dimensione economica. Ha a che fare, lo ripeto, con l'ethos emergente nella società dell'informazione. Penso che lo spirito protestante del capitalismo abbia fatto ruotare la vita sociale attorno al lavoro e al denaro. Secondo Calvino e Max Weber, chi lavora duramente è un eroe. L'azimut di questa "visione" del lavoro è negli stereotipi dell'eroe del lavoro sovietico e del manager occidentale con le maniche della camicia arrotolate.
D'accordo, ma anche nel suo libro, lei sostiene che lo spirito del capitalismo è ancora dominante. Allora, forse, ci troviamo di fronte a un paradosso: gioco, creatività, condivisione del sapere, il lavoro come cooperazione sociale, ma poi il mondo continua nella stessa maniera. In che rapporto sta il capitalismo reale con l'etica hacker?
Veniamo all'altro pilastro dell'etica protestante, cioè il denaro. Sicuramente, quando Max Weber scriveva i suoi libri il denaro vi svolgeva un ruolo importante, nei termini che la massimizzazione del guadagno era un fine in sé. L'etica hacker è, a suo modo, una critica radicale alla massimizzazione del profitto propria del capitalismo. Fin dai loro esordi, infatti, gli hacker hanno messo l'accento sulla condivisione dell'informazione. Molti di loro, infatti, e penso ad esempio a Linus Torvald, affermano che il denaro non è l'obiettivo primario. Anche nel testo presente nel mio volume, Linus sostiene che il motivo che lo spinse a creare Linux non era di arricchirsi, ma fare qualcosa di divertente con altre persone. Questo perché molti hacker considerano le loro "creazioni" come artefatti che liberamente ognuno può usare, modificare, migliorare. Il fatto che il denaro non occupi un posto centrale nella loro vita e che l'arricchimento personale non rappresenti un modello di comportamento spiega il successo di sistemi operativi come Linux o come la Rete. Ovvero: quando cominci una cosa senza il pensiero di come farci un business, sei mosso dalla passione di realizzarla e di voler condividere il risultato con altre persone e che da quel risultato ti aspetti il riconoscimento dei tuoi pari. L'autorealizzazione e il riconoscimento sociale sono, ovviamente, ampiamente studiate in psicologia per la loro indubbia forza nel motivare le persone. Bene, quando noi consideriamo questo processo in una prospettiva sociale, possiamo trovarvi la stessa dinamica dello ricerca scientifica: per molto tempo, gli scienziati e i ricercatori hanno considerato le loro scoperte come "libere", scoperte che potevano essere usate, criticate, sviluppate da chiunque fosse interessato. Gli hacker applicano questo modello di diffusione del sapere al software. Se poi ci tiri fuori dei soldi, tanto meglio, ma non è la massimizzazione del profitto che è alla base dell'etica hacker.
Condivisione del sapere, critica al copyright, opposizione alla proprietà intellettuale. Sono questi alcuni degli elementi distintivi dello spirito hacker. Eppure la privatizzazione del sapere, la tutela del copyright e la difesa a oltranza del diritto proprietario delle imprese sul sapere sono le linee guida di molti governi e di organismi sovranazionali come il Wto. Questi due modi di intendere il sapere sono già in rotta di collisione, provocando continui conflitti su Internet e nel mondo fuori lo schermo del computer. E proprio la critica alla proprietà intellettuale, in quanto strumento di mantenimento delle diseguaglianze sociali nel pianeta, è uno degli argomenti del movimento di contestazione alla globalizzazione economica. Lei che ne pensa?
Credo che gli hacker affermano cose simili a quelle sostenute da alcuni movimenti politici, come quello contro la globalizzazione economica. Ma tra di loro nessuno è contro la globalizzazione: ne propongono, semplicemente, un modello diverso da quello dominante: cioè, quello di un piccolo gruppo di persone che si arricchiscono sacrificando al profitto il resto del genere umano. Nel 1999, i tre uomini più ricchi del mondo, incluso quindi Bill Gates, possedevano più ricchezza dell'intero ammontare del prodotto interno lordo dei cinquanta paesi più poveri del pianeta, dove vivono, va ricordato, più di seicento milioni di persone. Sappiamo anche che i brevetti, o altri simili marchingegni, non sono una questione astratta che riguarda solo lo sviluppo di un buon software.
