Il feticcio veglia sul divieto

In questo articolo vogliamo trattare di un aspetto centrale della vita quotidiana di tutti noi, di un dettaglio che, nel bene e nel male, più o meno vistosamente influenza non solo i comportamenti, ma anche le modalità dell’attività immaginativa: il feticcio della merce.
L’argomento, in effetti, presenta delle difficoltà particolari, giacchè con questo termine si identificano aspetti e momenti apparentemente differenti, ma che hanno nell’attenzione morbosa nei confronti della merce il loro minimo comun denominatore.
Anche solo a citare alcuni esempi tratti a caso si riesce ad avere immediatamente un’idea della complessità dell’argomento: la teoria del feticismo delle merci in Marx, il feticismo erotico, le diverse modalità della religiosità africana, il collezionismo, il Grande Magazzino, il Museo, i Passages, i nuovi materiali,ecc.,e poi ancora Freud, Benjamin, Baudrillard, Mc.Luhan e via dicendo.
In questo articolo, pur con le semplficazioni necessarie al caso, si cercherà di percorrere trasversalmente il tema in questione, cercando di esporre in sintesi e le teorie e l’ambito storico dal quale, per la prima volta in misura così estesa, è emersa così importante un’attenzione tutta particolare nei confronti della merce.
Non è un caso difatti che proprio Karl Marx sia stato il primo economista a soffermarsi organicamente sull’argomento. Egli, attento osservatore del secolo in cui visse, non poteva di fatto far altro che registrare ciò che, sotto i propri occhi, stava accadendo nel sociale. Complessivamente la merce, nel periodo che va dal 1830 al 1860, cioè nel primo periodo vittoriano, subisce delle modificazioni sostanziali rispetto a quanto e a come essa fosse anche solo cinquant’anni prima.
1) la merce non può essere più concepita senza la custodia, l’esistenza naturale della merce si trasforma in un qualcosa di culturale;
2) la merce assume, a livello di fruizione immaginativa nell’utente, una dimensione fantasmagorica; è ciò che permette il rimando, il rinvio, l’estensione del ruolo simbolico che la merce comporta a tutta la complessità dei rapporti sociali;
3) il luogo concreto, pubblico, di fruizione della merce diventa il Grande Magazzino, dove si sintetizzano alcune altre nuove qualità della merce stessa quali l’immediata reperibilità, il suo sostanziale cosmopolitismo e quindi il prezzo fisso.
In effetti ad ognuna di queste nuove qualità della merce corrispondono simmetricamente reali modificazioni avvenute nel gusto sociale dell’epoca, ogni modificazione della merce segnala quindi un mutamento dell’immaginario collettivo del periodo. La cosa che ci fa interessare in particolare a questo periodo storico, è però dato dal fatto che queste mutazioni sono elementi che rimarranno permanenti nello sviluppo storico, sono cioè le medesime determinazioni che ci ritroviamo pari pari ancor oggi.

1) LA MERCE COMINCIA AD AVERE UNA CUSTODIA
Questo elemento sembrerebbe apparentemente non avere grande importanza, e difatti da molti storici del costume e dell’economia è stato relegato in angoli minori. Non così a noi sembra e ciò per delle ragioni molto precise. Basti vedere oggi, come ci indica giustamente Camporesi nella sua prefazione alla storia sociale degli odori di Courbin, come la merce e il cibo non possano essere più toccati, palpati, pregustati. Involucri di cellophane, scatole di alluminio impediscono all’acquirente ogni qualsivoglia contatto con ciò che vorrebbe acquistare. La mania, o per meglio dire il bisogno industriale di mascherare, avvolgere la merce è in effetti in questo secolo proprio dell’industria americana a cavallo tra le due guerre, ma l’origine, il primo diffondersi di ciò fu nell’Inghilterra Vittoriana. Iniziarono del resto, proprio in quel periodo, i rimi accorgimenti per denominare il materiale come prodotto da questa o quella fabbrica. In realtà già nella produzione di vasellame di qualità, come quello proveniente dalle fabbriche Wegdwood, incominciò ad applicarsi sul retro nascosto del manufatto simboli, marchi che indicassero l’origine e la data di fabbricazione della merce stessa. La svolta avvenne intorno agli anni trenta dell’800 quando si cominciò a siglare bene in evidenza, borse di pelle e valigie per signora. Fu l’inizio, da allora è stato un continuo progredire ed estendersi del marchio di fabbrica, tanto da divenire non solo, da una parte, simbolo di qualità ma dall’altra specificità aggiuntiva alla desiderabilità della merce stessa. Per tradurre questo discorso in moneta contante è un po’ come far riferimento ai vari Valentino, Armani e stilisti della moda, i quali grazie al loro sigillino riescono a garantire sul valore sociale della merce medesima.
Come osserva acutamente Walter Benjamin nel suo saggio su Parigi, l’invenzione di continue nuove forme concentriche che racchiudano gli oggetti, corrisponde ad una necessità psicologica dell’Ottocento. E’ propria di questo secolo, difatti, contemporaneamente allo stordimento che la metropoli provoca nel cittadino ( cfr. Il ruolo della folla nelle poesie di Baudelaire, o La dimensione quasi onirica del Flaneur ), la necessità di dover fare della propria casa il luogo di raccoglimento, impermeabile a ciò che accade al di fuori. Addirittura gli stessi debitori, pur ricercati dalla polizia, avevano diritto a non essere arrestati purchè essi di giorno fossero rimasti in casa propria. L’arresto (allora per debiti esisteva la possibilità dell’arresto) poteva avvenire solo in luoghi pubblici, come gustosamente ci segnala W. Thackeray nella sua Fiera della vanità. “ (…) La forma originaria di ogni abitare è il vivere non in una casa, ma in un guscio, questo reca l’impronta del suo abitatore. L’abitazione finisce per diventare guscio. Il XIX secolo è stato come nessun’altro morbosamente legato alla casa. Ha concepito la casa come custodia dell’uomo e l’ha collocato lì dentro con tutto ciò che gli appartiene così profondamente da far pensare all’interno di un astuccio per compassi in cui lo strumento è incastonato di solito in profonde scanalature di velluto viola con tutti i suoi accessori. E’ quasi impossibile trovare ancora qualcosa per cui il XIX secolo non abbia inventato una custodia: orologi da tasca, pantofole, uova, termometri, carte da gioco. E in mancanza di custodie, fodere, tappeti, rivestimenti e coperture”. (Parigi 290/291). In realtà nel XX secolo tutto ciò tende ad attenuarsi.La casa non viene più vissuta in questa maniera esclusiva, quasi morbosa diremmo, e già con lo Jugenndstil il concetto di guscio viene scosso in maniera quasi radicale. Ma l’origine storica dell’invenzione della custodia non può non gettare luce sul senso e sull’uso della custodia delle merci in questo secolo. La merce doveva essere posseduta, tenuta; l’assenza dell’oggetto doveva determinare una traccia nella custodia, e quindi essere subito notata. Noi crediamo, del resto, che ad ogni periodo storico negli ultimi due secoli di sempre maggiore dominio del Capitale, vi siano state corrispondenti modificazioni del gusto erotico dominante. E se quindi volessimo associare ad ogni periodo storico una determinata materia, che esemplifichi al meglio il senso nascosto del feticcio erotico di quello stesso periodo storico, non potremo far altro che associare all’ultima fase dell’ottocento proprio la materia velluto. Perché proprio il velluto, per le sue caratteristiche intrinseche, garantisce la visibilità immediata dell’assenza dell’oggetto amato, la sua mancanza. Già da questo primo orientarsi sul problema della merce nell’altro secolo, emergono nell’ombra alcuni tratti, alcune di una densità estremamente interessanti. E’ nell’interieur, nel luogo più nascosto della casa ottocentesca, avvolto da pesanti tendaggi color cremisi, verdone o porpora che trova la sua sede più confacente, più naturale la figura del collezionista. Ed