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Una revisione critica del concetto di diritto d'autore nelle nuove tecnologie informatiche

 

di Raffaele "Raf valvola" Scelsi

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(conferenza a cura di Tommaso Tozzi per il progetto “Arte, Media e Comunicazione”, 1997)

 

Il tema che mi sembra emergere negli ultimi anni con maggiore evidenza è la questione del portato relativo ai diritti a seguito dell’evasività sempre maggiore dell’evoluzione digitale nella società contemporanea.

Da prima chiaramente la rivoluzione informatica ha comportato problemi dio carattere produttivo, cioè ha cambiato sostanzialmente la modernità del lavoro. Ma accanto a questo, e con l’estensione sempre maggiore delle reti, si sono posti una serie di nuove questioni relativamente anche al problema dei diritti per quanto riguarda l’utilizzatore e per quanto riguarda la società più in generale.

L’appoggio che ha avuto il legislatore rispetto a questo campo dei nuovi diritti è impostato a una sua difficoltà oggettiva di conoscere e di normare il fenomeno.

Innanzi tutto per una oggettiva impreparazione tecnica del personale politico: non conoscono gli argomenti su cui vanno a ragionare.

In secondo luogo perché si tenta di normare il nuovo con strumenti che provengono dal passato.

A mio avviso il caso più emblematico è sicuramente quello rappresentato dal copyright; dalle leggi relative al copyright.

Le leggi sul copyright hanno un origine giuridica agli inizi del ‘700, ma in realtà esistevano già forme privative che risalgono al ‘500 e addirittura al ‘400 per quel che riguarda il commercio genovese. Quindi sono abbastanza lunghe.

Comunque dal ‘700 abbiamo una prima definizione giuridica in Inghilterra, subito dopo la ‘rivoluzione senza sangue’, cioè quella (??????) quando si impone una forma di monarchia costituzionale, anche se questo termine non può essere opinamente utilizzato nell’inghiletrra del 1700.

La normativa sul copyright ha avuto una sua continuazione ‘classica’ in questo tipo di impronta sostanzialmente fino a circa la fine degli anni ‘70, periodo in cui il problema era da una parte di salvaguardare i diritti dello stampatore (questo è il vero e proprio problema iniziale), a cui alla fine dell’’800 si aggiunse anche la necessità di salvaguardare i  diritti dell’autore.

Ed è su questa scorta che in questo secolo sono nate organizzazioni di carattere privatistico, poi legalizzate dallo Stato, o inserite all’interno della normativa dello Stato, come ad esempio la SIAE.

L’intendimento era quello di proteggere l’autore, non solo lo stampatore.

Il problema che si pone oggi con la rivoluzione digitale come è noto è dato dal mezzo stesso.

Il mezzo stesso è un mezzo estremamente liquido, estremamente elastico, estremamente malleabile e facilmente duplicabile.

Tanto più che la duplicazione non comporta una perdita di possesso da parte del precedente proprietario.

Quindi c’è semplicemente una ‘clonazione’ (va molto di moda usare questo termine), o duplicazione in toto.

Questo pone evidentemente dei problemi, poiché fino a venti anni fa il copyright era garantito e definito in base a chi era il possessore del mezzo su cui veniva inciso l’opera d’arte. Come ad esempio basti guardare le leggi italiane sul diritto d’autore e anche per quanto riguarda il cinema, o anche per quanto riguarda la musica, il proprietario è sempre colui che ha il possesso del master e del materiale su cui viene inciso il master.

Diversamente con la versione digitale tutto ciò muta rapidamente, anche perché c’è un fenomeno sociale e di masse che comporta un suo stravolgimento oggettivo.

