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Dall'oralità alla scrittura

alla comunicazione telematica

 

 

di Antonio Caronia

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(conferenza a cura di Tommaso Tozzi per il progetto “Arte, Media e Comunicazione”, 1997)

Vorrei parlare delle trasformazioni che stanno subendo i mezzi di comunicazione, e della possibilità che noi si stia assistendo a un cambiamento, all’emergere di sistemi di comunicazione nuovi, e che quindi si possa dire (per lo meno questa è la mia ipotesi) che ci si avvii a una fase nuova della storia dell’umanità, visto che anche in passato i cambiamenti più profondi dei modi di pensare e di associarsi dell’uomo sono stati segnati, come ci ha insegnato McLuhan, dai mutamenti della comunicazione.

Sempre McLuhan ci ha insegnato che tutte le tecniche, in qualche misura, sono strumenti di comunicazione; ma naturalmente ci sono tecniche che più di altre sono orientate alla comunicazione. La prima, la più antica e fondamentale tecnica di comunicazione dell’uomo è quella che io sto usando in questo momento, atteggiando in vario modo alcune zone del mio corpo (le corde vocali, la lingua, tutta la bocca come cassa di risonanza) e producendo attorno a me delle onde di compressione e rarefazione dell’aria, onde sonore che, opportunamente codificate e interpretate, giungono attraverso gli organi dell’udito a certe zone del cervello degli esseri umani circostanti, e vengono interpretate come linguaggio.

Il linguaggio parlato, insomma, è la prima tecnica di comunicazione propria dell’uomo, ed è una tecnica forse un po’ particolare, perché è molto “interna”; però in qualche modo è anch’essa una protesi , come erano già protesi i primi oggetti di pietra scheggiata, e successivamente tutti gli utensili sempre più complessi che la specie umana si è costruita. Il linguaggio è una tecnica interna perché nasce all’interno del nostro corpo, ma in qualche modo è già una protesi, perché modifica il mondo fisico intorno a noi e consente la comunicazione di una parte del contenuto interno della nostra mente, di ciò che si agita in questo luogo, per certi versi misterioso, che è la nostra mente; attraverso la parola parlata noi possiamo mettere in comune non tutti, certo, ma una qualche parte di questi contenuti, rendendoli disponibili anche per altri esseri umani.

 

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La parola parlata è la tecnica di comunicazione fondamentale, e quella che più a lungo ha dominato e strutturato i rapporti fra gli uomini. Le società che hanno durato più a lungo, dai cento/duecentomila anni fa fino a duemila/mille anni prima di Cristo, sono state società orali. In quel torno di tempo (un po’ prima, in realtà) comincia a emergere in varie zone del mondo una nuova tecnica di comunicazione, che consente di fare cose che la parola palata in quanto tale non potrebbe consentire. Questa tecnica di comunicazione è la scrittura, che si presenta dapprima in forma ideografica o pittografica, una sorta di registrazione (o trascrizione) su di un supporto fisico della parola parlata attraverso dei segni (e quindi attraverso la codificazione di un insieme di regole socialmente contrattate e accettate). Queste tecnica consente di appunto di registrare la parola parlata, di toglierla dall’immediatezza del qui e ora a cui la sua natura inevitabilmente la confina, e quindi di utilizzare la trascrizione di questa parola parlata in ambienti, condizioni e tempi diversi da quelli nei quali la parola parlata viene prodotta.

 Fra tutti i sistemi di segni che si sono succeduti nell’area mediterranea uno, negli anni fra il 1800 e il 1500 a.C., si afferma come particolarmente versatile e duttile, ed è l’alfabeto sillabico dei fenici: esso consente di dividere la singola parola o la singola frase in unità più piccole (appunto le sillabe), combinando le quali con pochi segni - con meno segni che non con i sistemi ideografici o pittografici - si possono ricostruire potenzialmente tutte le parole, tutte le frasi, tutte le espressioni che vengono prodotte nella lingua parlata. Quando alcuni secoli dopo, fra il 1000 e l’800 a.C., i greci aggiungono all’alfabeto fenicio quella fondamentale invenzione che è la vocale (che nella versione fenica non esisteva), l’alfabeto sillabico, o fonetico, è pronto per espandersi in tutto il mondo allora conosciuto, e per costituire il fondamento delle nuove forme di comunicazione.

L’alfabeto sillabico è stato lo strumento che ha consentito alla rivoluzione neolitica, cioè alla rivoluzione agricola (che a lungo, nei millenni precedenti, aveva convissuto con la nomadicità dell’uomo e con le mentalità connesse alla sua attività di caccia e di raccolta) di espandersi e di diventare il modo di produzione dominante di tutto il mondo allora conosciuto (parlo sempre dell’area mediterranea e poi, a poco a poco, delle altre zone dell’Europa). E dopo alcuni secoli (con l’altra fondamentale invenzione della stampa a caratteri mobili) l’alfabeto diventa la base su cui si costruisce anche quell’importantissima trasformazione e sviluppo della società neolitica che è la società industriale (e questa è una storia di pochi secoli fa, e non di millenni, come la precedente).