è altrettanto simmetricamente che, proprio sul materiale velluto, vengono a fissarsi le prime figure storiche del feticcio erotico. Affrontiamo il tema partendo da quest’ultimo aspetto. E’ vero che casi feticismo erotico sono segnalati nella storia della letteratura e del costume perlomeno già a partire dal primo settecento (basti pensare alla passione per le calzature di Retif de la Bretonne, o ai casi di Thevenard- grande attore di opera del ‘700- o a Luigi XIV) ma è altrettanto vero che solo nell’ottocento questa passione assume un rilievo di massa. Per dare un esempio probante di quanto ciò fosse vero, basti far riferimento a Psicopatia sexualis di Krafft-Ebing, opera scritta nella sua prima edizione verso il 1880, e quindi più significativa per la mole dei materiali dell’altro secolo che essa ci porge. Ed è ancor più significativo notare che il velluto, nella casistica citata, gioca un ruolo centrale, ruolo che solo col mutare della moda femminile verrà relegato in second’ordine. In particolare possiamo dire che a partire dal secondo dopoguerra la centralità del velluto verrà sostituita dal materiale pelle/cuoio, dopo esser passata per l’intramontabile seta, e poi via via le materie sintetiche quali nylon, ecc. La figura ottocentesca del collezionista si ritaglia pressoché completamente su quella più nota del collezionista. Come è noto le mode del collezionare oggetti, che proprio nell’essere collezionati, diventano particolari, sono mutevoli di secolo in secolo: nel 1700 ad esempio si raccoglievano orologi o meccanismi di precisione di ogni genere, quali automi o bambole meccaniche. Nell’800 questa passione muta di oggetto e si ramifica anche negli strati ascendenti della borghesia commerciale. Come riferisce Thackeray alle dame a cui si faceva la corte, ma anche solo per pura galanteria, si regalavano lunghe paia di guanti. Vi fu poi la mania sociale del regalare tazze, tanto che tra tutti i ceti sociali, dal re fino alle cameriere, i regali fatti erano rigorosamente preziosi servizi di tazze da the. A fine 800, per le classi alte, come emerge in Huysmans o in Oscar Wilde, la passione si sposta sul possesso di una vasta e scintillante raccolta di pietre preziose. Ma al di là delle più diffuse manie collezioniste diffuse nei vari periodi storici, quali possono essere le peculiarità significative desumibili dalla figura sociale del collezionista, utili poi alla nostro analisi sul feticcio della merce? A questo proposito l’analisi condotta da Benjamin in Parigi ed E. Fuchs risulterà estremamente stimolante. Egli difatti si sofferma su alcuni tratti che vale la pena qui di riprendere. La prima osservazione è che, in una collezione, ogni oggetto si trova in rapporto con altri oggetti, e soprattutto che in ogni oggetto il collezionista rilegge non solo il passato dell’oggetto, ma anche quello del periodo complessivo da cui esso proviene. Il collezionista tocca il proprio oggetto, lo gira, lo pulisce, lo interroga: ha un rapporto assolutamente tattile con la propria raccolta. Nel collezionare egli attua, cioè, una sorte di attivazione del meccanismo di accesso alla memoria involontaria, una memoria che può anche nascere dagli oggetti, come accadde, per altro verso, allo stesso Proust con le sue madelaines. Ma il collezionista, nel fare tutto ciò, ribalta le stesse categorie tradizionali del suo corpo nell’interpretare la storia. Ricerca cioè una nuova filosofia della storia e del tempo proprio grazie ai suoi oggetti, gli oggetti sono lo strumento per reinterpretare il mondo. Il collezionista in questo modo cerca di ritrovare un ordine nella casualità, la sua mente è da ordinatore, nella metafora del tutto. Ma la figura del collezionista diventa ancor più importante nella nostra analisi, allorquando la consideriamo nel momento in cui, soffermandosi sull’oggetto della propria raccolta, vive un momento di sogno. Giacchè proprio in quel momento la sua esperienza vissuta diviene talmente alterata da farlo sobbalzare, in modo sentito, ad ogni cosa, che dovesse accadergli in quegli attimi. Viene qui fatto, perciò, il collegamento essenziale tra merce –passando per la figura mediatrice del collezionista- e sogno, momento onirico d’incantamento e quindi anche di stacco dal reale, di reverie, di fantasticheria ad occhi aperti. Crediamo adesso risulti più comprensibile perché la prima definizione che viene in mente parlando di BenJamin, sia poi quella di merce come fantasmagoria.
2) LA MERCE COME FANTASMAGORIA IMMAGINATIVA
La prima qualità della merce come custodia ci garantisce l’acquisizione di alcuni elementi che ritroveremo ben presenti anche nella seconda figura: la merce come fantasmagoria. Precedentemente siamo riusciti a trarre una prima definizione-chiaramente provvisoria- di feticismo della merce. Esso dev’essere dapprima inteso come attività fantasticante, una sorta di reverie sulla merce. Osservando più da vicino la figura da collezionista abbiamo poi determinato le modalità che declinano questa reverie sulla merce. Questi si caratterizza per una nuova attività simbolizzante che si concentra spasmodicamente sugli oggetti, tanto da far stabilire una nuova filosofia della storia. Si attiva una memoria involontaria, alla semplice consistenza tattile. E, in sede di sintesi ulteriore, il sogno diventa esperienza vissuta, ma soprattutto accettata come tale. Forti di queste prime conclusioni, si può con ben più ferrati strumenti analitici affrontare la seconda determinazione della merce. Premettiamo che per fantasmagoria della merce s’intende essenzialmente un processo di continua focalizzazione- sfocalizzazione dell’oggetto/immagine desiderato. Interviene una sorta di avvicinamento e allontanamento continuo dell’oggetto, tale da irretire completamente l’utente. Questi si viene così a trovare in una complessa rete di significati. Ma sono le differenti qualità, a far aumentare il valore simbolico nella fruizione dell’utente. Una domanda sorge immediata: perché la merce determina un tale processo fantasmagorico e desiderante nei soggetti sociali? Per darvi risposta penso sia importante far riferimento ancora una volta alle teorie espresse da Benjamin, per come esse sono deducibile dal corpus completo dei suoi scritti. Benjamin, in effetti, come già parzialmente è emerso nella prima parte di questo lavoro, è stato uno dei primi archeologi urbani dell’epoca del moderno. In questo senso si deve leggere il monumentale accorparsi di citazioni intorno a figure cardine del moderno stesso quale ad esempio i Passages. Il punto centrale da cui il nostro autore muove le fila del proprio discorso, è sicuramente l’avere concepito la realtà metropolitana come insieme di choc continui, di una realtà che viene vissuta sempre all’interno di un dimensione di frammentazione continua del tessuto esperienziale. In realtà il suo atto di accusa si rivolge in principal luogo alla tecnica, identificata come strumento principe del processo di derealizzazione del mondo. La tecnica, cioè, è lo strumento che viene ad impedire all’uomo moderno la piena presa di possesso del mondo circostante. L’uomo si trova così ad essere disorientato, ma anche devitalizzato nel suo contatto col mondo. Il rapporto del soggetto coll’oggetto viene quindi a modificarsi radicalmente, e questo sia sul piano della teoria della conoscenza e, sia, d’altra parte, come interiorizzazione di ciò che egli vive nel mondo. In sintesi la modificazione dell’approccio complessivo nei confronti del mondo da parte del soggetto, non può essere definita solamente come cambiamento transitorio, ma più profondamente come mutazione antropologica- irreversibile-, la quale, comunque, ha una sua origine storica sia sul piano temporale che su quello geopolitico. Se la realtà metropolitana deve essere giustamente intesa come insieme di choc continui, a cui il soggetto metropolitano viene