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Esperienze di controinformazione:

dal ciclostile al network eterno

 

 

di Vittore Baroni

indice

(conferenza a cura di Tommaso Tozzi per il progetto “Arte, Media e Comunicazione”, 1997)

 

 

 

C’é chi fa risalire le origini della comunicazione controculturale su stampa a tempi molto remoti, addirittura Nico Ordway cita come precursori in un suo saggio (in Zines!  vol.1, V-Search, San Francisco 1996) i Vangeli apocrifi e i libelli di sette religiose medioevali, o anche le riviste delle avanguardie storiche, dadaisti e futuristi, che diffondevano idee in totale contrapposizione con quelle dell’arte ufficiale del tempo.

Il fenomeno che più immediatamente si identifica col termine “controcultura” è però quello della underground press degli anni ’60, germogliata dai semi gettati nel decennio precedente dalle riviste che hanno accompagnato la nascita della letteratura Beat: una forma di stampa indipendente e battagliera, in aperta opposizione con l’establishment politico e l’ideologia dominante del tempo, che ha saputo conquistarsi una diffusione planetaria, cementando fra loro i diversi interessi della cultura psichedelica delle tribù hippie (protesta antimilitarista, misticismo orientale, musica rock, grafica e fumetto, liberalizzazione di marijuana, esperimenti con LSD, ecc.). Con qualche anno di ritardo rispetto agli Stati Uniti, la stampa sotterranea è approdata anche in Italia, con le pubblicazioni di Stampa Alternativa, una piccola casa editrice romana diretta da Marcello Baraghini, ancora oggi viva e vegeta, e numerose altre riviste più o meno effimere, fra cui le più note furono all’epoca Fallo! (con i fumetti di Matteo Guarnaccia, che ha curato nel 1988 proprio per Stampa Alternativa il volume storico-retrospettivo 1968-1988 Arte psichedelia e controcultura in Italia), Re Nudo, Get Ready, Om, Puzz, Tampax, Pianeta Fresco.

L’intera storia della comunicazione controculturale è legata a filo doppio a quella dell’evoluzione dei sistemi di stampa e, soprattutto negli ultimi due decenni, delle diverse tecnologie multimediali impiegate nella diffusione delle notizie. Nei ’60 non esistevano ancora molti sistemi di stampa “casalinghi” ed economici. Il ciclostile a manovella veniva utilizzato, oltre che per i diffusissimi volantini politici, anche da alcuni giovani poeti per creare micro-edizioni (spesso censurabili nel linguaggio, quindi difficilmente proponibili a case editrici overground, vedi i poemi di Tuli Kupferberg, futuro membro dei Fugs). Il ciclostile aveva però limiti estetici e pratici molto evidenti. Le più rappresentative riviste dell’underground press venivano quindi stampate con normale procedimento tipografico, il che presupponeva tirature piuttosto elevate e un notevole sforzo finanziario. Per far sì che si potessero distinguere a prima vista le testate sotterranee da quelle ordinarie, si ricorreva però ad espedienti creativi, spingendo ai limiti le possibilità tecniche offerte dalle rotative e dai colori in commercio, sperimentando con la sovrapposizione di testi e immagini, con l’uso di cromatismi nuovi e sorprendenti (ma perfettamente adeguati ai contenuti “psichedelici”), con impaginazioni libere e imprevedibili, arrivando addirittura a compromettere una chiara lettura del testo (ottimo esempio è il popolare San Francisco Oracle, giunto a tirare decine di migliaia di copie).

 Al problema fondamentale della distribuzione, si cercò di ovviare nei ’60 creando delle vere e proprie strutture alternative, costruendo una capillare rete distributiva “di movimento” (strillonaggio nelle strade, presenza a concerti, scuole, università e manifestazioni politiche, vendita in “head shops”, negozi di dischi, librerie, ecc.). L’Underground Press Syndicate era invece un’agenzia creata per tutelare gli interessi degli autori sotterranei (artisti, fumettisti, giornalisti, ecc.), permettendo al tempo stesso a riviste underground senza fini di lucro di diversi paesi la traduzione e pubblicazione gratuita dei materiali alternativi.