L'estensione massiccia della legislazione sulla proprietà intellettuale significa anche che molte persone nei paesi in via di sviluppo non possono accedere a medicine sottoposte a brevetti per i loro alti costi. Questo significa essere condannati a non poter cambiare il proprio destino solo perché le "informazioni critiche" non possono circolare liberamente. Inoltre, il movimento antiglobalizzazione si organizza usando la rete, cioè usa una "invezione" degli hacker. Questo non significa che gli hacker sono tutti politicizzati. E tuttavia, gli hacker hanno contribuito a creare un medium politico. Per anni gli hacker hanno aiutato molti dissidenti che vivono in paesi autoritari usando la Rete per far conoscere la condizione di vita in quesi paesi, una circolazione di informazioni che ha facilitato l'organizzazione di proteste contro la mancanza di libertà e l'oppressione in quelle realtà nazionali. Credo che la diffusione di Linux e di Internet accelererà quei mutamenti sociali e l'etica hacker della libertà svolgerà un ruolo da protagonista.

 

 

 

Il capitalismo industriale aveva nell'etica protestante del lavoro uno dei suoi pilastri. Ora alla società industriale sta subentrando l'"era dell'informazione", un modo di produrre ricchezza che mantiene molte delle caratteristiche del passato, ma che ne presenta altre "nuove", come dimostra il diffondersi dell'etica hacker. Per il giovane filosofo finlandese Pekka Himanen questa nuova etica prende congedo dallo spirito protestante di weberiana memoria per affermare una visione del lavoro dove si intrecciano gioco, creatività e alterità verso le gerarchie dell'impresa. Una etica "libertaria" che muove dalle esperienze della controcultura high-tech per abbracciare l'insieme delle attività produttive del capitalismo posfordista.
Pekka Himanen ha compiuto gli studi in Finlandia e con una laurea fresca in tasca si è trasferito in California, anzi a Berkeley dove attualmente insegna. Il suo libro L'etica hacker e lo spirito dell'era dell'informazione - Feltrinelli, pp. 172, L. . 25.000 - negli Usa è stato un piccolo caso editoriale, dopo le animate discussioni nella West Coast. (Se ne possono trovare echi recenti nel sito www.hackeretic.org). Vuoi per la tesi di fondo che esprime - la caduta tendenziale dell'etica protestante del lavoro -, ma sopratutto perché è costruito con quello spirito di cooperazione sociale che è alla base dell'etica hacker. Presenta infatti un prologo di Linus Torvald, il finlandese che ha elaborato il primo nucleo del sistema operativo per computer Linux, condiderato da gran parte degli osservatori come il software senza copyright che può cancellare l'egemonia di Bill Gates nell'informatica, e una postfazione di Manuel Castells, lo studioso di Berkeley che ha scritto una monumentale opera sull'"era dell'informazione" (ci sarà mai qualche editore italiano che tradurrà il suo The age of information?).
Himanen è provocatorio, dissacrante nel cogliere un mutamento nella concezione del lavoro che è sotto gli occhi di tutti. Alterità alla gerarchia, ricerca continua dell'innovazione, creatività come indice dell'appetibilità di un lavoro. Ma anche, e soprattutto, la capacità di rompere la distinzione tra tempo di vita e tempo di lavoro: per Himanen, infatti, nell'etica hacker il lavoro è gioco e quindi ci si diverte, poco importa se di giorno o di notte, di venerdì o di domenica. Ma è ingenuo nel considerare l'etica hacker come un virus che contagia tutto il corpo sociale senza incontrare resistenza. Quello che è certo, invece, è la funzionalità dell'etica hacker a un un modo di produrre la ricchezza che richiede flessibilità, creatività, condivisione e diffusione del sapere: ma sempre sotto padrone. In altri termini, una volta individuata una tendenza, quella stessa tendenza va articolata con i rapporti sociali dominanti, pena la sua riconduzione a un quadro di compatibilità.
Pekka Himanen sarà oggi Milano - ore 10 al Palazzo della Triennale - per presentare il suo libro. Per intervistarlo, lo strumento usato è stata Internet. Come da manuale, fino all'invio finale che sovverte, creativamente, le domande, imboccando una strada che conduce lontano, più o meno alla natura conflittuale e non pacificata della società dell'informazione.
Nella concezione weberiana, il lavoro è sacrificio. Per gli hacker è diverso. O ci si diverte o non vale la pena lavorare. Questa attitudine al divertimento, alla creatività sta, secondo lei, minando l'etica protestante del lavoro. Può spiegare cosa intende?