Questo problema si complica tanto più se andiamo a vedere brevemente la storia di questa modifica relativa al software. Quello che riguarda il software è forse il caso più emblematico rispetto alla duplicazione. Come suggerisce Gomma [vedi l’intervento “L’etica hacker: dai laboratori del M.I.T. negli anni ’50 ad oggi”, di Ermanno “Gomma” Guarneri], il problema ha origine nel 1976, quando Bill Gates, che allora lavorava per la “Micro O Soft”, fece una serie di programmi che giravano su Altair (Altair è stato il primo PC che veniva venduto per corrispondenza). La Altair fu venduta poco dopo a una ditta che si chiamava “Pertec”. La Pertec credeva di acquistare non solamente lo scatolotto dell’Altair, ma credeva anche di acquistare il software incluso che faceva girare la macchina. In quel caso invece Bill Gates fece fin da subito una causa in tribunale per affermare il proprio diritto: la Pertec aveva acquistato l’hardware, ma non aveva acquistato il software.

Già in quegli anni Bill Gates scrisse una famosissima lettera contro la pirateria, che era relativa non tanto contro la pirateria hacker, ma era relativa alla pirateria cosiddetta per la duplicazione del software. In tale lettera accusava la stessa comunità scientifica, da cui lui stesso attingeva notizie e informazioni, di essere una sorta di vampiro: di succhiare informazioni e strumenti che invece gli erano costate ore e ore di lavorazione, di programmazione.

Com’è noto, la comunità allora respinse duramente questo tipo di assunto, anche perché lo stile, la motivazione che conduceva tutti costoro a lavorare, era quella della ‘condivisione’ sociale dei saperi e non tanto della ‘privatizzazione’ da parte di qualcuno. E questo sia per l’elaborazione dell’hardware (ad esempio, l’innovazione di aggiungere uno schermo allo scatolotto dell’hardware fu una decisione nata collettivamente, così come le scoperte relative al modem o alla possibilità di applicare il modem al PC e così via), che per quello che riguarda  la programmazione.

Allora era veramente un mondo di hobbystica. Ogni ricercatore dava il proprio contributo collettivo per cercare di risolvere il problema.

Il problema era: “risolvere il problema”; non quello di fare i soldi.

Invece la genialità di Bill Gates è stata proprio quella di capire che era un business, e immediatamente si organizzò per realizzare questo business acquisendo a tutela della “Microsoft” (che cambiò nome in tale periodo, alla fine degli anni ‘70) le prime figure di manager, che a quel tempo erano estranee al mondo dell’informatica.

Il passaggio avvenne all’inizio degli anni ‘80, nel 1981, quando Bill Gates fu avvicinato dall’IBM (che nel frattempo era stata fuori dal mondo del personal) e progettò di fare il suo primo personal. Nel momento in cui fu avvicinato dall’IBM, Bil Gates si trovò in tempi brevi a dover configurare un programma operativo che poi sarebbe stato il famoso MS-DOS.

L’origine del MS-DOS era in realtà un altro programma operativo: uno schema di un altro programma operativo che si chiamava Q-DOS, che lui comprò per circa 50.000 dollari da un’altra ditta per poi rielaborarlo.

Anche in quel caso la decisione di Bill Gates fu una decisione di tipo affaristico.

Nessuno chiaramente mette in dubbio le capacità di programmazione di Bill Gates e anche una certa dose di genialità. Però in quel caso egli capì fin da subito che l’accordo con l’IBM sarebbe stato il ‘volano’ per fare della Microsoft quella potenza commerciale che poi sarebbe diventata nel corso degli anni ‘80.

Una cosa assolutamente da rilevare è che contemporaneamente, negli anni ‘80, è nato un mercato di massa del computer che prima non c’era. Quindi sono nati i primi ‘computer shop’ che vendevano i personal computer negli angoli più disparati dell’America (e che in seguito arrivarono anche in Italia) e con essi i pacchetti applicativi e il sistema operativo che erano acclusi, com’è noto, quando si comprava una macchina IBM o i relativi cloni (in quanto anche i cloni funzionavano in questa maniera).

In questo modo si imponeva di fatto uno standard mondiale che è imprescindibile per ogni macchina, sia che uno lo voglia, sia che uno non lo voglia.

In seguito, quello del software, è diventato un mercato autonomo e quindi ha superato la fase precedente che prevedeva, con un termine utilizzato dagli americani, la forma del “bundling”, cioè dell’impacchettamento unico dell’hardware col software (inizialmente infatti veniva pensato in tali termini).

