Gli
hacker hanno un’anima,sono i pionieri del futuro
In
L'Etica hacker, l'esperto hi-tech Pekka Himanen difende i valori etici
dei pirati dei bit: "Un nuovo Calvinismo, la spinta spirituale
per l'avvenire". E conia un nuovo termine: la Netica.
No, il termine hacker non indica soltanto, come generalmente si pensa,
i pirati informatici che saccheggiano le banche dati e che si divertono
a progettare i micidiali virus moltiplicati dalla posta elettronica.
Quelli in realtà, nel gergo degli addetti ai lavori, si chiamano
cracker, tiene a precisare Pekka Himanen, esperto internazionale di
nuove tecnologie che in L'etica hacker (appena uscito in Italia per
Feltrinelli) ha raccontato il nuovo paradigma culturale destinato ad
affermarsi nell'era dell'informazione.
"Gli hacker furono un gruppo di appassionati programmatori del
Mit che scelsero per sé questo nome alla fine degli anni 60.
Erano in un certo senso dei ribelli, ma non dei sabotatori. A loro dobbiamo
la nascita del modem, per esempio, e anche Internet nella sua forma
attuale."
In che modo nacque la Rete?
"Il progenitore della Rete fu Arpanet, naturalmente, ma all'inizio
si trattò di un progetto del Dipartimento della Difesa americano
creato per condividere tra pochi utenti informazioni estremamente riservate.
Fu solo quando entrarono nel progetto alcuni giovani ricercatori universitari
che le cose cambiarono e fu adottato il modello open source, in cui
la partecipazione era aperta a tutti e ognuno veniva chiamato a contribuire
con le proprie idee."
Il modello open source come idea di condivisione delle informazioni
rappresenta non soltanto una risorsa tecnologica ma anche il fulcro
dell'etica hacker. Perché l'ha definito "una sfida spirituale"
dei nostri tempi?
"Perché presuppone nuovi valori etici. Quelli calvinisti
che hanno sorretto il capitalismo sono ormai in declino, anche per una
questione statistica: i due terzi dei nuovi posti di lavoro che si creano
sono legati all'informazione."
E in che cosa l'etica hacker del lavoro si differenzia da quella calvinista?
"L'etica tradizionale esaltava il lavoro come un fine in sé,
perché doveva giustificare lavori monotoni o poco motivanti.
Invece l'etica della Rete, la 'netica', pensa che il lavoro debba essere
innanzitutto ispirazione e passione, l'ambito della propria realizzazione
creativa. Il denaro non è più il primo movente, e anche
la distinzione tra lavoro e piacere perde significato. Solo su questi
presupposti può prosperare l'open source, che non mira più
a proteggere la proprietà intellettuale per sfruttarla, ma la
mette sempre in comune."
In tempi recenti, il frutto più famoso dell'open source è
senza dubbio Linux, ideato da uno studente ventiduenne e incessantemente
perfezionato dai programmatori di tutto il mondo. Pensa che riuscirà
a soppiantare Windows come sistema operativo più diffuso del
pianeta?
"Credo proprio di sì. Linux è già leader in
un mercato fondamentale come quello dei siti web, dove lo usa oltre
il 30% dei programmatori. E poi il settore dei desktop dove predomina
Microsoft diventerà sempre meno importante: tra un anno i cellulari
supereranno i desktop come terminali per Internet, e Microsoft è
completamente tagliata fuori dalla telefonia mobile. Pensi che rivali
storici come Nokia ed Ericsson preferiscono allearsi tra loro piuttosto
che far entrare Microsoft. Inoltre sempre più oggetti di uso
comune, come forni e macchine del caffè, funzioneranno in futuro
tramite un sistema operativo: e c'è Linux, per esempio, nei modelli
più recenti delle pompe di benzina."
Ma il concetto dell'open source non comporta il rischio che informazioni
fondamentali finiscano nelle mani sbagliate?
"Esiste questo rischio, sì. Ma nell'open source ci sono
anche maggiori probabilità che il sistema riesca a sviluppare
da solo i propri anticorpi. E almeno non rischierà mai di generare
falsi sensi di sicurezza."
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