Centri sociali e comunicazione
di Primo Moroni |
||
(conferenza a cura di Tommaso
Tozzi per il progetto “Arte, Media e Comunicazione”, 1997)
|
Io
credo che in questo momento in Italia gli spazi sociali, nonostante l’enorme
diversificazione in rapporto ai territori in cui vengono aperti, occupati,
gestiti, abbiano da un lato a che fare con la comunicazione sia in termini
indiretti, sia in termini diretti.
Per
indiretti mi riferisco al fatto che sono luoghi che producono una quantità di
eventi culturali, una quantità di spettacoli, di musica, di teatro, di poesia,
che inesorabilmente e inevitabilmente pone in moto criteri di scelta, problemi
di autoproduzione (anche se in questo momento mi sembra di basso profilo) e
luoghi in cui aggregare e fare ascoltare forme diverse e non mercificate delle
varie espressioni artistiche e culturali.
Massivamente
è la musica che è stata per questi luoghi nei tardi anni settanta e nei primi
anni ottanta il vero elemento di comunicazione.
Nella
seconda generazione dei centri sociali, quella che per comodità chiameremo
controculturale punk, vi era il progetto meditato, voluto, di distruggere gli
universi musicali del pop e del rock’n roll per formare una musica che fosse
rumore, che mettesse in moto i corpi, che fosse il più possibile lontana da una
possibile sussunzione da parte del mercato. Quindi, non solo non volevano andare
sul mercato, ma cercavano di elaborare un tipo di messaggio musicale che il
mercato non poteva che rifiutare perché destinato ad un circuito di produttori
e consumatori di tipo chiuso. Tant’è che uno come Alvin Toffler, questo grande
saggista americano, chiamava ‘prosumer’ (come misto tra produttore e
consumatore).
Ma
non si usciva da quel circuito.
Quel
circuito, che è stato un passaggio importante della formazione generazionale
degli anni ottanta, su un sociale esterno devastato, su un sociale nemico,
aveva criteri di ricerca di purezza totale e assoluta.
Se
facevi un pezzo musicale, se scrivevi un testo per un pezzo musicale, dovevi
autoprodurlo in disco o in cassetta e dovevi autodistribuirlo in certi
circuiti; non poteva andare nemmeno nelle librerie di movimento, anche se ne
erano rimaste poche.
Nel
caso di questa libreria che è la Calusca i punk vennero da me e dissero:
-
“siccome a noi piace questa libreria, vorremmo tenere quà i nostri materiali.
Però non possiamo accettare che vengono mercificati. Anche tu sei un libraio
compagno, ma non possiamo accettare che diventino una merce, perché se li diamo
a te da rivendere diventano una merce”
-
“Come si può fare?”
-
“Tu ci dai una saletta noi l’autogestiamo e li vendiamo noi”
E
così fu.
Gli
venne data una saletta che fu autogestita per due anni come un corpus separato
ma interno allo spazio libreria.
Questo
la dice lunga su questo bisogno radicale di non-mercificazione e quindi di una
comunicazione che era fatta di un universo di segni e di simboli che
progressivamente diventavano più complessi tanto da essere a un certo punto
pressoché comprensibili solo alla cerchia degli stretti aderenti.
Quindi
la musica, insieme ad altre componenti, è stata uno strumento di rifiuto della
contaminazione con il mondo esterno. Uno strumento distruttivo nei confronti
della speculazione delle precedenti generazioni che pure si erano identificate
nelle musiche innovative del pop degli anni 60 o 70 o del rock’n roll. Tutto
ciò con una forma e una discussione costante sui suoi contenuti e sul suo
significato analoga a una disputa tomistica per la complessità con cui finivano
su 50-60 fanzine, venivano discussi i particolari delle diverse correnti
musicali che andavano emergendo in Inghilterra, tra i tedeschi e anche con un
forte rapporto con paesi dell’est come l’Ungheria, la Slovenia, la Croazia.
Il
fatto che venissero da questi luoghi un tipo di musica così radicalmente
diversa da quella che poteva creare una buona accoglienza anche in un soggetto
normale, come ascolto, come rapporto, etc., era già un segnale che da quelle
parti cambiava qualcosa, perché nei paesi del socialismo reale qualche cosa
stava andando in pezzi se nascevano dei gruppi che erano in grado di
comunicare... come succede nelle controculture che partono contemporaneamente a
livello internazionale e non si sono mai conosciuti, ma sostanzialmente hanno
un comune sentire.
