Sgobboni, disinteressati al denaro e altruisti, anche gli
hacker hanno un'anima. La vecchia traduzione con "pirati informatici"
rappresenta solo una parte del loro mondo, una porzione assai minoritaria
(che correttamente andrebbero indicati come "cracker"). Perché
questa nuova generazione di talenti, ben oltre i confini di hardware e software,
è piuttosto portatrice di un nuovo e approccio alla vita che fa dell'amore
per il lavoro e della condivisione dei suoi risultati i propri pilastri
principali. Una vera e propria "etica" - come spiega Pekka Himanen
nel suo "L'etica hacker, e lo spirito dell'età dell'informazione",
appena uscito da Feltrinelli, con un prologo di Linus Torvalds e una posfazione
di Manuel Castells - alternativa a quella calvinista che ha contraddistinto
e fornito l'apparato ideologico fondamentale per l'era industriale.
Un progetto impegnativo, può sembrare, quello che intende sostituire Linus Torvalds (attraverso le costruzioni teoriche di questo suo amico e connazionale professore di sociologia in Finlandia e in California) al buon vecchio Max Weber e al suo classico "L'etica protestante e lo spirito del capitalismo". Ma di certo affascinante e non campato per aria se uno fa lo sforzo di non liquidare la vicenda con un grossolano "non mi interesso di cose di computer". Perché, è utile ripeterlo, gli hacker non sono solo "persone che programmano con entusiasmo (come recita la definizione ufficiale del "Jargon File") che ritengono che sia un dovere etico condividere le loro competenze scrivendo software gratuito e facilitare l'accesso alle informazioni e alle risorse di calcolo ogniqualvolta sia possibile" ma, più in generale, "esperti o entusiasti di qualsiasi tipo" (nel significato numero 6 del dizionario online), sia che si occupino di astronomia che, per ipotesi, di letteratura. Insomma è la dedizione a una certa materia, quale che sia, il tratto distintivo più importante. E' il fatto di coltivare un interesse senza riserve, di poter sacrificare per questo sonno, cibo e tempo libero. E', secondo l'istantanea più tipica ormai consegnata all'immaginario collettivo, del programmatore che, dopo ore infinite di lavoro, stramazza davanti al pc e dorme qualche ora sulla scrivania per poi ricominciare e finire il proprio compito. E' Bill Gates da giovane, insomma, e tutta la nidiata di hacker (nell'accezione positiva che il libro contribuisce a chiarire) che lo ha preso a modello, ma con la novità che il campo d'azione dei nuovi hacker è assai più ampio. D'altronde la contraddizione l'aveva incarnata bene proprio Bill Gates quando, nel 1976, scrisse la sua prima "Lettera aperta agli hobbysti", ovvero a quei programmatori amatoriali che copiavano i suoi programmi e li mettevano a disposizione di tutti. Il fondatore di Microsoft, hacker per antonomasia (ma tutore del diritto d'autore), se la prendeva ferocemente con questi altri hacker (paladini del software libero e gratis per tutti). Una dicotomia che è andata avanti, praticamente inalterata, durante l'ultimo quarto di secolo. E che quest'ultimo libro riprende e potenzia. Per Himanen, infatti, la nuova etica si declina in tre principali categorie: quella del "lavoro", appunto, nel senso della nuova, flessibile ma incondizionata dedizione verso di esso (a patto, evidentemente, che il compito interessi chi lo svolge); quella del "denaro", dove l'idea della condivisione delle informazioni fa a cazzotti con l'attuale idea di possesso esclusivo di esse come unica garanzia di profitto; quella del "network" (detta anche "netica") che punta a garantire a tutti o al maggior numero di persone l'accesso "alle informazioni o alle risorse". Questi sono i nuovi punti cardinali per il popolo vasto e indistinto che dobbiamo imparare a intendere con "hacker". Una filosofia di apertura, innanzitutto, che ha fatto sì - in passato - che la Ibm abbia avuto la meglio sulla Apple, che Internet (con i suoi protocolli che tutti potevano usare liberamente) sia diventata quell'indispensabile realtà che quotidianamente frequentiamo e che ha contraddistinto il successo di varie altre tecnologie che hanno saputo diventare degli standard proprio rinunciando a brevetti stretti che ne regolamentassero l'utilizzo. L'etica calvinista era quella giusta per l'era industriale: in una società in cui molti svolgevano lavori routinanti, compiti insulsi, ripetitivi e per niente motivanti, postulava il lavoro come fine in se stesso. Nell'era post-industriale, nella società dell'informazione in cui ci muoviamo, l'etica hacker descrive meglio la vita di un popolo in crescita, che fa lavori intellettuali che spesso è anche difficile spiegare ai propri genitori. Per loro lo scopo finale è "poter fare qualcosa che abbia un significato, fonte di gioia e di ispirazione, e non ha importanza classificarlo come 'lavoro' o 'piacere' perché non sono le etichette che possono rendere desiderabile un'azione. Sia il lavoro che il divertimento - conclude il professore finlandese - possono essere una noia, quel che è fondamentale è la natura dell'attività".
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