sottoposto, allora per choc si intenderà e l’urto evitato dal soggetto nella strada e tra la folla così come la merce desiderata che si sa non si potrà mai possedere, o in sintesi qualsiasi altro atto o gesto in cui il soggetto attiva (o viene attraversato da) proiezioni desideranti, impossibili a concretizzarsi se non fantasmaticamente. E’ questa –come ben si capisce- la struttura fondante i rapporti metropolitani, e al contempo la struttura di desiderio attivata nei confronti della merce. Inevitabilmente una situazione di questo tenore va ad attivare continui rimandi simbolici, all’interno dei quali il soggetto si trova ad essere agito dai significati. Più profondamente questo processo di rimando continuo, che va coerentemente ad istituirsi su una base formata da catene associative e memoria involontaria (cfr. è lo schema/pattern utilizzato dalla pubblicità), va ad aprire un nuovo spazio all’interno del quale il soggetto metropolitano si trova a fantasticare. Questo nuovo spazio viene classificato da Benjamin come spazio mitologico, momento del mito. A questo punto sarebbe necessaria una digressione su questo problema per chiarire meglio alcuni fondamentali aspetti presenti in esso, ma la complessità dell’argomento ci costringerebbe ad allungare ulteriormente questo lavoro. Comunque col termine mito, in sintesi, Benjamin intende quel qualcosa che nasce nel rapportarsi del soggetto, dell’uomo, con qualsivoglia elemento che è posto al di là della propria intenzionalità. Laddove cioè non è comportata una prassi trasformativa del soggetto sociale, viene ad attivarsi un processo di metaforizzazione del reale, di gioco simbolico di rinvio, di allontanamento fantasmagorico del reale stesso. E’ chiaro, al contempo, che tutta questa analisi sul mito che permea l’analisi benjaminiana, viene da egli stesso ancorata ad un piano di disamina storica. E’ quindi anni luce distante dalle contemporanee analisi di Ludwig Klages, o altri pensatori reazionari, che nel mito identificavano un piano di analisi posto al di là del problema storico, ontologico quindi. A questo punto è però giusto riprendere il tema principale di questo lavoro, e cercare di definire una prima topica della soggettività del moderno, che tenga conto della modificazione antropologica intervenuta a cavallo tra il XIX e il XX secolo. Il mutamento delle condizioni di vivibilità della metropoli, l’uso sempre più derealizzante della tecnologia e quindi l’estendersi del piano simbolico delle relazioni sociali prodotto dall’universo delle merci, hanno inevitabilmente prodotto con sé un estendersi della trasformazione antropologica. E’ quindi arrivato il momento- per quanto sia difficile concretizzare in analisi- di estendere le intuizioni teoriche fatte nel contesto del paragrafo sul feticismo delle merci e nel primo quaderno del Grundrisse. Bisogna cercare cioè di approdare ad una concreta fenomenologia del soggetto sociale, che ponga come proprio punto di partenza il dato dell’inversione, che automaticamente viene a scattare nella società capitalistica, allorquando cioè i rapporti sociali tra produttori vengono percepiti alla stregua di rapporti causali. Duplicazione del pensiero, la società vista nel suo insieme come estensione di rapporti simbolici, reificazione di tutti i rapporti sociali determinata dall’estendersi del comando capitalista, sono alcune delle grandi intuizioni marxiane. Credo, però, a questo punto, che sia corretto integrare questa analisi con quanto si può dedurre dall’analisi del moderno svolta da Benjamin. ) IL CORPO
Si è alterato irrimediabilmente il rapporto tra soggetto e oggetto. Il soggetto non appare più come attore capace di trasformare il reale, così come ci era tramandato dalla tradizione della filosofia classica, mentre viceversa appare sempre un soggetto poroso, che viene attraversato dalle cose, dagli avvenimenti: terminale finale di relazioni simboliche che non va soggettivamente a determinare in alcun momento. Si assiste in pratica ad uno sprofondamento dell’oggetto da parte del soggetto, il quale da parte sua diventa sempre più estraneo al proprio corpo. Il corpo sfugge all’uomo, e non credo che possa essere inficiata questa intuizione dalle conclusioni di Mc. Luhan intorno all’estensione della sensibilità umana, che avverrebbe con i nuovi media.
2.1.2) Emerga al contempo- tanto che la si può definire- una nuova logica dello sguardo che, soprattutto nella metropoli è sostanzialmente sguardo che non vede, che non è attento (cfr. D.H.Lawrence: Il serpente piumato). Esso è solo sguardo funzionale all’autoconservazione, ad evitare choc, non ad altro. Si segnala perciò un’alterazione del rapporto vicinanza/lontananza. Tutti gli oggetti appaiono irrimediabilmente in primo piano, toccabili, anche se poi nella realtà essi tendono a sfuggire fantasmaticamente al primo serio tentativo di contatto. L’approccio fotografico, poi, ha determinato un trauma irreversibile nella modalità di approccio al reale. Emerge come inevitabile -da tutto ciò- il predominio del senso tattile, sia nell’approccio nei confronti delle riproduzioni artistiche ( ormai maneggiate come fossero cartoline), sia nei confronti del quotidiano, e delle forme erotiche moderne del quotidiano( prima il feticismo del pizzo, poi del velluto, la seta, il nylon, la pelle, oggi il PVC).
2.1.3) Questa ricostruzione intorno al predominio del tattile (crf. La storia dell’arte antica di Riegl) è tanto più credibile se,come giusto, essa viene associata alla considerazione dello spazio metropolitano e dello spazio dell’interno borghese. Lo spazio è sempre più affollato da oggetti. Conseguentemente la categoria estetica più esplicativa della metropoli diventa quella del KITSCH, dove l’accumulo di stili diversissimi tra loro è proporzionale alla diversità degli oggetti presenti in un determinato spazio. Ma il kitsch è anche la categoria più significativa utilizzabile per spiegare la politica (quella con la p maiuscola) e la sua mancanza di stile (cfr. I rituali nazisti), perché in effetti da almeno sessant’anni siamo entrati in una fase di estetizzazione assoluta della dimensione politica. O anzi per essere più precisi vi è stata la sostituzione con l’estetica( come teoria della sensibilità in tutte le sue più variegate manifestazioni) alle varie filosofie della storia.
2.1.4) Il soggetto del moderno è quindi la sintesi di una molteplicità di atti bloccati, mancati, di desideri non realizzati, non realizzazione di obiettivi programmati. Questa mancanza, reiterata all’infinito, inevitabilmente non fa che aprire uno spazio produttivo d’immagini simboliche, dove la realtà viene rielaborata a livello rimemorativo-fantastico, in sintesi su un piano di carattere mitico.
2.1.4.1) La merce per eccellenza, quella che poi diventa status- symbol, non può non rientrare all’interno di questo discorso. Gli status- symbols sono merci e quindi periture, ma usate al posto del denaro. In una fase come questa di crescita relativa della ricchezza sociale in tutte le classi, risulta necessaria l’affermazione di una merce che sia deperibile, e quindi mutevole come il suo valore. Sta al posto del denaro, e viene mostrato in sua vece. Ed ecco come definisce Marx le qualità del denaro: “ Durevolezza, inalterabilità, divisibilità e ricomponibilità, trasportabilità relativamente facile in quanto racchiudono un valore di scambio massimo in un minimo spazio: tutto ciò rende i metalli nobili particolarmente adatti” (Gr.109) per determinare quali siano le leggi economiche che presiedono all’instaurarsi di una merce quale status- symbol a mio avviso basta invertire la definizione data da Marx a proposito della merce danaro. Non è forse la merce rappresentativa dello status sociale acquisito e come tale assolutamente transitoria, alterabile, difficile o con vistosa trasportabilità, non divisibilità della stessa?