Io
credo che successivamente, dopo questa fase radicale che prevedeva come si dice
la rivolta dello stile, c’è stata una modifica assai radicale di questo
percorso, perché i soggetti che frequentavano questi luoghi si sono modificati.
Il mercato del lavoro ha modificato le loro vite e i loro contorni e i loro
vissuti materiali e i centri sociali hanno mutato pelle. Hanno separato
frequentemente, come fanno adesso, il discorso della programmazione culturale
da quella dello spazio, luogo fisico, centro sociale.
E
qui invece emerge un percorso, una caratteristica che è stata difficile da
comprendere per tre o quattro anni ma che adesso ha una sua particolare
chiarezza.
Io
credo che da questi lavori di riflessione che abbiamo fatto sulla massa di
frequentatori, che sono stati pubblicati negli ultimi cinque anni, la merce
più rara e richiesta e più desiderata dai frequentatori, al di la della programmazione
musicale, teatrale e culturale, è la socialità. E se è la socialità è perché
avvertono che nel territorio esterno a uno spazio protetto come può essere
un luogo sociale e nel nuovo modello produttivo, quello che viene chiamato
il bene relazionale è stato di fatto sussunto, riportato all’interno del modello
produttivo, svuotandolo delle sue caratteristiche di indipendenza che aveva
nei precedenti modelli. Nel precedente modello il luogo del lavoro era luogo
della promozione di relazioni di classe, di soggetti, delle stratificazioni
e la relazione era un modo per sottrarsi al comando, al disciplinamento padronale,
sia che fosse privato che statale. Nel nuovo modello come è noto la forza
della sua capacità di produrre un ambiente e un prodotto molto buono deriva
anche dal fatto che occorre un investimento mentale, psicologico, relazionale,
affettivo e quindi viene sussunto, non ha più la sua autonomia, e allora bisogna
cercare altrove il luogo della socialità, il luogo del bene relazionale, e
i centri sociali sono essenzialmente degli enormi contenitori dove disperatamente
si cerca una forma di comunicazione che ha a che fare con la relazione sociale.
C’è lo spettacolo, ma quello che è determinante è avere una comunicazione
protetta fuori dal meccanismo produttivo come voler costruire dei nuovi luoghi
dell’esperienza, all’interno dei quali sviluppare nuove relazioni umane tutte
da scoprire, tutte da inventare, ma costantemente sottratte al processo esterno. Ed
era un percorso drammatico, perché è noto che i luoghi dell’esperienza sono
stati per 50 anni nel precedente modello socio-produttivo posti dove diventare
grandi, dove diventare adulti, dove imparare forme della relazione, anche
il (?????????) è un luogo dell’esperienza, ma soprattutto il lavoro, la rottura
con le strutture autoritarie, la coscienza di classe, la coscienza sociale,
il desiderio di fare una creatività, di sviluppare una creatività diversa
da quella conosciuta, erano le forme che formavano il soggetto che si trovava
ad essere incompatibile con il modello dominante.
Credo
che adesso questo sia molto difficile e che invece nei modelli piccoli e
grandi, noi parliamo di un’Europa che oramai viene chiamata (???????) nord-est.
Vi
è un rapporto uno a tre fra i lavoratori della piccola e media impresa e quelli
della grande impresa. La piccola e media impresa è frantumata su un territorio
vastissimo di centinaia e centinaia di chilometri spesso, è amicale, familiare,
parentale o di tipo locale e questo abbassa il conflitto e le differenze. Ma porta
i soggetti in qualche modo a un’adesione quotidiana ad un modello di riduzione
della loro capacità di autonomia che non può essere sopportato se non anche con
una invenzione o ricerca di spazi di autonomia totale dalla vita quotidiana che
viene subita e in qualche modo accettata perché il reddito restituisce identità
parziale nel corso della propria esistenza.