L’epoca aurea dell’underground press va dalla metà degli anni ’60 alla metà del decennio successivo, cedendo poi il testimone (anno cardine il 1976) a una nuova generazione di riviste autoprodotte, stavolta realmente “fatte in casa”, le fanzines che accompagnano la nascita del punk. Tenendo fede al motto do-it-yourself e sfruttando le possibilità delle sempre più versatili macchine fotocopiatrici, queste testate, con riferimenti visivi in parte voluti e in parte casuali all’estetica collagistica dei dadaisti, sono spesso prodotte da un’unica persona, col semplice impiego di colla, forbici e macchina da scrivere. La stampa underground dei ’60 era il risultato di una cultura e di uno sforzo collettivistico, nella produzione come nella distribuzione, le fanzines punk sono invece l’esaltazione del fai-da-te individualista, e spesso limitano i loro interessi alla scena musicale. Sniffin’ Glue di Mark Perry, la prima e più celebre fra queste pubblicazioni, nasce negli ultimi mesi del ’76 ed è spesso assemblata dal suo autore in poche ore, riuscendo così a battere sul tempo gli organi di stampa ufficiali: il numero con la recensione di un importante concerto poteva essere stampata (nella copisteria più vicina, anche in poche decine di copie) e diffusa nei punti vendita disposti ad ospitarla (negozi di dischi e simili) già a poche ore dall’evento, spesso anticipando fenomeni e tendenze del gusto giovanile.

Le fanzines, nate a Londra e New York, si sono poi anch’esse rapidamente diffuse in ogni angolo del pianeta: come nel caso della musica punk, ad una fase esplosiva iniziale, di grande entusiasmo e freschezza di contenuti, è seguita una implosione, un recupero “commerciale” del fenomeno, con chiusura repentina di molte testate e la trasformazione di altre in riviste più patinate se non addirittura mainstream (è ad esempio il caso del periodico musicale ZigZag). Un fenomeno analogo era avvenuto del resto nei ’60, riviste di successo come Creem e Rolling Stones erano nate in origine come fogli alternativi.

Nei primi ’80, contemporaneamente all’annacquarsi delle fanzines legate ai fermenti punk e new wave, si assiste però anche ad un nuovo ricambio generazionale nella stampa controculturale, in concomitanza con la disponibilità a prezzi abbordabili dei primi Personal Computer, che determinano un ulteriore passo in avanti nell’ottica del fai-da-te: la possibilità di fotocomporre i testi a casa propria e di impaginarli in maniera professionale, con gran varietà di caratteri e soluzioni grafiche a portata di mouse. Grazie alle nuove meraviglie del desk-top publishing chiunque può facilmente preparare una rivista con caratteristiche similari alle pubblicazioni da edicola, ed è possibile gestirne la tiratura con assoluta fluidità, producendo dieci come diecimila copie.

Un ulteriore trasformazione dei canali di controinformazione si ha infine dai primi anni ’90 con la crescente diffusione di BBS e reti telematiche: nascono riviste elettroniche che viaggiano per e-mail o sono gratuitamente consultabili in siti web, testate “virtuali” sempre meno disponibili anche sul tradizionale supporto cartaceo, ma dal potenziale comunicativo teoricamente illimitato. E’ questo una sorta di stadio terminale nella diffusione di materiali controculturali, sia per l’apertura del mezzo che per la relativa economicità di produzione, anche se la cultura di rete implica comunque nuove problematiche riguardanti la reale accessibilità per tutti delle tecnologie digitali, la libertà di espressione e il rischio di censura in rete, l’effettivo livello di interattività fra lettori ed editori, il pericolo del ricrearsi di filtri e strade a senso unico a somiglianza dell’editoria tradizionale (costi di abbonamento, pubblicità, ecc.).

Anche la cultura di rete non si è però materializzata improvvisamente dal nulla. Esistono diverse esperienze che hanno fatto da apripista, precorrendo modalità e logiche della comunità virtuale di Internet, pur senza far uso di strumenti altrettanto sofisticati. Dalla metà dei ’60, ad esempio, un circuito internazionale a suo modo “virtuale”, essendo del tutto privo di una struttura rigida o gerarchica e di regole dogmatiche da osservare, è quello dell’arte per corrispondenza (o mail art), un fenomeno che ha coinvolto e ancora coinvolge decine di migliaia di operatori, aperto a tutti, dai professionisti dell’arte ai semplici curiosi, e basato sul libero e gratuito scambio di materiali di qualsiasi genere (grafiche, cartoline, timbri e francobolli autoprodotti di terre immaginarie, ma anche testi, cassette audio, video, mail art zines, cataloghi, manifesti, ecc.). Nata per evadere dalle gabbie dell’arte ufficiale, per sfuggire alla forca caudina delle mafie di critici ed esperti che regolano accesso a riviste e musei, l’arte postale ha origini storiche “nobili” nell’ambito del gruppo artistico Fluxus, in particolare nella persona del collagista pre-Pop Ray Johnson, ma al suo interno sono ben presto confluite esperienze creative controculturali di ogni genere, provenienti dall’underground internazionale.

