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Hacktivism. La libertà nelle maglie della rete

 

di A. Di Corinto e T.Tozzi

 

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2.3.1. Il diritto a comunicare

 

«Ogni individuo ha diritto alla libertà di opinione e di espressione incluso il diritto di non essere molestato per la propria opinione e quello di cercare, ricevere e diffondere informazioni e idee attraverso ogni mezzo e senza riguardo a frontiere.» www.un.org/Overview/rights.html

Articolo 19 della Dichiarazione Universale dei Diritti Umani

 

Spesso il diritto all’informazione è stato inteso come libertà di espressione nel senso del free-speech americano. Per noi il diritto all’informazione nelle società tecnologicamente avanzate dovrebbe essere considerato il risultato dell’insieme di più diritti: il diritto all’accesso, il diritto all’informazione e alla formazione, il diritto alla cooperazione, il diritto alla partecipazione.

E questo perché l’informazione e la comunicazione globale sono fattori che influiscono direttamente sulla qualità della vita non solo influenzando i processi di relazione e la coesione sociale fra i gruppi umani, le culture e le società, ma anche in quanto l’informazione e la comunicazione si intrecciano con le forme della rappresentanza e della democrazia, della partecipazione e dell’autogoverno, del lavoro e dell’economia, del reddito e della produzione.

Le forme della democrazia sono influenzate dalla possibilità di partecipare a processi decisionali di interesse pubblico secondo modalità collettive e presuppongono l’accesso a una informazione plurale, verificabile, equamente distribuita e ugualmente accessibile.

Robert Mc Chesney, professore di Giornalismo e Comunicazioni di Massa all’Università del Wisconsin-Madison, ha scritto in uno dei suoi pamphlet più autorevoli, Corporate Media and the Threat to Democracy, che ci sono tre condizioni fondamentali per realizzare una democrazia all’altezza dei tempi che viviamo:

 

«La prima è che fra i cittadini non esistano grosse sperequazioni di reddito, altrimenti non possono accedere agli strumenti per esercitare la democrazia.

La seconda è che la comunicazione politica su cui l’esercizio della democrazia si basa sia plurale ed efficace, in grado di coinvolgere la cittadinanza e di renderla partecipe del sistema di governo.

La terza è che tutti i cittadini si rendano conto di essere interdipendenti all’interno della loro comunità e che il loro benessere dipende in larga misura da quello degli altri».

 

Le leggi dell’economia presuppongono da sempre un efficace scambio di informazioni, tuttavia oggigiorno l’efficiente circolazione delle informazioni rappresenta un requisito indispensabile per le forme prevalenti dell’economia che utilizzano tecnologie a base linguistico-informatica, legate cioè all’automazione avanzata e alla terziarizzazione della produzione che si concretizzano nella produzione immateriale, nella delocalizzazione della produzione nei servizi a distanza, eccetera.

L’innovazione tecnologica porta con sé nuove modalità nell’organizzazione della produzione di merci e incide direttamente sulle forme del lavoro che si concretizzano nel lavoro cognitivo e reticolare che utilizza la conosenza come materia prima, oggetto essa stessa di nuove e spesso illegittime forme di appropriazione. Per questo l’accesso ineguale alle reti ed alla conoscenza si traduce in nuove forme di alienzione e di esclusione sociale.

L’ineguale distribuzione delle risorse della comunicazione, nota oggi come digital divide, è fonte di numerosi conflitti in quanto pone dei vincoli all’affermazione del diritto di usare il software e le reti per soddisfare i bisogni concreti degli individui e ad affermarne i valori.

Il digital divide, il divario digitale, è determinato in ultima analisi dalla disparità di accesso alle tecnologie dell’informazione e della comunicazione causato dall’assenza di infrastrutture, dal ritardo culturale, da restrizioni politiche e da differenze economiche all’interno di uno stesso paese o fra nazioni diverse. Il fatto che oggi le forme dell’economia e quelle della democrazia siano sempre più collegate alla diffusione delle tecnologie e della rete Internet, che raccoglie e moltiplica queste tecnologie, il digital divide è riconosciuto come un problema di rilevanza mondiale 23.

I conflitti che traggono origine dal digital divide hanno un carattere geopolitico che va oltre l’estensione geografica di Internet, ma che spesso la implica (Limes) 24.

La «geopolitica di Internet» può essere intesa come l’insieme dei processi che influenzano l’evoluzione della rete in termini di distribuzione e di accesso alle risorse necessarie a utilizzarla.