 

Questa è un po’ la preistoria per quanto riguarda il problema del software.

Oggi il problema del software ha assunto una sua ulteriore complessificazione, poiché, come ho esordito all’inizio, il problema della rivoluzione informatica è che non è più limitata all’ambito dei videogiochi o all’ambito di lavori specialistici, ma, com’è noto,  è entrata a far parte dell’attività di qualsiasi tipo di lavoro.

Quindi non si può prescindere dall’utilizzo del computer, e quindi del software, per qualsiasi tipo di attività.

Dunque sorge ancora maggiormente il problema relativo a questa centralità.

Sorge il problema perché la Microsoft, che rispetto ai portatili e ai PC è sicuramente la ditta egemone nel settore del software, impone delle politiche estremamente vessatorie. Non solo le impone dal punto di vista economico, ma le impone anche dal punto di vista giuridico, facendo un’operazione di lobbing negli ambiti specifici, in particolare in quelli della Comunità Economica Europea e anche nella parte che la riguarda del parlamento italiano. In tal modo convincendo, come dicvevo prima, un personale politico oggettivamente impreparato a sostenere le politiche di protezione di un gruppo monopolista, che con varie ragioni e per varie motivazioni, ha assunto questa posizione monopolistica nel corso di questi ultimi quindici anni.

 

Il problema diventa tanto più importante quanto più tocca i bisogni sociali. Diventa quindi delicato; diventa un problema politico. Diventa politico perché riguarda il lavoro.

Tra le cause che sono alla base dei processi di esclusione sociale generalmente possono esserne indicate tre:

- la prima è la mancanza di denaro.

- la seconda è la mancanza di status sociale (o in questo caso la disoccupazione).

- la terza è la mancanza di sapere e conoscenza.

E’ chiaro che in una società dominata dall’Information Technology il problema cruciale è dire che quella alla base di tutte le altre esclusioni diventa la mancanza dei saperi. E questo è un caso in cui il software vi rientra in maniera dominante e in maniera centrale.

Quindi bisogna riuscire a garantire in una fase prossima futura una base unitaria per tutte le persone dove questo diritto al sapere ‘anche’ sotto forma di software (magari con versioni vecchie) possa essere garantito a tutti.

E’ chiaro che una politica come quella della legge sul software approvata in Italia nel 1992 (e che come ripeto è una legge approvata sul solco di quella europea) risulti essere una legge particolarmente penalizzante. Ad esempio, tale legge prevede il carcere (quindi sanzioni di carattere penale non amministrativo) per qualsiasi tipo di duplicazione fatta a scopo di lucro. Tra l’altro sul termine “scopo di lucro” esiste com’è noto una querelle interpretativa enorme, che va da una persona che copia un programma per risparmiare denaro (quindi anche uno studente che copia Word per studiare la propria tesi di laurea da questo punto di vista potrebbe rientrare nell’applicazione rigida dello “scopo di lucro”) per arrivare infine a coloro che traggono effettivo profitto dalla duplicazione.

Comunque, come dicevo, è una legge che è concepita in maniera tale da scoraggiare qualsiasi forma di duplicazione, perché la duplicazione in se viene considerato un atto socialmente deplorevole.

Quindi è una legge dura, una legge cattiva, una legge che fa del male alla società e che non permette alla società di crescere in maniera non dico armoniosa, ma perlomeno con meno disparità di quanto invece questa legge sancisca.

Questo tipo di atteggiamento, che oscilla tra l’incompetente e il repressivo, è presente in tutti i campi che definiscono i diritti digitali.

E’ presente nella legge relativa all’hacking, cioè alle intrusioni non autorizzate nei sistemi, detta “Legge Conso”. E’ presente rispetto al tentativo di identificare nel sysop una sorta di responsabilità penale per quello che riguarda le banche dati. Ed è presente ancora di più per quanto concerne la legge appena approvata sulla privacy e sulla riservatezza dei dati.

 

Anche quest’ultimo punto meriterebbe una lunga esposizione; questo anche perché è una legge che è appena stata approvata, per l’esattezza il 31 dicembre 1996 [la conferenza da cui è stato tratto questo testo è stata realizzata ad aprile del 1997, n.d.r.].