La mia scoperta dell’arte postale è avvenuta in maniera quasi casuale. Sul finire dei ’70, sulla rivista Flash Art sono apparse pubblicità a piena pagina di un certo Guglielmo Achille Cavellini, un artista bresciano ora scomparso, che offriva gratuitamente a chiunque li richiedesse i cataloghi delle proprie esposizioni. Cavellini appariva in sella ad una buffissima bicicletta e la cosa mi ha incuriosito al punto di richiedere tali libri, da cui ho appreso dell’esistenza di questo invisibile circuito alternativo. La pratica dell’arte postale mi ha certamente aiutato ad aprire gli occhi sulla possibilità, anche abitando in provincia, di tessere contatti con il mondo intero, senza alcun complesso di inferiorità rispetto a quanti operano in grandi metropoli. Quel tipo di esperienza che oggi chiunque è in grado di fare mediante un abbonamento ad Internet, ho avuto la fortuna di poterla sperimentare già vent’anni fa. L’arte postale ha poi generato nel tempo tutta una serie di sotto-circuiti ad essa collegati, più specialistici nei materiali diffusi, come il tape network, formato da musicisti che invece di bussare alla porta delle case discografiche si autoproducono piccole edizioni casalinghe su cassetta, da scambiare tra di loro o vendere e circolare per posta.

La controcultura si serve quindi, in ogni periodo storico, di quei canali capaci di offrire il più alto grado di comunicazione libera e indipendente, al minor prezzo. Col volgere dei decenni però, quelle produzioni editoriali che un tempo erano facilmente identificabili come alternative e di opposizione (per caratteristiche formali e canali distributivi utilizzati), si sono gradualmente assimilate e mimetizzate con le produzioni overground, di modo che risulta sempre più difficile distinguere, in una testata trovata in libreria come in un sito web, tra contenuti di prima mano e riciclaggio più o meno interessato dei medesimi, secondo una pratica ormai consolidata di assorbimento e recupero istantaneo di mode e proposte culturali provenienti dall’underground.

 

 

NOTE:

 

 

MARCELLO BARAGHINI

 

Intervista raccolta da Vittore Baroni nel Settembre 1992.

 

   In che anno e in che circostanze è nata Stampa Alternativa?

     E' nata esattamente agli inizi del 1971, l'idea fu sollecitata da un vecchio amico, deceduto nel frattempo. Come me, egli covava un senso di frustrazione, perché tutto quello che stava uscendo fuori dall'area della sinistra cosiddetta rivoluzionaria dell'epoca si stava trasformando in barbarie politica, stava calando una grande cappa di conformismo di sinistra, dove tutto obbediva a ferree leggi di ideologia, di squadra, di gruppo. Non c'era più alcuno spazio dopo il grande movimento libertario, che ho vissuto in prima persona, del '68. In quell'anno stavo pensando di rimettermi a fare l'autostop in giro per l'Europa. Incontrai questo amico, Livio Cavani, che mi disse: "perché non facciamo un'agenzia di servizi di contro-informazione sul modello americano, e perché non la chiamiamo - ci ho pensato un po' - Stampa Alternativa, dato che è informazione ed è alternativa, noi useremo la rete alternativa...". Ecco, tutto è cominciato con questo piuttosto umile approccio, come tutte le altre cose che ho fatto, non c'è mai stato all'inizio un progetto lucido, ma piuttosto rabbia, o voglia, o gioia, o incazzatura sull'onda di emozioni...

 

     Esisteva quindi già un circuito estero di riviste underground quando siete partiti, in che modo vi siete collegati ad esse?

     In realtà il nostro fu un fenomeno tutto italiano, romano e di due persone, io e questo Livio. Lui leggeva molto la roba americana, io un po' di quello che arrivava dall'inghilterra. Già esisteva l'Underground Press Syndicate, avevamo letto qualcosa dalla stampa internazionale, ma partimmo praticamente da zero, non avendo nessun modello di riferimento né ideologico né concreto. Ci siamo poi collegati e abbiamo fatto libri assieme all'UPS e al BIT londinese, da un certo punto in poi è nata un'internazionale radicale underground che ha funzionato meravigliosamente per anni, influenzando molte delle nostre scelte ed iniziative.