2.1.4.2) La distrazione, più nel concreto è il paradigma più significativo per dar conto della modificazione sensibile avvenuta nel moderno. Ciò rimanda a quanto prima si diceva del cambiamento del modo di guardare avvenuto a cavallo do secolo, ma indubbiamente essa rappresenta la peculiarità più tipica della modalità quotidiana di vita del soggetto metropolitano attuale.
2.2.) LO SPAZIO
Accanto alla modificazione ormai avvenuta, e di cui si è già parlato, del rapporto vicinanza/lontananza, la caratteristica della trasformazione percettiva dello spazio consiste nella costituzione di intermundia. E’ un dato di fatto che l’immagine non sia ormai più rapportabile all’originale da cui essa è tratta, la copia non è più riferibile a ciò da cui è derivata. E con questa un’ennesima categoria del pensiero classico viene automaticamente a cadere, ma questo sta a significare anche che il mondo dell’immagini (L’iconosfera) va a costituire un mondo a parte che è il reale in cui oggi si vive. Lo spazio conseguentemente si definisce non più come spazio geometrico, ma come spazio vissuto distrattamente sfondo immaginativo, sfondo onirico, in cui viene intessuta la fantasticheria. Come Benjamin suggerisce, l’architettura della metropoli viene vissuta distrattamente, nessuno nella propria città si ferma ad osservare un luogo/monumento che gli è consueto percepire. E’ solo il turista che fa ciò, e sempre fino al momento in cui l’orientamento non gli parrà più un problema oggi lo spazio, l’intermundia ( coerentemente con quanto si diceva prima per il mondo delle immagini) dove la merce si situa più a suo agio, è proprio l’interiorità del soggetto..
2.3) IL TEMPO
A livello temporale, la percezione del nuovo soggetto metropolitano è, per essere precisi, una continua sensazione di ritorno del sempre uguale. Questa sensazione è data, in primo luogo, dall’osservare il ritorno sempre uguale a sé medesimo del ciclo della moda e della fruizione della merce, e soprattutto da una percezione di gelatinosità non solo nel constatare l’impossibilità di risolvimento delle proprie ansie profonde ( no future), ma anche la non possibilità di uno squarcio, di apertura verso una dimensione che superi l’opacità dato dalla casualità.
3) LA MERCE COME COSMOPOLITISMO CULTURALE
Dal discorso svolto nel paragrafo precedente abbiamo dedotto una serie di determinazioni che il dominio totale della merce va ad attivare nei soggetti metropolitani. Dall’assunto centrale che la vita metropolitana è la risultante di un insieme molteplice di continui choc, abbiamo tratto la convinzione che la vita, in questa fase storica è egemonizzata dall’orizzonte capitalistico, sostanzialmente si definisce come serie di atti mancati, o al più desideranti nei confronti di oggetto/persone/merci, i quali tendono inevitabilmente a scomparire al momento del tentativo di presa da parte del soggetto stesso. La definizione del rapporto soggetto- oggetto non può più essere percepita seguendo gli schemi filosofici propri della tradizione, giacchè tale rapporto è ormai risultato irrimediabilmente trasformato. In questo secondo paragrafo abbiamo perciò tentato di dare conto delle modificazioni che hanno inciso sul soggetto sociale. Intenzionamento nei confronti della merce, in questa ottica, è da noi considerata la struttura di rapporto desiderante più tipicamente moderna presente oggi nelle più varie articolazioni sociali. La merce considerata nella sua essenza come fantasmagoria sociale ci riporta perciò inevitabilmente al come vengono strutturati gli schemi del desiderio sociale, o, per usare altre parole, al come l’immaginario collettivo viene a costituirsi. Ad essere schietti il discorso fin qui esposto, che si condensa nell’affermazione che la merce è sostanzialmente un bisogno dell’immaginario, conduce ad una discussione teorica su uno dei punti chiave della teoria marxiana del valore, e cioè il concetto di valore d’uso. Non staremo qui ad affrontarlo, visto che per il momento ci basta porre l’accento perlomeno sull’esistenza del problema stesso. Ritornando all’alveolo principale del nostro percorso e cioè alle nuove determinazioni della merce, non si può non tener conto di un elemento. Avviene il processo desiderante nei confronti della merce, proprio perché essa è sempre disponibile, è sempre gettata in faccia al soggetto, prospettata con insistenza. La merce cioè ha il dono dell’ubiquità, tanto che anche in paesi ad economia arretrata si possono trovare le medesime merci del nostro orizzonte capitalistico (cfr. Il caso della Pepsicola). (E’ logico che ciò sia dovuto alle leggi di sviluppo dell’imperialismo, ma non staremo qui a soffermarci). L’ubiquità della merce nel mondo e il suo cosmopolitismo culturale corrisponde analogicamente ad un processo di interiorizzazione presente nel soggetto. Per desiderarla compiutamente il soggetto deve poter essere continuamente messo di fronte alla merce, ed essere investito da essa. La merce cioè deve anche essere immediatamente reperibile. In questo senso le testimonianze storiche sul sorgere dei Grandi Magazzini di novità a Parigi intorno al1860/1880, o prima ancora le Grandi Esposizioni Universali, iniziatesi guarda caso due tre anni dopo la Grande rivoluzione borghese, sul Campo di Marte, donano nuova luce. I Grandi Magazzini hanno saputo coniugare il bisogno immaginario della merce presente nelle masse con alcuni tratti archeologici ma fondanti l’epoca del moderno stesso. In primo luogo hanno saputo unire l’uso valorizzante della luce (cfr. all’opposto i piccoli bazar localizzati nei Passages) con l’estrema, ridondante varietà degli articoli. La merce è stata così presentata come un qualcosa disponibile per tutti, ma per fare questo è stato necessario prima imporre un nuovo elemento qualificante e discriminante: il prezzo fisso. Il prezzo fisso ha in effetti cambiato totalmente il rapporto esistente con la merce, permettendo l’installarsi del desiderio sempre più a livello profondo nel soggetto, laddove il censo non permetteva l’acquisto. E’ risaputo il caso di soggetti economicamente deboli che, dopo aver vagabondato nei Grandi Magazzini, fantasticando per ore sulle varie merci, alla fine se ne escono acquistando comunque qualcosa, seppur non quello per il quale tutto il processo desiderante era stato messo in moto. E’ questo un esempio terra-terra di come in effetti funziona il processo di costituzione del desiderio, della merce come fantasmagoria sociale. Anche sul piano più propriamente culturale (ma d’altronde la cultura non è forse propriamente merce?) si registrano preziose e inquietanti analogie. Il museo, come luogo di residenza stabilita della varietà culturale prodotta dall’umanità, risponde alla medesima logica. Non a caso i musei troveranno la propria istituzionalizzazione giusto nel XIX secolo. Ciò fu dovuto certamente a ragioni di prestigio da parte dei grandi stati imperialisti, ma anche fu riflesso di una potenza economica già in atto e dispiegata. L’origine del museo come istituzione risale al 5/600, quando esso veniva chiamato Wundercamera, camera delle meraviglie, e serviva ai regnanti e dotti del tempo sostanzialmente o come gabinetto per dimostrazioni scientifiche ma anche e più propriamente come luogo di meraviglia per i propri ospiti. Nella radice storica del museo, analogo a nostro avviso al museo delle merci che è il grande magazzino, è quindi compresa la dimensione onirica dell’accumulo, dell’unire insieme prodotti molto differenti tra loro. Giova forse citare qui a mo’ di divertimento come proprio nelle Wunder-Kamera facevano grande sfoggio di sé animali imbalsamati mostruosi, quali i basilischi (sorta di unione di sauri- volatili- pesci ). Il mostro, la meraviglia, l’onirico, stanno quindi alla radice storica della merce, così come essa è concepita e prodotta nel sistema capitalista. Il grande magazzino è quindi centrale al nostro percorso per due ordini d ragione.