Trattandosi di uno strumento di comunicazione 25, i conflitti che riguardano Internet sono in primo luogo relativi al suo impiego come strumento di produzione e diffusione dell’informazione e la geopolitica di Internet riguarda in conseguenza la questione più generale della diffusione e dell’uso delle tecnologie per l’accesso all’informazione e il diritto alla comunicazione.

La storia dei processi di diffusione di Internet e i conflitti che da essa originano coincide in buona misura con l’evoluzione della cultura hacker. Coincide cioè con una cultura che intende l’accesso alle tecnologie come mezzo per la distribuzione di risorse, strumento di riequilibrio dei poteri.

 

Costruire strumenti per soddisfare bisogni

Anche se ci sono molti modi di concepire l’hacking, e sebbene le definizioni usate non trovino sempre tutti d’accordo, è pur vero che esistono elementi che ci fanno capire che l’hacking è una cultura dai tratti ricorrenti e che l’elemento centrale di questa cultura riguarda l’attitudine a costruire strumenti per soddisfare bisogni.

 

L’hacking è una filosofia, un’arte, un’attitudine, un modo giocoso, irriverente e creativo di porsi di fronte agli strumenti che ogni giorno usiamo per comunicare, divertirci e lavorare: i computers. Ma l’hacking è soprattutto un abito mentale. Proprio perché si manifesta nei laboratori universitari americani a cavallo degli anni 60’ e affonda le sue radici nella stessa mentalità libertaria e antiautoritaria che da lì a poco darà origine alle controculture americane della contestazione è difficilmente irregimentabile in categoria definite. Non è riassumibile in uno schema, non è una regola, un programma o un manifesto, è piuttosto o un modo etico e cooperativo di rapportarsi alla conoscenza ed a quelle macchine che trattano il sapere e l’informazione.

 

Software, hardware e reti di comunicazione

Hacking è quindi innanzitutto «arte della programmazione», è l’attitudine artistica che ti porta a semplificare un codice macchina, che ti permette di individuare un algoritmo innovativo, di trovare la chiave per facilitare un processo di comunicazione interno alla macchina, fra l’utente e la macchina, fra gli utenti stessi.

Dai primi passi nei garage degli hippies tecnologici, gli homebrewers, il concetto di hacking ha fatto parecchia strada e poi ognuno se ne è appropriato per esprimere utopie sociali e tecnologiche che la forza virale di un potente immaginario collettivo ha fatto retroagire sugli orientamenti dei suoi stessi soggetti.

Tra quanti praticano l’hacking, abbiamo già detto che potrebbero essere individuate molteplici tipologie.

C’è l’hacker anarchico, individualista e solitario che per il puro piacere di «metterci le mani sopra» si appassiona a modificare il più complesso dei sistemi, la cui imperfezione, i cui bachi, considera un’insulto all’intelligenza della programmazione. C’è l’hacker «sociale» il cui scopo è quello di abbattere ogni barriera che si frapponga fra le persone e la conoscenza, quello per il quale la libera informazione è una caratteristica della comunicazione da valorizzare socialmente. Oppure c’è chi intende l’hacking come un’operazione di ‘deturnamento’, di modificazione del senso. Ci sono quelli per cui l’hacking è reinterpretazione funzionale di parole e di concetti e che considera la de-formazione un diritto pari a quello dell’in-formazione. Altri sono moderni Robin Hood della comunicazione, impegnati a svaligiare la banca, enorme, dell’informazione, per restituire a tutti la ricchezza sociale sottratta alla comunità da anacronistiche leggi di protezione del software o delle opere dell’ingegno, nella consapevolezza che il sapere può essere solo il frutto di un processo di accumulazione creativa di generazioni successive di inventori, e che privarne gli altri rappresenti un furto.

L’hacking è quindi soprattutto condivisione di conoscenze, e per questo è un potente motore dell’innovazione sociale e tecnologica. L’innovazione che l’hacking genera non ha solo creato Il world wide web e i software per le reti di comunicazione, non ha solo creato nuovi prodotti nei laboratori delle start-up companies informatiche, né semplicemente nuove professionalità nel campo del lavoro: i programmatori di software libero, i beta-tester o gli esperti di sicurezza.