Per prima cosa, vorrei partire da un chiarimento, tanto più necessario perché molti lettori di giornali o telespettatori quando leggono o sentono parlare di crimini informatici, sentono definire inevitabilmente i responsabili di tali atti hacker. Ma si tratta di un errore. Quando venne coniato il termine hacker, più o meno alla metà degli anni Sessanta, il riferimento era a persone che programmavano i computer. Lo facevano con passione e con la stessa passione condividevano i risultati raggiunti con altre persone. Non avevano quindi nulla a che fare con i crimini informatici, che d'altronde sono un fenomeno che inizia a partire da metà degli anni Ottanta. Per un vero hacker, essere definito con quel termine equivaleva a essere insignito di un titolo onorifico. Per questi motivi, gli hacker hanno sempre sostenuto che chi scrive virus per computer o chi si introduce, per distruggerli, nei sistemi informatici è un cracker. Ed ora arriviamo alla sua domanda.
Le nostre vite sono ancora largamente governate da un'etica protestante del lavoro. Con questa espressione intendo il fatto che il lavoro, qualsiasi esso sia, deve essere considerato il fattore più importante nella vita di una persona. Questo modo di intendere il lavoro non riguarda solo i protestanti, perché è un'etica del lavoro che plasma tutti i paesi industriali, gli Stati uniti come l'Italia, la Germania come il Giappone. Per Weber, la sofferenza nel lavoro è un fatto nobilitante. Gli hacker sono invece convinti che la loro vita debba ruotare attorno a una loro passione, a un loro desiderio. Questo è l'ethos che ha consentito la creazione del personal computer e di Internet al punto che sono diventati le basi tecnologiche delle società attuali. Un ethos espresso da un eterogeneo gruppo di persone che ha perseguito con determinazione la propria "visione" della tecnologia e che comprende personaggi come Steve Wozniak, l'uomo cioè che ha fondato la Apple, o Tim Berners-Lee, "il padre del web". Ora stiamo assistendo alla graduale duffusione di questo "visione" del lavoro dalla "comunità" dei programmatori ad altri settori produttivi. Si è hacker se si ha una relazione appassionata con il proprio lavoro, cioè se si prova piacere nel farlo. Molti operatori dell'informazione, ingegneri, manager, progettisti, lavoratori nei media hanno questa "visione desiderante" del proprio lavoro. Detto questo, c'è però un fattore che bisogna sempre considerare. Se lavori per ricevere un salario e non trovi altra motivazione se non quella di essere pagato, allora non puoi considerarti un hacker, anche se svolgi diligentemente la tua mansione.
Lei sostiene che l'etica hacker non è necessariamente anticapitalista. Cita il caso di alcuni di loro che hanno fatto gli imprenditori per alcuni anni, accumulando un bel po' di denaro, poi hanno mollato tutto e hanno ripreso a fare gli hacker. Tutto questo fa pensare che l'etica hacker punti a costruire un mondo parallelo dove poter sperimentare forme di vita alternative a quella dettata dall'etica protestante. Ma è proprio così?
Certo che sì. L'etica hacker è un fenomeno cresciuto parallelamente all'affermazione dell'era dell'informazione. In questo senso, sta al modo di produrre la ricchezza attuale come l'etica protestante stava alla società industriale. Mi spiego meglio. Nella società industriale c'erano lavori che non erano per niente amati. C'era quindi bisogno di un'etica del lavoro che affermasse il fatto rappresentasse un fine in sé e che rimuovesse, cioè cancellasse, domande imbarazzanti del tipo: "sto usando il mio tempo per qualcosa che ha un reale significato per me e che mi dà una reale opportunità per la mia realizzazione?". Ma nell'era dell'informazione, l'ultima risorsa per la crescita, anche per quella economica, è la creatività. E non puoi essere creativo se non fai qualcosa che ti appassioni, che abbia le dimensioni del gioco...
La ragione principale che mi fa parlare di etica hacker non riguarda però una dimensione economica. Ha a che fare, lo ripeto, con l'ethos emergente nella società dell'informazione. Penso che lo spirito protestante del capitalismo abbia fatto ruotare la vita sociale attorno al lavoro e al denaro. Secondo Calvino e Max Weber, chi lavora duramente è un eroe. L'azimut di questa "visione" del lavoro è negli stereotipi dell'eroe del lavoro sovietico e del manager occidentale con le maniche della camicia arrotolate.
D'accordo, ma anche nel suo libro, lei sostiene che lo spirito del capitalismo è ancora dominante. Allora, forse, ci troviamo di fronte a un paradosso: gioco, creatività, condivisione del sapere, il lavoro come cooperazione sociale, ma poi il mondo continua nella stessa maniera. In che rapporto sta il capitalismo reale con l'etica hacker?