a) È il luogo di accumulo indiscriminato della perversione sociale (cfr. le figure storiche del flaneur, del guardone o del feticista), perché luogo di fruizione immaginativa della merce stessa.
b) La reperibilità immaginativa della merce stessa è fondamentale per la sua stessa diffusione simbolica. La riflessione condotta fin qui sul moderno “storico” non può- ad occhio attento- non trovare particolare risonanze nell’oggi, e in questo senso ci limitiamo a suggerire la televisione come luogo odierno della presentazione delle merci. Il grande magazzino di oggi è la televisione. Riflettere sulle categorie del moderno (modificazione antropologica e nuova ridefinizione del soggetto sociale) ha perciò proprio il senso di fornire all’attualità alcuni strumenti concettuali, con i quali poter confrontare le diverse esperienze e quindi determinare le differenze strutturali nel frattempo intercorse nei soggetti sociali.

1) LA MERCE COMINCIA AD AVERE UNA CUSTODIA

Questo elemento sembrerebbe apparentemente non avere grande importanza, e difatti da molti storici del costume e dell’economia è stato relegato in angoli minori. Non così a noi sembra e ciò per delle ragioni molto precise. Basti vedere oggi, come ci indica giustamente Camporesi nella sua prefazione alla storia sociale degli odori di Courbin, come la merce e il cibo non possano essere più toccati, palpati, pregustati. Involucri di cellophane, scatole di alluminio impediscono all’acquirente ogni qualsivoglia contatto con ciò che vorrebbe acquistare. La mania, o per meglio dire il bisogno industriale di mascherare, avvolgere la merce è in effetti in questo secolo proprio dell’industria americana a cavallo tra le due guerre, ma l’origine, il primo diffondersi di ciò fu nell’Inghilterra Vittoriana. Iniziarono del resto, proprio in quel periodo, i rimi accorgimenti per denominare il materiale come prodotto da questa o quella fabbrica. In realtà già nella produzione di vasellame di qualità, come quello proveniente dalle fabbriche Wegdwood, incominciò ad applicarsi sul retro nascosto del manufatto simboli, marchi che indicassero l’origine e la data di fabbricazione della merce stessa. La svolta avvenne intorno agli anni trenta dell’800 quando si cominciò a siglare bene in evidenza, borse di pelle e valigie per signora. Fu l’inizio, da allora è stato un continuo progredire ed estendersi del marchio di fabbrica, tanto da divenire non solo, da una parte, simbolo di qualità ma dall’altra specificità aggiuntiva alla desiderabilità della merce stessa. Per tradurre questo discorso in moneta contante è un po’ come far riferimento ai vari Valentino, Armani e stilisti della moda, i quali grazie al loro sigillino riescono a garantire sul valore sociale della merce medesima.
Come osserva acutamente Walter Benjamin nel suo saggio su Parigi, l’invenzione di continue nuove forme concentriche che racchiudano gli oggetti, corrisponde ad una necessità psicologica dell’Ottocento. E’ propria di questo secolo, difatti, contemporaneamente allo stordimento che la metropoli provoca nel cittadino ( cfr. Il ruolo della folla nelle poesie di Baudelaire, o La dimensione quasi onirica del Flaneur ), la necessità di dover fare della propria casa il luogo di raccoglimento, impermeabile a ciò che accade al di fuori. Addirittura gli stessi debitori, pur ricercati dalla polizia, avevano diritto a non essere arrestati purchè essi di giorno fossero rimasti in casa propria. L’arresto (allora per debiti esisteva la possibilità dell’arresto) poteva avvenire solo in luoghi pubblici, come gustosamente ci segnala W. Thackeray nella sua Fiera della vanità. “ (…) La forma originaria di ogni abitare è il vivere non in una casa, ma in un guscio, questo reca l’impronta del suo abitatore. L’abitazione finisce per diventare guscio. Il XIX secolo è stato come nessun’altro morbosamente legato alla casa. Ha concepito la casa come custodia dell’uomo e l’ha collocato lì dentro con tutto ciò che gli appartiene così profondamente da far pensare all’interno di un astuccio per compassi in cui lo strumento è incastonato di solito in profonde scanalature di velluto viola con tutti i suoi accessori. E’ quasi impossibile trovare ancora qualcosa per cui il XIX secolo non abbia inventato una custodia: orologi da tasca, pantofole, uova, termometri, carte da gioco. E in mancanza di custodie, fodere, tappeti, rivestimenti e coperture”. (Parigi 290/291). In realtà nel XX secolo tutto ciò tende ad attenuarsi.La casa non viene più vissuta in questa maniera esclusiva, quasi morbosa diremmo, e già con lo Jugenndstil il concetto di guscio viene scosso in maniera quasi radicale. Ma l’origine storica dell’invenzione della custodia non può non gettare luce sul senso e sull’uso della custodia delle merci in questo secolo. La merce doveva essere posseduta, tenuta; l’assenza dell’oggetto doveva determinare una traccia nella custodia, e quindi essere subito notata. Noi crediamo, del resto, che ad ogni periodo storico negli ultimi due secoli di sempre maggiore dominio del Capitale, vi siano state corrispondenti modificazioni del gusto erotico dominante. E se quindi volessimo associare ad ogni periodo storico una determinata materia, che esemplifichi al meglio il senso nascosto del feticcio erotico di quello stesso periodo storico, non potremo far altro che associare all’ultima fase dell’ottocento proprio la materia velluto. Perché proprio il velluto, per le sue caratteristiche intrinseche, garantisce la visibilità immediata dell’assenza dell’oggetto amato, la sua mancanza. Già da questo primo orientarsi sul problema della merce nell’altro secolo, emergono nell’ombra alcuni tratti, alcune di una densità estremamente interessanti. E’ nell’interieur, nel luogo più nascosto della casa ottocentesca, avvolto da pesanti tendaggi color cremisi, verdone o porpora che trova la sua sede più confacente, più naturale la figura del collezionista. Ed è altrettanto simmetricamente che, proprio sul materiale velluto, vengono a fissarsi le prime figure storiche del feticcio erotico. Affrontiamo il tema partendo da quest’ultimo aspetto. E’ vero che casi feticismo erotico sono segnalati nella storia della letteratura e del costume perlomeno già a partire dal primo settecento (basti pensare alla passione per le calzature di Retif de la Bretonne, o ai casi di Thevenard- grande attore di opera del ‘700- o a Luigi XIV) ma è altrettanto vero che solo nell’ottocento questa passione assume un rilievo di massa. Per dare un esempio probante di quanto ciò fosse vero, basti far riferimento a Psicopatia sexualis di Krafft-Ebing, opera scritta nella sua prima edizione verso il 1880, e quindi più significativa per la mole dei materiali dell’altro secolo che essa ci porge. Ed è ancor più significativo notare che il velluto, nella casistica citata, gioca un ruolo centrale, ruolo che solo col mutare della moda femminile verrà relegato in second’ordine. In particolare possiamo dire che a partire dal secondo dopoguerra la centralità del velluto verrà sostituita dal materiale pelle/cuoio, dopo esser passata per l’intramontabile seta, e poi via via le materie sintetiche quali nylon, ecc. La figura ottocentesca del collezionista si ritaglia pressoché completamente su quella più nota del collezionista. Come è noto le mode del collezionare oggetti, che proprio nell’essere collezionati, diventano particolari, sono mutevoli di secolo in secolo: nel 1700 ad esempio si raccoglievano orologi o meccanismi di precisione di ogni genere, quali automi o bambole meccaniche. Nell’800 questa passione muta di oggetto e si ramifica anche negli strati ascendenti della borghesia commerciale. Come riferisce Thackeray alle dame a cui si faceva la corte, ma anche solo per pura galanteria, si regalavano lunghe paia di guanti. Vi fu poi la mania sociale del regalare tazze, tanto che tra tutti i ceti sociali, dal re fino alle cameriere, i regali fatti erano rigorosamente preziosi servizi di tazze da the. A fine 800, per le classi alte, come emerge in Huysmans o in Oscar Wilde, la passione si sposta sul possesso di una vasta e scintillante raccolta di pietre preziose. Ma al di là delle più diffuse manie collezioniste diffuse nei vari periodi storici, quali possono essere le peculiarità significative desumibili dalla figura sociale del collezionista, utili poi alla nostro analisi sul feticcio della merce? A questo proposito l’analisi condotta da Benjamin in Parigi ed E. Fuchs risulterà estremamente stimolante. Egli difatti si sofferma su alcuni tratti che vale la pena qui di riprendere. La prima osservazione è che, in una collezione, ogni oggetto si trova in rapporto con altri oggetti, e