 

     Quando sono apparse le prime riviste underground italiane, le varie Fallo!, Get Ready, Puzz?

     Noi anticipammo un po' i tempi, ma la stessa mia insofferenza personale covava certamente nel cuore e nella mente di moltissima gente, noi demmo forse la stura a delle esigenze che esistevano, tanto di informazione quanto di collegamento e di servizi. Fatto sta che, a ridosso delle prime nostre sortite, cominciarono subito a muoversi diverse iniziative.

 

     I vostri libretti ebbero all'epoca, se ben ricordo, un'ottimo successo.

     Il successo fu travolgente fin dai primi titoli, libretti come Andare in India e Fare Macrobiotica, argomenti fra l'altro che a quei tempi suonavano come una bestemmia. Sull'onda di quei primi opuscoli nacquero poi, l'anno successivo,  materiali sulla droga e l'idea dei servizi: auto-organizzazione di concerti, assistenza legale e consulenza medica (su droga, omosessualità, contraccettivi, aborto, obiezione di coscienza). Io avevo già la testata registrata, quindi offrivo anche la possibilità ad altre riviste non registrate di uscire come supplemento a Stampa Alternativa. Era un  servizio per così dire "caldo", nel senso che non si trattava solo di prestare la firma come Direttore (come poi è continuato a succedere negli anni '80 e '90), ma c'era uno scambio reale di materiale, di informazioni e di supporto reciproco. Sempre dal secondo anno, dal 1972, facemmo un foglio quindicinale, che nel periodo ruggente stampava 30-40.000 copie, e che conteneva informazioni sui materiali disponibili che noi accentravamo e ridistribuivamo, come sui concerti, gli spettacoli, la disponibilità dei gruppi musicali e così via. Uscì anche il libretto Fare controinformazione, che ebbe un grosso riscontro, e per quanto riguarda la musica ci aiutò molto Il Branko di Casale Monferrato, un gruppo che si attrezzò con un furgone scassato per poter girare i vari concerti autogestiti, con cui stampammo Era ora, un manuale come  gli altri citati dal prezzo irrisorio, che per primo affrontava il discorso delle strutture musicali alternative: come si registra una cassetta, cos'é un impianto voci, le autorizzazioni per gli spettacoli, le poche cose che servivano allora - oggi sono molte di più - per autogestire un evento dal vivo.

 

     Un problema che si è spesso posto la stampa underground è quello del libero diritto d'autore. Qual'è la tua posizione nei confronti del concetto di copyright, ieri e oggi?

     Mi pongo sempre nello stesso modo, sono cambiate forse le modalità operative con cui mi muovo. Ho sempre sostenuto che chi scrive, scrive per i lettori, non scrive o non dovrebbe scrivere per gli editori, quindi la parola scritta è un bene dei lettori. Partendo da questa considerazione, io sono contro il copyright, ho fatto decine di libri sapendo di violare la legge. Con mia sorpresa è avvenuto una specie di miracolo a livello legale, quando i grandi editori tipo Einaudi o Mondadori mi hanno pizzicato, l'autorità inquirente mi ha dato i "particolari motivi di ordine morale", cioè ha detto "tu hai compiuto un reato cosciente, ma hai dei motivi talmente validi, per cui derubrichiamo il reato e ti diamo una contravvenzione di 50.000 lire". Nella nuova serie di libri Millelire, ad esempio, io lascio il copyright all'autore, non mi interessa detenerlo. La premessa per me fondamentale è che chi scrive lo fa per i lettori, quindi più è possibile far fruire, far partecipare il lettore alla parola scritta, e meglio è. Evviva le fotocopie, quindi, i libri pirata e questo tipo di iniziative, di cui sarò sempre propugnatore e realizzatore.

 

     Esiste ancora, ha senso parlare oggi di una contro-cultura, e se esiste, ha ancora un suo pubblico?

     Mah, è un po' una riserva indiana. Io ho molta paura di questi tempi dei giardini zoologici. La cappa di conformismo culturale e sociale che ancora oggi ci sovrasta non si spezza certamente rinchiudendoci nelle riserve indiane dell'underground, dell'alternativa, di Rifondazione Comunista, eccetera. O troviamo dei momenti di crescita, di lotta e di iniziativa che riguardano ormai tutti, altrimenti siamo veramente fottuti in partenza.