L’hacking si rapporta all’innovazione, alla cosiddetta rivoluzione digitale ed alla new-economy in una maniera più generale:

– sarebbe difficile pensare oggi alla new-economy senza la massiccia introduzione dei computers nelle case, nei luoghi pubblici e nei posti di lavoro che l’assemblaggio dei primi personal computers nelle cantine degli hackers ha messo a disposizione della rivoluzione informatica

– sarebbe impossibile pensare all’innovazione informatica se la lotta per migliorare il software non fosse stata oggetto di una continua pratica ideativa, di una progettazione dinamica di sistemi aperti, liberamente condivisi e modificabili

– sarebbe difficile non mettere in relazione il freestyle espresso dai programmatori hackers con la tendenza al decentramento, alla cooperazione reticolare, all’autogestione creativa, che sono oggi le basi dell’industria immateriale, quella che produce valore a partire dal sapere e dall’innovazione.

L’innovazione si basa sul libero scambio di informazioni, garantito dalla creazione di sistemi aperti, tramite l’introduzione di nuovi strumenti. È questo quello che è accaduto con la creazione dell’ E-macs, del progetto Gnu e di Linux.

Linux è il termine generico con cui è divenuto noto il software libero, alternativo al sistema operativo proprietario Microsoft Windows. Emacs è un potente editor di testi scritto nel 1984 da Richard Stallman, uno dei padri del software libero (free-software) e del progetto Gnu, un progetto di sistema operativo non proprietario. Gnu è un acronimo ricorsivo di «Gnùs Not Unix», e significa che Gnu non è Unix, nel senso che ha le stesse funzionalità del sistema Unix – il quale fu scelto come software di partenza per le sue caratteristiche tecniche di multiutenza e di multifunzionalità, ma anche per la sua elevata diffusione nella comunità informatica del tempo – ma vuol dire soprattutto che Gnu non è un sistema proprietario.

Gnu è il progetto collettivo per cui è stato scritto il corpo del sistema operativo che, integrando il kernel sviluppato da Linus Torvalds nel 1991, è diventato l’ormai famoso Linux, e che ha messo in discussione il monopolio di Microsoft nella diffusione dei software necessari a far funzionare le macchine informatiche.

Ed è giustamente considerato come il software libero più famoso al mondo. Il sistema operativo è il programma che rende i computer qualcosa di più di un ammasso di ferraglia in quanto ne gestisce tutte le parti, i programmi applicativi e l’interazione dell’uomo con la macchina. Ma un sistema operativo è fatto di tanti moduli e, nel caso di Linux sappiamo che la maggior parte di questi moduli era nata e si era diffusa gratutitamente ben prima che Linus Torvalds scrivesse il kernel che gestisce l’unità di calcolo, la memoria centrale, il file system.

Da allora, migliaia di programmatori e singole aziende in maniera libera e cooperativa, hanno sviluppato applicazioni di software libero, editor di testi, fogli di calcolo, programmi grafici e di comunicazione, che hanno reso facile e intuitivo l’utilizzo di Linux stesso.

Perciò gli ingredienti di questo successo non dipendono soltanto dalla versatilità del sistema, né dalla sola bravura di Torvalds, oggi riconosciuto come il creatore di Linux. La riuscita del progetto riposa piuttosto sul fatto che Linux ha attualizzato i principi dell’etica hacker, come ha parzialmente spiegato Pekka Himanen 26 nel suo ultimo libro.

La capacità di coinvolgere migliaia di liberi programmatori nello sviluppo di milioni di linee di codice che oggi costituiscono il sistema operativo di Linux è sicuramente un merito del giovane Torvalds, ma questo successo non si spiegherebbe senza considerare la cultura hacker preesistente al suo sviluppo: la cultura della reciprocità, la passione conoscitiva e l’attitudine a cooperare propria della «repubblica della scienza» costituita dai tanti ricercatori e programmatori che vi hanno contribuito. Linux non esisterebbe inoltre senza la solida organizzazione a rete dei suoi sviluppatori, un modello di organizzazione spontanea, decentrata, orizzontale, aperta, secondo una modalità organizzativa che si fonda sulla condivisione dei metodi e l’idea di un obiettivo comune, addirittura più importante degli aspetti tecnologici dello sviluppo del software.

Insomma, gli ingredienti di questo successo stanno in quelle poche semplici regole che sono alla base dell’etica hacker: l’accesso illimitato a tutto ciò che può insegnare qualcosa sul mondo, la condivisione di conoscenze, l’irriverenza verso i saperi precostituiti, l’apprezzamento delle capacità concrete delle persone, il senso di comunità, l’idea che la conoscenza appartiene a tutti e che, in quanto tale, deve essere libera.