soprattutto che in ogni oggetto il collezionista rilegge non solo il passato dell’oggetto, ma anche quello del periodo complessivo da cui esso proviene. Il collezionista tocca il proprio oggetto, lo gira, lo pulisce, lo interroga: ha un rapporto assolutamente tattile con la propria raccolta. Nel collezionare egli attua, cioè, una sorte di attivazione del meccanismo di accesso alla memoria involontaria, una memoria che può anche nascere dagli oggetti, come accadde, per altro verso, allo stesso Proust con le sue madelaines. Ma il collezionista, nel fare tutto ciò, ribalta le stesse categorie tradizionali del suo corpo nell’interpretare la storia. Ricerca cioè una nuova filosofia della storia e del tempo proprio grazie ai suoi oggetti, gli oggetti sono lo strumento per reinterpretare il mondo. Il collezionista in questo modo cerca di ritrovare un ordine nella casualità, la sua mente è da ordinatore, nella metafora del tutto. Ma la figura del collezionista diventa ancor più importante nella nostra analisi, allorquando la consideriamo nel momento in cui, soffermandosi sull’oggetto della propria raccolta, vive un momento di sogno. Giacchè proprio in quel momento la sua esperienza vissuta diviene talmente alterata da farlo sobbalzare, in modo sentito, ad ogni cosa, che dovesse accadergli in quegli attimi. Viene qui fatto, perciò, il collegamento essenziale tra merce –passando per la figura mediatrice del collezionista- e sogno, momento onirico d’incantamento e quindi anche di stacco dal reale, di reverie, di fantasticheria ad occhi aperti. Crediamo adesso risulti più comprensibile perché la prima definizione che viene in mente parlando di BenJamin, sia poi quella di merce come fantasmagoria.
2) LA MERCE COME FANTASMAGORIA IMMAGINATIVA
La prima qualità della merce come custodia ci garantisce l’acquisizione di alcuni elementi che ritroveremo ben presenti anche nella seconda figura: la merce come fantasmagoria. Precedentemente siamo riusciti a trarre una prima definizione-chiaramente provvisoria- di feticismo della merce. Esso dev’essere dapprima inteso come attività fantasticante, una sorta di reverie sulla merce. Osservando più da vicino la figura da collezionista abbiamo poi determinato le modalità che declinano questa reverie sulla merce. Questi si caratterizza per una nuova attività simbolizzante che si concentra spasmodicamente sugli oggetti, tanto da far stabilire una nuova filosofia della storia. Si attiva una memoria involontaria, alla semplice consistenza tattile. E, in sede di sintesi ulteriore, il sogno diventa esperienza vissuta, ma soprattutto accettata come tale. Forti di queste prime conclusioni, si può con ben più ferrati strumenti analitici affrontare la seconda determinazione della merce. Premettiamo che per fantasmagoria della merce s’intende essenzialmente un processo di continua focalizzazione- sfocalizzazione dell’oggetto/immagine desiderato. Interviene una sorta di avvicinamento e allontanamento continuo dell’oggetto, tale da irretire completamente l’utente. Questi si viene così a trovare in una complessa rete di significati. Ma sono le differenti qualità, a far aumentare il valore simbolico nella fruizione dell’utente. Una domanda sorge immediata: perché la merce determina un tale processo fantasmagorico e desiderante nei soggetti sociali? Per darvi risposta penso sia importante far riferimento ancora una volta alle teorie espresse da Benjamin, per come esse sono deducibile dal corpus completo dei suoi scritti. Benjamin, in effetti, come già parzialmente è emerso nella prima parte di questo lavoro, è stato uno dei primi archeologi urbani dell’epoca del moderno. In questo senso si deve leggere il monumentale accorparsi di citazioni intorno a figure cardine del moderno stesso quale ad esempio i Passages. Il punto centrale da cui il nostro autore muove le fila del proprio discorso, è sicuramente l’avere concepito la realtà metropolitana come insieme di choc continui, di una realtà che viene vissuta sempre all’interno di un dimensione di frammentazione continua del tessuto esperienziale. In realtà il suo atto di accusa si rivolge in principal luogo alla tecnica, identificata come strumento principe del processo di derealizzazione del mondo. La tecnica, cioè, è lo strumento che viene ad impedire all’uomo moderno la piena presa di possesso del mondo circostante. L’uomo si trova così ad essere disorientato, ma anche devitalizzato nel suo contatto col mondo. Il rapporto del soggetto coll’oggetto viene quindi a modificarsi radicalmente, e questo sia sul piano della teoria della conoscenza e, sia, d’altra parte, come interiorizzazione di ciò che egli vive nel mondo. In sintesi la modificazione dell’approccio complessivo nei confronti del mondo da parte del soggetto, non può essere definita solamente come cambiamento transitorio, ma più profondamente come mutazione antropologica- irreversibile-, la quale, comunque, ha una sua origine storica sia sul piano temporale che su quello geopolitico. Se la realtà metropolitana deve essere giustamente intesa come insieme di choc continui, a cui il soggetto metropolitano viene sottoposto, allora per choc si intenderà e l’urto evitato dal soggetto nella strada e tra la folla così come la merce desiderata che si sa non si potrà mai possedere, o in sintesi qualsiasi altro atto o gesto in cui il soggetto attiva (o viene attraversato da) proiezioni desideranti, impossibili a concretizzarsi se non fantasmaticamente. E’ questa –come ben si capisce- la struttura fondante i rapporti metropolitani, e al contempo la struttura di desiderio attivata nei confronti della merce. Inevitabilmente una situazione di questo tenore va ad attivare continui rimandi simbolici, all’interno dei quali il soggetto si trova ad essere agito dai significati. Più profondamente questo processo di rimando continuo, che va coerentemente ad istituirsi su una base formata da catene associative e memoria involontaria (cfr. è lo schema/pattern utilizzato dalla pubblicità), va ad aprire un nuovo spazio all’interno del quale il soggetto metropolitano si trova a fantasticare. Questo nuovo spazio viene classificato da Benjamin come spazio mitologico, momento del mito. A questo punto sarebbe necessaria una digressione su questo problema per chiarire meglio alcuni fondamentali aspetti presenti in esso, ma la complessità dell’argomento ci costringerebbe ad allungare ulteriormente questo lavoro. Comunque col termine mito, in sintesi, Benjamin intende quel qualcosa che nasce nel rapportarsi del soggetto, dell’uomo, con qualsivoglia elemento che è posto al di là della propria intenzionalità. Laddove cioè non è comportata una prassi trasformativa del soggetto sociale, viene ad attivarsi un processo di metaforizzazione del reale, di gioco simbolico di rinvio, di allontanamento fantasmagorico del reale stesso. E’ chiaro, al contempo, che tutta questa analisi sul mito che permea l’analisi benjaminiana, viene da egli stesso ancorata ad un piano di disamina storica. E’ quindi anni luce distante dalle contemporanee analisi di Ludwig Klages, o altri pensatori reazionari, che nel mito identificavano un piano di analisi posto al di là del problema storico, ontologico quindi. A questo punto è però giusto riprendere il tema principale di questo lavoro, e cercare di definire una prima topica della soggettività del moderno, che tenga conto della modificazione antropologica intervenuta a cavallo tra il XIX e il XX secolo. Il mutamento delle condizioni di vivibilità della metropoli, l’uso sempre più derealizzante della tecnologia e quindi l’estendersi del piano simbolico delle relazioni sociali prodotto dall’universo delle merci, hanno inevitabilmente prodotto con sé un estendersi della trasformazione antropologica. E’ quindi arrivato il momento- per quanto sia difficile concretizzare in analisi- di estendere le intuizioni teoriche fatte nel contesto del paragrafo sul feticismo delle merci e nel primo quaderno del Grundrisse. Bisogna cercare cioè di approdare ad una concreta fenomenologia del soggetto sociale, che ponga come proprio punto di partenza il dato dell’inversione, che automaticamente viene a scattare nella società capitalistica, allorquando cioè i rapporti sociali tra produttori vengono percepiti alla stregua di rapporti causali. Duplicazione del pensiero, la società vista nel suo insieme come estensione di rapporti simbolici, reificazione di tutti i rapporti sociali determinata dall’estendersi del comando capitalista, sono alcune delle grandi intuizioni marxiane. Credo, però, a questo punto, che sia corretto integrare questa analisi con quanto si può dedurre dall’analisi del moderno svolta da Benjamin.