 

     Che impressione ti sei fatto, se le conosci, delle fanzines che circolano oggi, anche rispetto a quelle di vent'anni fa?

     Io le trovo molto intimiste, molto decadenti, molto più "riserva indiana". Nelle fanzines degli anni '70 c'era più rabbia, anche se non mancavano neppure l'intimismo, la poesia, i deliri culturali. I temi delle nostre campagne e battaglie di allora erano temi continuamente affrontati nelle fanzines. Oggi sono veramente più che altro voci di delirio: va bene tutto, è una resistenza benvenuta anche quella, ma non altrettanto efficace.

 

     Voi solo di recente, con le Millelire, siete tornati ad occuparvi di autori "contro-culturali" come Hofmann e Metzner, come mai negli anni '80 avete un po' abbandonato questo campo in favore di classici dell'illustrazione e della narrativa?

     Negli '80 c'è stata una battuta d'arresto, una riconsiderazione, uscivamo dallo sfascio, dall'autoscioglimento di Stampa Alternativa alla fine del 1976, dovuto al mandato di carcerazione nei miei confronti e anche all'esaurimento di una certa fase. Nel '77 un'amnistia spazzò via tutti i vari procedimenti giudiziari per reati di opinione, io poi creai una cooperativa agricola giovanile, feci per un po' il pastore a Sorano in Toscana, poi mi rivenne voglia di fare libri e ricominciai nel 1979, da solo e per divertimento. La chiave era bei libri a prezzo popolare. Fui travolto subito dal successo, quindi dovetti diventare impresa editoriale. Mi piaceva guardarmi intorno, sperimentare nuovi modi con cui la parola scritta poteva essere organizzata. Le Millelire è il progetto che meglio si riaggancia all'attività degli anni '70. Ciò che si propongono questi libretti di formato tascabile, numero ridotto di pagine e prezzo simbolico (mille lire, appunto), per i quali - prima che incontrassero il successo di questi ultimi mesi - ho avuto la derisione e lo scherno di tutti gli operatori ufficiali, è anche di strappare quanta più memoria possibile al passato, in un momento in cui meno si parla di cose forti che son successe, scritti, autori, battaglie, eccetera, più il conformismo ne è contento. Anche se non c'è più la tensione di un tempo e personaggi della contro-cultura come Leary o Ginsberg forse sono cambiati (ognuno va avanti per le sue strade), posso comunque anticipare che usciranno altre cose, come un testo di Kerouac inedito in Italia e una serie di titoli sulle realtà virtuali. Stiamo tenendo un occhio sia sulla vecchia controcultura che sta producendo cose nuove, che sulle nuove tendenze. Credo che ci saranno parecchie sorprese nel 1993.

 

     Mi pare che i libri di Stampa Alternativa abbiano sempre avuto una circolazione un po' particolare, non li si trova in tutte le librerie, come mai?

     Non è certo una scelta nostra, ormai c'è questa mannaia della distribuzione che penalizza tutti e penalizza anche noi. Infatti, se non avessimo avuto la trovata geniale delle Millelire avremmo chiuso, come credo chiuderanno quasi tutti gli editori indipendenti. La situazione è questa, o si trovano dei modi completamente nuovi per comunicare la parola scritta, per gestirla, per distribuirla, per proporla, per diffonderla, o si resta strangolati dalla distribuzione, dallo Stato, dalle banche, dalle librerie. Il che significa a mio avviso da un lato dover abbattere la barriera di accesso, che comunque è sempre anche il prezzo, e dall'altro recuperare nuova parola radicale, nuovi contenuti, memoria provocatoria. Ad esempio, Raoul Vaneigem adesso vuole darmi un suo inedito...

 

     In che modo il progetto Millelire è qualcosa di più di una semplice collana letteraria?

     Come ho già detto, c'è un aggancio ideale col passato, secondo me non siamo mai stati così "alternativi" come ora, pur non operando nel ghetto come molte esperienze contro-culturali residue. Allora, anche noi vivevamo per scelta in un ghetto, che era però in realtà una vasta area, oggi forse per la prima volta ci dispieghiamo, con questo progetto Millelire non siamo più nell'area, siamo nel Paese.

 

     Possiamo definire l'esperienza delle Millelire una sorta di nuovo "circuito" culturale?