Non è un caso che Stallman – fondatore della Free Software Foundation e animatore del progetto Gnu (www.fsf.org) – e i suoi colleghi considerino il copyright una peste sociale che frena l’innovazione e un’identificazione sociale positiva che può scaturire solo dalla condivisione e dall’uso etico e cooperativo di ciò che gli uomini inventano.

Secondo Stallman è applicando la legge della ridondanza, il diritto illimitato di copia e distribuzione che l’innovazione procede. A questo scopo è stato creato il concetto di copyleft. Somiglia al copyright da un punto di vista legale, ma al contrario di questo dà diritto al libero uso del software con la sola restrizione di includere in ogni nuovo prodotto la libertà incorporata nella General Public License (Gpl) di adattare il software ai propri scopi, di distribuirlo liberamente per incentivarne l’uso da parte di tutti, di aiutare la comunità consentendo a ciascuno di migliorare il programma e, una volta modificato, di distribuirlo con le stesse garanzie di libertà. (vedi scheda sul Software)

Mentre il copyright «protegge la proprietà dall’uso», il copyleft «protegge l’uso dalla proprietà» e impedisce a chicchessia di appropriarsi del lavoro gratuito e volontario delle molte migliaia di programmatori che sviluppano software libero.

È questo l’altro importante fattore del successo di Linux, averlo inserito nel progetto Gnu e l’aver accettato la logica del copyleft, grazie alla quale tutti lo possono studiare e integrarne il codice liberamente. Da allora in poi, il sistema operativo si chiamerà correttamente Gnu/Linux, un sistema completamente compatibile con l’Unix proprietario, ma completamente libero.

È una mentalità che comincia ad affacciarsi anche nel nostro paese, in Italia, dove si moltiplicano i laboratori di scittura cooperativa del software, luoghi dove funziona lo scambio, il dono, il riuso dell’hardware e del software e dove l’atmosfera gioiosamente cooperativa crea reti sociali e tecnologiche pronte a rimettere in discussione il dominio proprietario dell’informazione.

Dopotutto, se l’hacking ha una definizione condivisa, è che esso implica l’aumento dei gradi di libertà all’interno di un sistema dato, sociale o tecnico che sia. Certo il mercato è in agguato, ma con il copyleft siamo all’alba di un nuovo contratto sociale.

Linux rappresenta un esempio paradigmatico dell’economia della reciprocità, della gratuità e del dono, che è spesso il vero vettore dell’innnovazione. Almeno fino a quando qualcuno non ci metterà sopra il suo copyright. Linux è figlio di quella curiosità intellettuale, di quella voglia di fare insieme e di condividere problemi e soluzioni proprie della cultura hacker. La stessa che ci ha dato Internet, il World Wide Web, Usenet e la maggior parte dei programmi per computer che non si acquistano online e neppure nei negozi di informatica.

Si comprende allora come la filosofia del software libero è solo una delle strategie di risposta alla distribuzione diseguale delle risorse ma forse ne costituisce un asse portante.

Perciò Richard Stallman, che non a caso è considerato il decano di questa filosofia, quando parla del software libero, non parla di gratuità nel senso economico del termine, ma parla di libertà, di coscienza e di responsabilità dei produttori e utilizzatori delle tecnologie dell’informazione, cercando sempre di fare chiarezza sui termini di open source e free software erroenamente ritenuti intercambiabili.

Open Source è un programma di cui è possibile leggere il codice sorgente, cioè il linguaggio di programmazione usato per creare il file eseguibile dall’utente, ma non è modificabile e rimane proprietario. Altra cosa è il software libero, che invece non solo consente di visualizzare e studiare il codice sorgente, ma permette di copiarlo, modificarlo e distribuirlo con le eventuali modifiche apportategli e con il solo vincolo di dare al successivo «possessore» del software le stesse «libertà». «Software Libero» non significa quindi gratuito – «free software is not free beer, free software stays for free speech», dice R. Stallman – ma si riferisce appunto alle libertà citate e a qualcosa di più, cioè alla libertà di operare per il bene della collettività e per l’avanzamento delle conoscenze, seguendo strade diverse da quelle della burocrazia, dell’autorità e del mercato.

Per questi motivi Stallman, con la sua usuale vis polemica, ci ricorda che esiste una notevole differenza fra il movimento open source e quello del free software, e che l’opera di sciacallaggio delle aziende di software che lucrano sulla confusione delle definizioni serve loro per risparmiare sulla necessaria ricerca per lo sviluppo di nuovo software – in questo caso lo fanno gratuitamente altri – e creare una nuova nicchia di mercato per vendere pacchetti di programmi composti da software sottoposti al diritto proprietario e «free software».

 

 

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