Veniamo all'altro pilastro dell'etica protestante, cioè il denaro. Sicuramente, quando Max Weber scriveva i suoi libri il denaro vi svolgeva un ruolo importante, nei termini che la massimizzazione del guadagno era un fine in sé. L'etica hacker è, a suo modo, una critica radicale alla massimizzazione del profitto propria del capitalismo. Fin dai loro esordi, infatti, gli hacker hanno messo l'accento sulla condivisione dell'informazione. Molti di loro, infatti, e penso ad esempio a Linus Torvald, affermano che il denaro non è l'obiettivo primario. Anche nel testo presente nel mio volume, Linus sostiene che il motivo che lo spinse a creare Linux non era di arricchirsi, ma fare qualcosa di divertente con altre persone. Questo perché molti hacker considerano le loro "creazioni" come artefatti che liberamente ognuno può usare, modificare, migliorare. Il fatto che il denaro non occupi un posto centrale nella loro vita e che l'arricchimento personale non rappresenti un modello di comportamento spiega il successo di sistemi operativi come Linux o come la Rete. Ovvero: quando cominci una cosa senza il pensiero di come farci un business, sei mosso dalla passione di realizzarla e di voler condividere il risultato con altre persone e che da quel risultato ti aspetti il riconoscimento dei tuoi pari. L'autorealizzazione e il riconoscimento sociale sono, ovviamente, ampiamente studiate in psicologia per la loro indubbia forza nel motivare le persone. Bene, quando noi consideriamo questo processo in una prospettiva sociale, possiamo trovarvi la stessa dinamica dello ricerca scientifica: per molto tempo, gli scienziati e i ricercatori hanno considerato le loro scoperte come "libere", scoperte che potevano essere usate, criticate, sviluppate da chiunque fosse interessato. Gli hacker applicano questo modello di diffusione del sapere al software. Se poi ci tiri fuori dei soldi, tanto meglio, ma non è la massimizzazione del profitto che è alla base dell'etica hacker.
Condivisione del sapere, critica al copyright, opposizione alla proprietà intellettuale. Sono questi alcuni degli elementi distintivi dello spirito hacker. Eppure la privatizzazione del sapere, la tutela del copyright e la difesa a oltranza del diritto proprietario delle imprese sul sapere sono le linee guida di molti governi e di organismi sovranazionali come il Wto. Questi due modi di intendere il sapere sono già in rotta di collisione, provocando continui conflitti su Internet e nel mondo fuori lo schermo del computer. E proprio la critica alla proprietà intellettuale, in quanto strumento di mantenimento delle diseguaglianze sociali nel pianeta, è uno degli argomenti del movimento di contestazione alla globalizzazione economica. Lei che ne pensa?
Credo che gli hacker affermano cose simili a quelle sostenute da alcuni movimenti politici, come quello contro la globalizzazione economica. Ma tra di loro nessuno è contro la globalizzazione: ne propongono, semplicemente, un modello diverso da quello dominante: cioè, quello di un piccolo gruppo di persone che si arricchiscono sacrificando al profitto il resto del genere umano. Nel 1999, i tre uomini più ricchi del mondo, incluso quindi Bill Gates, possedevano più ricchezza dell'intero ammontare del prodotto interno lordo dei cinquanta paesi più poveri del pianeta, dove vivono, va ricordato, più di seicento milioni di persone. Sappiamo anche che i brevetti, o altri simili marchingegni, non sono una questione astratta che riguarda solo lo sviluppo di un buon software.
L'estensione massiccia della legislazione sulla proprietà intellettuale significa anche che molte persone nei paesi in via di sviluppo non possono accedere a medicine sottoposte a brevetti per i loro alti costi. Questo significa essere condannati a non poter cambiare il proprio destino solo perché le "informazioni critiche" non possono circolare liberamente. Inoltre, il movimento antiglobalizzazione si organizza usando la rete, cioè usa una "invezione" degli hacker. Questo non significa che gli hacker sono tutti politicizzati. E tuttavia, gli hacker hanno contribuito a creare un medium politico. Per anni gli hacker hanno aiutato molti dissidenti che vivono in paesi autoritari usando la Rete per far conoscere la condizione di vita in quesi paesi, una circolazione di informazioni che ha facilitato l'organizzazione di proteste contro la mancanza di libertà e l'oppressione in quelle realtà nazionali. Credo che la diffusione di Linux e di Internet accelererà quei mutamenti sociali e l'etica hacker della libertà svolgerà un ruolo da protagonista.

[A cura di Vecchi Benedetto]

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