Comunque, sia nell’epoca agricola che in quella industriale, l’uomo è vissuto sotto il segno della scrittura, che subordinava a sé tutti gli altri mezzi di comunicazione esistenti (sia quelli precedenti come l’oralità e l’immagine, sia quelli seguenti), li strutturava, li dominava: cosa che in gran parte fa ancora oggi. La scrittura ha moltissimi meriti, ma anche alcuni importanti difetti, o perlomeno alcune caratteristiche peculiari che spiegano, almeno in parte, come mai tutte le esperienze sociali dell’uomo dal neolitico in poi siano state basate, in qualche modo, su forme di rigidità, di dominio, e soprattutto di irreggimentazione del corpo. Da quando l’uomo ha smesso di essere nomade, attraverso la scrittura c’è stata una sorta di ossificazione, di dogmatizzazione del pensiero: è vero che la scrittura è stata spesso strumento di dialettica sociale, che è stata utilizzata anche da gruppi sociali subordinati per combattere questo loro stato di subordinazione, ma ciò è avvenuto sempre all’interno di un “patto” fra chi scrive e chi legge (o chi ascolta la parola scritta), che assicura autorità a chi scrive e non a chi legge, e che quindi rende fondamentalmente asimmetrica la comunicazione.

 

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Oggi, nell’era del digitale, abbiamo strumenti di comunicazione in cui si uniscono la parola, l’immagine, il suono, tutto ciò che l’uomo ha prodotto nel corso dei millenni per comunicare all’interno della specie e per agire poi sull’ambiente esterno (la cosiddetta “natura”). Ora, con la nuova generazione di mezzi digitali, tutto ciò diviene in primo luogo ampiamente manipolabile, cioè trasformabile in modo molto più veloce, molto più potente, molto più radicale, molto più profondo che in qualsiasi altro mezzo di comunicazione del passato. Questa è il primo aspetto che caratterizza i nuovi mezzi.

L’altro importante aspetto che li caratterizza, e ne garantisce la novità, è il fatto che, con il matrimonio dell’informatica e delle telecomunicazioni (la cosiddetta telematica), la verticalità e la asimmetria della comunicazione possono venire d’un colpo superate, spezzate. La linea di comunicazione digitale è realmente simmetrica, cioè chi riceve messaggi può a sua volta mandarne, sullo stesso livello, con lo stesso rango, con pari dignità comunicativa rispetto a chi storicamente è stato deputato a svolgere questa funzione.

La televisione, che è stato l’ultimo grande mezzo di comunicazione dell’era della scrittura, è un mezzo di comunicazione tipicamente asimmetrico, tipicamente verticale, in cui uno parla e molti ascoltano, uno parla e molti ricevono la comunicazione senza essere in grado di poterla modificare, o di poter rispondere in tempo reale, direttamente. Il telefono, che in fondo è anch’esso un altro strumento dell’era della scrittura, ma che forse comincia a superarla in maniera più radicale che non la televisione, consente una comunicazione completamente interattiva, completamente simmetrica, ma limita il numero degli interlocutori: una persona da una parte della linea, una persona dall’altra. I nuovi sistemi di comunicazione telematica, invece, sono una specie di telefono potenziato, una specie di telefono televisivo, in cui molti possono comunicare con molti, e hanno tutti pari grado e pari dignità. Le disuguaglianze che si verificano non dipendono da una condizione a priori della comunicazione, ma dalla natura concreta degli atti comunicativi: chi parla di più, chi è più capace di dire cose, avrà uno spazio maggiore, ma per quanto riguarda i punti di partenza siamo tutti sullo stesso piano.

Adesso quello che io osservo in questi anni è una grande discussione, una grande trasformazione, una grande lotta intorno a questi strumenti, perché naturalmente una parte della società, cioè coloro che detenevano (e detengono) una sorta di monopolio comunicativo, perché fanno parte del vecchio assetto degli strumenti di comunicazione - che è collegato evidentemente con il sistema di potere di questa società - sta tentando di depistare, apertamente o subdolamente, questo carattere potenzialmente rivoluzionario dei mezzi di comunicazione digitale per asservirli, per farli tornare dentro una logica di tipo gerarchico, verticistico, strutturato, in cui ci sia una fondamentale asimmetria fra le due posizioni di emittente e di ricevente.

Personalmente (e credo che molti condividano questo giudizio) giudico uno dei problemi politicamente e socialmente fondamentali di questa epoca la possibilità di conservare, difendere, ampliare il carattere interattivo e partecipativo dei nuovi sistemi di comunicazione, che non sono in alternativa alla vita reale, ma ne costituiscono un arricchimento; e all’interno di questo quadro la possibilità di allargare il tipo di esperienze che il singolo può fare con questi strumenti, intesi, lo ripeto ancora una volta, non come alternativi, perché servono per tornare poi alla vita reale e lì applicare, ravvivare con nuove esperienze le esperienze possibili nella vita concreta.

Questa credo che sia oggi la posta in gioco fondamentale che ha di fronte a sé, complessivamente, l’umanità: tentare di superare le divisioni, che non sono più fra est e ovest, ma fra nord e sud del mondo, fra popoli e culture ricchi e popoli e culture meno ricchi, in primo luogo sul piano della comunicazione oltre che dei beni materiali (perché le due cose sono poi, io credo, strettamente collegate). Da questo punto di vista tutti gli strumenti espressivi che circolano all’interno di questa nuova costellazione di mezzi, tra cui certamente le esperienze artistiche di qualunque tipo, visivo, verbale, sonoro, musicale, possono dare (e io credo che stiano dando, in certi casi) un grande contributo; ma in ultima analisi è soltanto sulla capacità di ciascuno di noi di appropriarci di questi mezzi, di lavorare, di combattere anche per conservare loro questa caratteristica ampia, democratica, partecipativa, che in larga misura si decideranno gli assetti futuri delle nostre società, dei rapporti fra noi, della nostra esperienza nel mondo.