HACKING: FENOMENO SOCIALE, NON CRIMINE

 

"Uno dei principali obiettivi di questo libro è dissipare l'alone di hype che circonda il fenomeno dell'hacking...." Così scrive Paul Taylor nella prefazione del suo volume Hackers: Crime in the Digital Sublime, di fresca uscita per i tipi della Routledge, editore con basi a Londra e New York legato al mondo accademico ma da tempo attento alle dinamiche del digitale.

Va detto subito: un obiettivo sostanzialmente raggiunto. Contesto, tono e situazioni delineate nelle quasi 200 pagine dell'opera riescono infatti a indagare in maniera pacata e serena, ma comunque approfondita, le strette relazioni createsi negli ultimi anni tra fermenti sociali, tecno-cultura e controllo repressivo che sono alla base dell'articolato movimento globale incarnato dai cosiddetti hacker. Tutto ciò non mancando al contempo di mettere in luce l'inusitato processo di demonizzazione messo in atto dai media nei loro confronti, quell'hype, appunto, o esagerazione, che ne ha accompagnato le gesta, almeno per come sono state presentate da grosse firme e testate del giornalismo internazionale. Senza infine dimenticare svariate descrizioni anche alquanto dettagliate sull'emergere di gruppi di hacker in ambito locale come risposte di "movimento" ai repentini cambiamenti sociali in atto sull'onda dell'information revolution.
Lecturer nell'ambito della sociologia della tecnologia presso l'Università inglese di Salford, Paul Taylor ha ricavato il materiale per illustrare le sue tesi grazie a un'estesa serie di interviste faccia-a-faccia condotte in Inghilterra e Olanda tra il 1990 e il 1993, intercalate da un fitto scambio di botta e risposta a livello mondiale via e-mail nel corso di quasi un decennio, negli anni 1989-98. Le interviste hanno riguardato un'ampia varietà di soggetti nell'ambito di tre gruppi principali: hacker, ricercatori informatici, esperti di sicurezza. Come non manca di sottolineare più volte lo stesso autore, si tratta di ambiti assai fluidi e cangianti, le cui caratteristiche vanno sovrapponendosi più che volentieri. Questa una delle maggiori difficoltà verso i tentativi di razionalizzazione di una ricerca che, impostata in puro stile accademico, in conclusione pone l'enfasi sull'eccesso di antagonismo con cui la società tende a reagire alle pratiche dell'hacking. Per suggerire invece l'urgenza di stabilire una "via di mezzo", un punto d'incontro che possa giovare a tutte le parti coinvolte, tra le istanze dei "freedom fighters" e le esigenze di sicurezza degli apparati statali e dell'imprenditoria in questa fase di avvio dell'era digitale.
A sostegno delle necessità di un "middle ground", l'autore suggerisce in sostanza l'equazione hacker=cyberpunk, piuttosto che quella da sempre esplicitata a vari livelli dai mass media mondiali: fuorilegge, asociali, anarchici pericolosi. E lo fa proponendo chiari riferimenti agli scritti originali sia di colui che ha coniato lo stesso termine "cyberpunk" - lo scrittore canadese di fantascienza William Gibson, in Neuromancer del 1984 - sia di altri autori storici quali Steve Levy (Hackers: Heroes of the Computer Revolution, 1984) e Bruce Sterling (Mirrorshades: the Cyberpunk Anthology, 1986). Affiancandovi ovviamente le citazioni in prima persona che affollano il volume, dalle quali affiora con chiarezza come il comportamento degli hacker, ben prima e oltre che mirato all'irruzione illegale nei sistemi informatici altrui, rappresenti piuttosto l'espressione di una trama sociale di ampio significato.
Lo confermano in particolare i due capitoli dedicati alla cultura dell'hacking e alle motivazioni degli hacker, di cui si traccia rapidamente la storia a partire dai primi "aficionado" che negli anni 50 e 60 sperimentavano al MIT di Boston per finire con accenni alle gesta, tra gli altri, di Amnon Zichroni, l'hacker israeliano accusato lo scorso anno di essersi introdotto nei sistemi della NASA e del Pentagono. Inclusi ovviamente frequenti riferimenti alle note riviste "di settore" Hack-Tic, Phrack e TAP come pure a nomi assai noti come quello di Kevin Mitnick, condannato la scorsa estate a 46 mesi di carcere, e probabilmente fuori già a gennaio, pur avendo rischiato decine di anni per fantastici e presunti crimini di hacking.
Proprio il caso di Mitnick, che dal '95 a oggi i media di tutto il mondo hanno preso a simbolo dell'hacker malefico per antonomasia, apre la strada per altre interessanti considerazioni riguardo il ruolo dei giornalisti in quest'ambito. Oltre a varie citazioni di libri, articoli e programmi radio-TV sparsi nelle pagine del volume, Taylor ce ne parla nella specifica appendice riservata agli "ulteriori esempi di media hype". E' qui che, tra l'altro, si offrono rapidi stralci della "psicologia da dilettanti" seguita da Katie Hafner e John Markhoff forse nel primo libro (Cyberpunk: Outlaws and Hackers on the Computer Frontier) che nel 1991 diede l'avvio all'erronea immagine popolare di hacker quale fuorilegge ad oltranza. Linea seguita, tra gli altri, dal relativo documentario trasmesso alla televisione britannica che puntava tutto sul "lato oscuro" dell'hacking, per finire con approssimative tesi di una rivista inglese sui "Virus Satanici" compilati da hacker bulgari. Sono solo alcuni tra i numerosi casi citati, infarciti dal tipico tono allarmistico ed esagerato cui siamo purtroppo abituati. E se è vero che in tempi più recenti - il libro si ferma agli eventi del 1998 - tale atteggiamento appare sicuramente più affievolito e meno diffuso, resta pur sempre il fatto che le fantasiose iperboli dei media hanno fornito un'immagine spesso falsa e distorta di un fenomeno sociale assai complesso e articolato.
E' vero in definitiva quel che ribadisce Paul Taylor in conclusione di questo stimolante e rigoroso volume: "Il significato più ampio dell'hacking tende ad esser smarrito tra i tentativi dei giornalisti di amplificare le questioni tecniche o le minuzie biografiche degli hacker. Un antico proverbio cinese recita: 'Indicando la luna con un dito, lo sciocco scambia il dito per la luna stessa.' In un ambito in cui negli ultimi anni molta gente si è data fare per indicare, spero di esser riuscito a spostare l'attenzione (almeno occasionalmente) dal dito verso la luna."