2.1.1) IL CORPO
Si è alterato irrimediabilmente il rapporto tra soggetto e oggetto. Il soggetto non appare più come attore capace di trasformare il reale, così come ci era tramandato dalla tradizione della filosofia classica, mentre viceversa appare sempre un soggetto poroso, che viene attraversato dalle cose, dagli avvenimenti: terminale finale di relazioni simboliche che non va soggettivamente a determinare in alcun momento. Si assiste in pratica ad uno sprofondamento dell’oggetto da parte del soggetto, il quale da parte sua diventa sempre più estraneo al proprio corpo. Il corpo sfugge all’uomo, e non credo che possa essere inficiata questa intuizione dalle conclusioni di Mc. Luhan intorno all’estensione della sensibilità umana, che avverrebbe con i nuovi media.
2.1.2) Emerga al contempo- tanto che la si può definire- una nuova logica dello sguardo che, soprattutto nella metropoli è sostanzialmente sguardo che non vede, che non è attento (cfr. D.H.Lawrence: Il serpente piumato). Esso è solo sguardo funzionale all’autoconservazione, ad evitare choc, non ad altro. Si segnala perciò un’alterazione del rapporto vicinanza/lontananza. Tutti gli oggetti appaiono irrimediabilmente in primo piano, toccabili, anche se poi nella realtà essi tendono a sfuggire fantasmaticamente al primo serio tentativo di contatto. L’approccio fotografico, poi, ha determinato un trauma irreversibile nella modalità di approccio al reale. Emerge come inevitabile -da tutto ciò- il predominio del senso tattile, sia nell’approccio nei confronti delle riproduzioni artistiche ( ormai maneggiate come fossero cartoline), sia nei confronti del quotidiano, e delle forme erotiche moderne del quotidiano( prima il feticismo del pizzo, poi del velluto, la seta, il nylon, la pelle, oggi il PVC).
2.1.3) Questa ricostruzione intorno al predominio del tattile (crf. La storia dell’arte antica di Riegl) è tanto più credibile se,come giusto, essa viene associata alla considerazione dello spazio metropolitano e dello spazio dell’interno borghese. Lo spazio è sempre più affollato da oggetti. Conseguentemente la categoria estetica più esplicativa della metropoli diventa quella del KITSCH, dove l’accumulo di stili diversissimi tra loro è proporzionale alla diversità degli oggetti presenti in un determinato spazio. Ma il kitsch è anche la categoria più significativa utilizzabile per spiegare la politica (quella con la p maiuscola) e la sua mancanza di stile (cfr. I rituali nazisti), perché in effetti da almeno sessant’anni siamo entrati in una fase di estetizzazione assoluta della dimensione politica. O anzi per essere più precisi vi è stata la sostituzione con l’estetica( come teoria della sensibilità in tutte le sue più variegate manifestazioni) alle varie filosofie della storia.
2.1.4) Il soggetto del moderno è quindi la sintesi di una molteplicità di atti bloccati, mancati, di desideri non realizzati, non realizzazione di obiettivi programmati. Questa mancanza, reiterata all’infinito, inevitabilmente non fa che aprire uno spazio produttivo d’immagini simboliche, dove la realtà viene rielaborata a livello rimemorativo-fantastico, in sintesi su un piano di carattere mitico.
2.1.4.1) La merce per eccellenza, quella che poi diventa status- symbol, non può non rientrare all’interno di questo discorso. Gli status- symbols sono merci e quindi periture, ma usate al posto del denaro. In una fase come questa di crescita relativa della ricchezza sociale in tutte le classi, risulta necessaria l’affermazione di una merce che sia deperibile, e quindi mutevole come il suo valore. Sta al posto del denaro, e viene mostrato in sua vece. Ed ecco come definisce Marx le qualità del denaro: “ Durevolezza, inalterabilità, divisibilità e ricomponibilità, trasportabilità relativamente facile in quanto racchiudono un valore di scambio massimo in un minimo spazio: tutto ciò rende i metalli nobili particolarmente adatti” (Gr.109) per determinare quali siano le leggi economiche che presiedono all’instaurarsi di una merce quale status- symbol a mio avviso basta invertire la definizione data da Marx a proposito della merce danaro. Non è forse la merce rappresentativa dello status sociale acquisito e come tale assolutamente transitoria, alterabile, difficile o con vistosa trasportabilità, non divisibilità della stessa?
2.1.4.2) La distrazione, più nel concreto è il paradigma più significativo per dar conto della modificazione sensibile avvenuta nel moderno. Ciò rimanda a quanto prima si diceva del cambiamento del modo di guardare avvenuto a cavallo do secolo, ma indubbiamente essa rappresenta la peculiarità più tipica della modalità quotidiana di vita del soggetto metropolitano attuale.
2.2.) LO SPAZIO
Accanto alla modificazione ormai avvenuta, e di cui si è già parlato, del rapporto vicinanza/lontananza, la caratteristica della trasformazione percettiva dello spazio consiste nella costituzione di intermundia. E’ un dato di fatto che l’immagine non sia ormai più rapportabile all’originale da cui essa è tratta, la copia non è più riferibile a ciò da cui è derivata. E con questa un’ennesima categoria del pensiero classico viene automaticamente a cadere, ma questo sta a significare anche che il mondo dell’immagini (L’iconosfera) va a costituire un mondo a parte che è il reale in cui oggi si vive. Lo spazio conseguentemente si definisce non più come spazio geometrico, ma come spazio vissuto distrattamente sfondo immaginativo, sfondo onirico, in cui viene intessuta la fantasticheria. Come Benjamin suggerisce, l’architettura della metropoli viene vissuta distrattamente, nessuno nella propria città si ferma ad osservare un luogo/monumento che gli è consueto percepire. E’ solo il turista che fa ciò, e sempre fino al momento in cui l’orientamento non gli parrà più un problema oggi lo spazio, l’intermundia ( coerentemente con quanto si diceva prima per il mondo delle immagini) dove la merce si situa più a suo agio, è proprio l’interiorità del soggetto..
