JOHNSON RAY

(da Vittore Baroni, Arte Postale - Guida al network della corrispondenza creativa, AAA Editrice 1997)

Nessuno serio studio sull’argomento ha mai messo in discussione la consolidata e ben meritata reputazione di Ray Johnson quale principale originatore (o “padre”) dell’arte postale nella sua attuale accezione, anche se egli non è stato affatto, come Marinetti e Breton, un leader in senso gerarchico e “politico”, oppure, come Maciunas e Friedman, un teorico e coordinatore razionale: non ha redatto manifesti bensì ha elevato il frammento e il pettegolezzo a forma d’arte, le “espulsioni” dal suo giro di corrispondenti non erano vere epurazioni ma piuttosto parodie delle lotte interne alle avanguardie storiche. La sua è stata sempre una presenza enigmatica e defilata: un eremita che pareva conoscere tutto di tutti, un convinto individualista capace di imprevedibili atti di generosità, una figura mitologica già al suo primo apparire sulla scena artistica, una leggenda da tramandare piuttosto che un maestro da riverire.

Nato a Detroit nel 1927, Raymond Edward Johnson ha studiato negli anni ’40, con insegnanti come Josef Albers e Robert Motherwell, al celebre Black Mountain College nel North Carolina, un laboratorio che ha partorito nomi di spicco dell’avanguardia americana di questo secolo, da Merce Cunningham a John Cage. Nel ’48, l’artista si è trasferito a New York, dove ha messo a punto, dopo alcune esperienze astratto-espressionistiche, le sue originalissime strategie operative, nel loro piccolo capaci di ribaltare assunti fondamentali del sistema dell’arte, oltre ad anticipare diverse tendenze, dalla Pop Art (è fra i primi ad integrare nei collages volti di celebrità come Elvis Presley e James Dean) al graffitismo (i messaggi visivi lasciati su mura urbane e i vignettistici animali onnipresenti nella sua opera - il coniglietto una sorta di marchio di fabbrica - precorrono di trent’anni gli omini di Keith Haring). Johnson ha però sempre preferito lavorare in copia unica e su piccoli formati, precludendosi così l’appoggio del grande mercato dell’arte, verso cui nutre comunque sentimenti contrastanti (rifiuta spesso di esporre o vendere i propri lavori). A volte associato a Fluxus per il carattere minimal-concettuale dei suoi progetti, egli è stato in realtà un talento unico facente scuola a se stante, un collagista e disegnatore dal tratto elegante ed essenziale, un artista “vecchia maniera” che ha saputo vedere ben oltre la propria formazione accademica, presagendo e svelando con le sue liste di contatti epistolari l’importanza di una nuova figura culturale: l’operatore di rete, una sorta di “animatore” che crea contesti per l’espressione collettiva. L’arte intesa insomma, pur senza alcun palese intento socio-rivoluzionario, come processo attivo e in progress di scambi tra individui e non come operazione commerciale, scavalcando le figure istituzionalizzate del critico e del gallerista.

Già nella metà dei ’50 Johnson crea i moticos, piccoli cartoncini sagomati con incollati disegni e ritagli di giornale ritoccati, esposti sui marciapiedi o nelle stazioni ferroviarie oppure, secondo l’estro del momento, spediti per posta ad amici, conoscenti, personaggi noti e perfetti sconosciuti (scelti dall’elenco telefonico, in base al suono del nome o altri criteri sibillini), accompagnati da messaggi criptici, giochi di parole, richieste all’apparenza assurde, inviti a “incontri” reali o fittizi (i cosiddetti nothings in cui, rovesciando il concetto di happening, non accade assolutamente nulla!). I contatti postali assumono gradualmente per l’artista, il quale per inciso ama utilizzare creativamente anche il telefono e altri mezzi di comunicazione, un’importanza sempre maggiore, ramificandosi in una vasta rete con centinaia di corrispondenti “abituali”, battezzata nei primi ’60 (pare dall’artista Fluxus Ed M. Plunkett) con il nome ironico di New York Correspondence School: un ibrido fra la pittorica New York School creata dai critici e le “scuole per corrispondenza” pubblicizzate all’epoca su riviste. La sigla conosce poi negli anni infinite ludiche variazioni, tutte segnalate da appositi timbri: New York Correspondance School, NY Gymnastic School, Buddha University, ecc., a cui occorre aggiungere le decine di “fan clubs” scherzosamente creati e coordinati da Johnson, dedicati a stars del cinema e altre celebrità che questi tenta, spesso con successo, anche di coinvolgere nelle sue corrispondanze. L’intera attività postale dell’artista si basa in realtà, e in questa semplice rivelazione sta tutta la sua grandezza, su un unico pun macroscopico (proprio per questo invisibile ai più): nella corrispondenza egli cerca sempre e solo delle corrispondenze, con un carosello infinito di riferimenti (immagini, citazioni, anagrammi, ecc.) capaci di mettere in relazione tra di loro due concetti (e/o due persone: mittente e destinatario) a prima vista senza nulla in comune.

“I giochi di parole non sono solo un gioco”, scriveva Alfred Jarry. La considerazione si attaglia perfettamente al lavoro di Johnson, in apparenza effimero e frammentario, ma osservato nel suo insieme (migliaia di comunicazioni ad altrettanti corrispondenti) orchestrato come una complessa sinfonia, in una fitta e geniale trama di temi ricorrenti, variazioni, gags, coincidenze e doppisensi: nelle parole dell’autore, “un fantastico, gigantesco mobile di Calder... costantemente in movimento”. Esistono fortunatamente, oltre a ispirati saggi di alcuni fedeli amici-critici (William S. Wilson su tutti), alcuni cataloghi in cui sono state radunate corpose raccolte private di lettere, che riescono a darci un’idea precisa della poetica globale dell’artista (ad esempio, Correspondence - An Exhibition of the Letters of Ray Johnson al North Carolina Museum of Art di Raleigh nel ’76), oppure cataloghi di mostre non “postali” (quale Works by Ray Johnson al Nassau County Museum di Roslyn Harbor nell’84, a cura di David Bourdon) che documentano la qualità eccelsa di collages realizzati con tecniche e supporti “poveri” quali pezzetti di cartone dipinti e poi scartavetrati, sempre strettamente connessi nel riciclo di temi e materiali ai lavori circolati per posta.

Soltanto una ventina di mostre personali in quasi cinquant’anni di attività, più un paio di retrospettive in musei pubblici, non sono forse gran cosa, ma non ci è dato sapere se è stata una forma depressiva, indotta dal mancato riconoscimento della propria statura artistica, che ha spinto Johnson a togliersi la vita in un’ultima (triste) performance che ha profondamente impressionato quanti lo conoscevano e stimavano. La data del 13 Gennaio 1995, il giorno in cui l’artista si è gettato vestito di tutto punto dal ponte di Sag Harbor a Long Island (forse non casualmente: “to sag” significa “cedere, andare alla deriva”), allontanandosi nuotando sul dorso, come riferito da alcuni bambini impotenti testimoni, e lasciandosi affogare nell’acqua gelida, assume un involontario valore simbolico, marcando in qualche modo la fine del “periodo aureo” dell’arte per corrispondenza.