Sono due leggi che meriterebbero una giusta esposizione. Basti sapere questa cosa: il problema dei dati personali è un problema che ha acquisito negli ultimi anni una centralità maggiore di quanto l’avesse vent’anni fa. Quindi il ragionamento per quanto riguarda la privatezza dei dati è un ragionamento che supera un eventuale stile di ragionamento che si identifichi nel pensiero di Bentham per dire una cosa, quindi il Panopticon piuttosto di Foucault.

Non è tanto il problema di proteggere i dati attraverso il concetto di privacy e di difesa della privacy, perché altrimenti lo Stato interviene in maniera onnicomprensiva e in maniera quindi un po’ paranoica a controllare tutta la società, ma, diversamente, a me sembra che il problema della privatezza dei dati riguardi il problema generale delle aspettative di vita da parte dei singoli soggetti.

Per quale ragione? Perché oggi è già in corso (soprattutto in America e in Canada, anche un po’ in Inghilterra e sta arrivando anche da noi) il fatto che i nostri dati personali entrino a far parte in singole banche dati, le quali banche dati poi vengono incrociate (il famoso “computer matching”), vengono incrociate continuamente.

E sono dati ‘innocui’ da una parte, ma da un’altra parte anche ‘sensibili’.

Ad esempio, in America il fatto di abitare in un quartiere, piuttosto che in un altro, da subito l’indicazione della provenienza sociale di queste persone. Allora per quanto riguarda la vendita che sempre più avviene, la ‘direct mailing’, o ‘direct shopping’, o, comunque la si voglia chiamare, la vendita diretta, fatta per via telefonica, permette ai soggetti che sono dall’altra parte del telefono di digitare immediatamente i dati, di avere di fronte i dati e quindi di configurare dei profili del possibile acquirente e ritagliare il discorso su questo tipo di profilo.

Ma non solo, questo è il problema della vendita pubblicitaria, o della pubblicità tramite vendita diretta, ma ancor più pesante è il discorso per quanto riguarda le banche o fidi di carattere creditizio.

Ad esempio, se io ho evitato di pagare una bolletta, piuttosto che qualcuno, per “n” ragioni nel corso della mia vita, ho un grado di “minore” affidabilità, che può tradursi in una riduzione di fiducia da parte di questo ente creditizio nei miei confronti nel poter espletare un mio diritto come può essere ad esmpio acquistare una casa, acquistare una macchina, o cose di questo genere.

Quindi da questo punto di vista la legge sulla protezione dei dati dovrebbe da una parte impedire allo Stato di essere pervasivo quanto invece lo è.

Invece la legge attuale italiana appena approvata non dice nulla a questo proposito. Anzi, da una parte sancisce per lo Stato tutta una serie di esenzioni, per cui può esserci accumulo dei dati anche senza la mia volontà per quanto riguarda il sistema sanitario, il sistema giudiziario, il sistema di indagine (con quella che è la storia dei servizi segreti italiani, significa non avere nessun tipo di protezione), e dall’altra parte non sancisce nessun limite per quanto riguarda gli enti privati che invece accumulano dati.

E allora cosa sta succedendo? La cosa molto strana è che si sta producendo una sorta di “se” elettronico che ha una vita autonoma rispetto alla mia vita personale in carne ed ossa, che viaggia nel cyberspazio e che ha delle influenze concrete sulla mia vita reale, come dicevo prima per quanto riguarda le aspettative di credito.

Ritornando al discorso iniziale da cui mi ero mosso, per pensare il problema dei diritti bisogna avere la capacità di sapere imporre politicamente al governo il profilo generale di una società nel prossimo millennio, in una fase nuova dal punto di vista sociale come è determinato dal fatto della presenza e pervasività del digitale e avere la capacità di sapere imporre questo livello di ragionamento più generale, prima che sia troppo tardi, perché poi prima di modificare una legge, quando entra nell’uso, passano decenni e decenni creando purtroppo malessere sociale e una società per altro diseguale.