Credo
che si può fare un parallelo che ha un suo relativo interesse con le discoteche
del nord-est. Nelle discoteche del nord-est vanno centinaia di migliaia,
secondo la SIAE sette-ottocentomila biglietti vengono staccati in questa
astrazione geo-economico e politica che è il nord-est ogni sabato sera e sono
soggetti sociali che praticamente lavorano mediamente (dai lavori di ricerca
che abbiamo fatto) 50-55 ore alla settimana. Quindi hanno un fortissimo
disciplinamento produttivo e poi il sabato sera vanno in discoteca alla ricerca
disperata di riappropriarsi di uno spazio proprio comunicativo o di vita
vissuta che gli è negato nel quotidiano.
Tant’è
che abbiamo definito l’estasi (la droga più diffusa in questi luoghi) come
una droga post-fordista, nel senso che permette al soggetto di entrare rapidamente
in uno stato di abbandono, di allontanamento dalla percezione del reale, in
uno stato alterato di coscienza, li il corpo si libera per 12, 14, 16 ore.
Da qui il successo dell’after-hour e di questo percorso dalla sera fino alla
domenica pomeriggio di liberazione di se, il cui obiettivo fondamentale non
è tanto la ricerca della sessualità o la ricerca solo della musica, proprio
ha la sua base in un bisogno disperato di comunicazione, di relazione sociale,
di scambi umani, che non può essere realizzato nel quotidiano, non può essere
assolto solo dai centri sociali e allora la discoteca diventa una variante
di questo bisogno disperato di comunicazione di bene relazionale e di socialità
inventati in qualche modo. Nel caso della discoteca attraverso uno stato alterato
di coscienza, nel caso dei centri sociali attraverso un’appartenenza che dura
il tempo della frequentazione del centro sociale. Poi ritorna nel suo alveo
quotidiano il mattino dopo nel posto di lavoro. Si tratta di osservare, ad
esempio, che la stragrande maggioranza dei frequentatori dei centri sociali
milanesi, in un’inchiesta abbastanza accurata che abbiamo fatto, non è un
drop-out non è un emarginato, così com’era nei primi anni ottanta e il fatto
che fosse un drop-out, un emarginato, provocava una ribellione, una rivolta
dello stile, provocava un certo comportamento e comunque dava identità, dava
risposta, costringeva a una risposta. La stragrande maggioranza sono lavoratori,
salariati, o autonomi, o precari, o flessibili e quindi hanno una loro indipendenza
economica, una loro attività quotidiana, sono lo specchio fedele del mercato
del lavoro esterno. Non escono di casa per la stragrande maggioranza fino
a 30-35 anni, ora non c’è più questo conflitto precedente, si poteva dire
che negli anni sessanta i genitori erano disperati perché i figli scappavano
di casa e adesso non sanno più come buttarli fuori di casa perché non se ne
vanno proprio. Perché c’è stata questa modifica, conciliazione. Il centro
sociale permette, sia perché è un luogo protetto ad esempio per il fumo, dall’uso
delle sostanze leggere, sia perché vi è un’informalità nel rapporto, non è
come in un locale pubblico. Il fatto di essere in un centinaio in uno spazio
protetto o vissuto come tale, ma indubbiamente protetto, consente un allentamento delle forme rituali della conoscenza reciproca
sia perché così come sono strutturati restituiscono anche se solo parzialmente
una identità che non viene più garantita dalla riproduzione sociale esterna,
quindi sono luoghi identitari, di ricerca di identità, per la somma di questi
percorsi fa si che si ci sia una fruizione molto forte della produzione culturale,
musicale e teatrale e anche innovativa a volte, ma fondamentalmente sono i
corpi e la comunicazione quotidiana negata che viene ricostruita a puntate
a frammenti in queste lunghe serate come un elemento indispensabile all’equilibrio,
indispensabile alla propria vita e anche quando nell’intenzione dei collettivi
di gestione che per una loro parte avrebbero aspettative molto forti di un
ritorno politico della loro azione, sono quelli di tipo classico, questo avviene
accettato come una componente della frequentazione dello spazio di quel luogo
ma in realtà non interessa particolarmente. Quello che è il luogo spazio sociale
è una macchina spontanea di costruzione, di comunicazione e di fruizione di
culture come un bisogno insopprimibile a fronte di una distruttivo vissuto
del panorama sociale esterno di appartenenza.