2.3) IL TEMPO
A livello temporale, la percezione del nuovo soggetto metropolitano è, per essere precisi, una continua sensazione di ritorno del sempre uguale. Questa sensazione è data, in primo luogo, dall’osservare il ritorno sempre uguale a sé medesimo del ciclo della moda e della fruizione della merce, e soprattutto da una percezione di gelatinosità non solo nel constatare l’impossibilità di risolvimento delle proprie ansie profonde ( no future), ma anche la non possibilità di uno squarcio, di apertura verso una dimensione che superi l’opacità dato dalla casualità.
3) LA MERCE COME COSMOPOLITISMO CULTURALE
Dal discorso svolto nel paragrafo precedente abbiamo dedotto una serie di determinazioni che il dominio totale della merce va ad attivare nei soggetti metropolitani. Dall’assunto centrale che la vita metropolitana è la risultante di un insieme molteplice di continui choc, abbiamo tratto la convinzione che la vita, in questa fase storica è egemonizzata dall’orizzonte capitalistico, sostanzialmente si definisce come serie di atti mancati, o al più desideranti nei confronti di oggetto/persone/merci, i quali tendono inevitabilmente a scomparire al momento del tentativo di presa da parte del soggetto stesso. La definizione del rapporto soggetto- oggetto non può più essere percepita seguendo gli schemi filosofici propri della tradizione, giacchè tale rapporto è ormai risultato irrimediabilmente trasformato. In questo secondo paragrafo abbiamo perciò tentato di dare conto delle modificazioni che hanno inciso sul soggetto sociale. Intenzionamento nei confronti della merce, in questa ottica, è da noi considerata la struttura di rapporto desiderante più tipicamente moderna presente oggi nelle più varie articolazioni sociali. La merce considerata nella sua essenza come fantasmagoria sociale ci riporta perciò inevitabilmente al come vengono strutturati gli schemi del desiderio sociale, o, per usare altre parole, al come l’immaginario collettivo viene a costituirsi. Ad essere schietti il discorso fin qui esposto, che si condensa nell’affermazione che la merce è sostanzialmente un bisogno dell’immaginario, conduce ad una discussione teorica su uno dei punti chiave della teoria marxiana del valore, e cioè il concetto di valore d’uso. Non staremo qui ad affrontarlo, visto che per il momento ci basta porre l’accento perlomeno sull’esistenza del problema stesso. Ritornando all’alveolo principale del nostro percorso e cioè alle nuove determinazioni della merce, non si può non tener conto di un elemento. Avviene il processo desiderante nei confronti della merce, proprio perché essa è sempre disponibile, è sempre gettata in faccia al soggetto, prospettata con insistenza. La merce cioè ha il dono dell’ubiquità, tanto che anche in paesi ad economia arretrata si possono trovare le medesime merci del nostro orizzonte capitalistico (cfr. Il caso della Pepsicola). (E’ logico che ciò sia dovuto alle leggi di sviluppo dell’imperialismo, ma non staremo qui a soffermarci). L’ubiquità della merce nel mondo e il suo cosmopolitismo culturale corrisponde analogicamente ad un processo di interiorizzazione presente nel soggetto. Per desiderarla compiutamente il soggetto deve poter essere continuamente messo di fronte alla merce, ed essere investito da essa. La merce cioè deve anche essere immediatamente reperibile. In questo senso le testimonianze storiche sul sorgere dei Grandi Magazzini di novità a Parigi intorno al1860/1880, o prima ancora le Grandi Esposizioni Universali, iniziatesi guarda caso due tre anni dopo la Grande rivoluzione borghese, sul Campo di Marte, donano nuova luce. I Grandi Magazzini hanno saputo coniugare il bisogno immaginario della merce presente nelle masse con alcuni tratti archeologici ma fondanti l’epoca del moderno stesso. In primo luogo hanno saputo unire l’uso valorizzante della luce (cfr. all’opposto i piccoli bazar localizzati nei Passages) con l’estrema, ridondante varietà degli articoli. La merce è stata così presentata come un qualcosa disponibile per tutti, ma per fare questo è stato necessario prima imporre un nuovo elemento qualificante e discriminante: il prezzo fisso. Il prezzo fisso ha in effetti cambiato totalmente il rapporto esistente con la merce, permettendo l’installarsi del desiderio sempre più a livello profondo nel soggetto, laddove il censo non permetteva l’acquisto. E’ risaputo il caso di soggetti economicamente deboli che, dopo aver vagabondato nei Grandi Magazzini, fantasticando per ore sulle varie merci, alla fine se ne escono acquistando comunque qualcosa, seppur non quello per il quale tutto il processo desiderante era stato messo in moto. E’ questo un esempio terra-terra di come in effetti funziona il processo di costituzione del desiderio, della merce come fantasmagoria sociale. Anche sul piano più propriamente culturale (ma d’altronde la cultura non è forse propriamente merce?) si registrano preziose e inquietanti analogie. Il museo, come luogo di residenza stabilita della varietà culturale prodotta dall’umanità, risponde alla medesima logica. Non a caso i musei troveranno la propria istituzionalizzazione giusto nel XIX secolo. Ciò fu dovuto certamente a ragioni di prestigio da parte dei grandi stati imperialisti, ma anche fu riflesso di una potenza economica già in atto e dispiegata. L’origine del museo come istituzione risale al 5/600, quando esso veniva chiamato Wundercamera, camera delle meraviglie, e serviva ai regnanti e dotti del tempo sostanzialmente o come gabinetto per dimostrazioni scientifiche ma anche e più propriamente come luogo di meraviglia per i propri ospiti. Nella radice storica del museo, analogo a nostro avviso al museo delle merci che è il grande magazzino, è quindi compresa la dimensione onirica dell’accumulo, dell’unire insieme prodotti molto differenti tra loro. Giova forse citare qui a mo’ di divertimento come proprio nelle Wunder-Kamera facevano grande sfoggio di sé animali imbalsamati mostruosi, quali i basilischi (sorta di unione di sauri- volatili- pesci ). Il mostro, la meraviglia, l’onirico, stanno quindi alla radice storica della merce, così come essa è concepita e prodotta nel sistema capitalista. Il grande magazzino è quindi centrale al nostro percorso per due ordini d ragione.
a) È il luogo di accumulo indiscriminato della perversione sociale (cfr. le figure storiche del flaneur, del guardone o del feticista), perché luogo di fruizione immaginativa della merce stessa.
b) La reperibilità immaginativa della merce stessa è fondamentale per la sua stessa diffusione simbolica. La riflessione condotta fin qui sul moderno “storico” non può- ad occhio attento- non trovare particolare risonanze nell’oggi, e in questo senso ci limitiamo a suggerire la televisione come luogo odierno della presentazione delle merci. Il grande magazzino di oggi è la televisione. Riflettere sulle categorie del moderno (modificazione antropologica e nuova ridefinizione del soggetto sociale) ha perciò proprio il senso di fornire all’attualità alcuni strumenti concettuali, con i quali poter confrontare le diverse esperienze e quindi determinare le differenze strutturali nel frattempo intercorse nei soggetti sociali.

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