     Ormai arrivano qualcosa come duecentocinquanta lettere al giorno, in risposta all'appello che è pubblicato su ogni Millelire. E' qualcosa di travolgente, me lo sogno veramente la notte. Proverò a spiegarmi in questo modo: in realtà è un non-partito che si sta costituendo. Cioè, di fronte a una società civile organizzata che ormai è retorica e vecchia come il cucco, che viene spesa per vendere rottami e becera evasione, c'è invece sempre più gente che, stando al di fuori con un piede dentro, vuole il rinnovamento dei contenuti, dei metodi, ma non un rinnovamento ideologico. Sento che stiamo mettendo in piedi il non-partito, con la sua non-ideologia, non-linea politica, non-comitato centrale, non-deputato, non-senatore, che è però il partito di coloro che ancora hanno barlumi di cervello, di volontà, di resistenza umana. Quello che sento, come fu per Stampa Alternativa agli inizi - certi meccanismi si ripetono perché sono poi quelli fondamentali - è che ci sono esigenze impellenti e vitali per la sopravvivenza dell'intelligenza, la domanda è potente in questo senso...

 

     Ma se la risposta alle Millelire è così imponente, fino a quando Stampa Alternativa sarà in grado di gestirla?

     In questo momento c'è questa situazione che ci porta a dire "per fortuna" da una parte e al tempo steso "oddio!", perché non è cosa da nulla ricevere duemilaottocento manoscritti, al di là di un discorso qualitativo, o duecentocinquanta lettere al giorno che non sono quasi mai normali schedine di ordine, contengono messaggi del tipo "ho quarant'anni, mi sono rotto le palle" oppure "ne ho diciassette, non sò che cazzo fare, cosa posso fare con voi" o semplicemente "sono contento che esistiate, continuate così". Certo che tutto deve partire secondo me da questa non-organizzazione, non-linea, non-ideologia, non-partito. Ogni Millelire è come una scheggia impazzita, vorrei che ogni libro fosse agli antipodi del precedente (classici, esordienti, fumetto, poesia, documenti, eccetera). Voglio fare libri anarchici, stimoli, "massaggi cardiaci per le intelligenze" ha scritto il Corriere, dopodiché che ognuno, ancora una volta usando il formato Millelire, il servizio supplemento a Stampa Alternativa, gli archivi che abbiamo, faccia quello che riesce a fare.

 

     Qual'è dunque la mossa successiva, cosa verrà dopo le Millelire?

     Io mi sono inventato una prima risposta, e sono i cantieri culturali, dove vado con la gente per parlare di parola scritta, libri, memoria. A Bari, abbiamo un pullman a due piani che ci è stato regalato dall'azienda di autotrasporti - pensa che cosa si è mosso - l'anno prossimo speriamo sarà pronto a partire per tutta l'estate come cantiere itinerante. Le Millelire sono spesso solamente un pretesto, per cominciare finalmente a leggere, e per fare molto di più. In autunno esce Il Lettore armato, ovvero un manifesto dei diritti del lettore, il lettore che lotta per un'ecologia della lettura, contro l'inquinamento dell'intelligenza. Il mio sogno è che fra un anno Il Lettore Armato e le bibliografie ragionate del Cantiere Bibliografico (di cui stiamo diffondendo ora il bando) suscitino una tale presa di coscienza che io non avrò più motivo di esistere. E' il non-partito auto-organizzato. Io stesso come editore riterrei il mio maggior indice di successo l'auto-scioglimento dei libri Millelire di Stampa Alternativa a favore di mille circoli di lettura, i quali se vorranno si faranno da soli le loro Millelire.

 

     Diventeresti insomma una sorta di editore concettuale, di "agitatore editoriale".

     Esatto, lo spirito è questo: che forse è ancora possibile fare con il libro guerriglia culturale, così come è possibile farlo con le riviste/fanzines, se si ha il taglio giusto, se si evita il ghetto.

 

 

 

MAIL ART ZINES

 

(articolo del 1993 per il catalogo di una mostra di fanzines)

 

Per chi non ne avesse mai inteso parlare, la mail art è una forma di espressione multi-mediale (ma perlopiù cartacea) dai confini non ben definiti e definibili, una "rete eterna" e sotterranea di contatti fra operatori culturali, aspiranti tali o semplici curiosi di tutto il mondo, andatasi costruendo e ampliando a partire dai primi anni 60, sul modello di mostre e progetti postali collettivi ideati dall'artista americano Ray Johnson e altri membri del gruppo Fluxus. Aperta a chiunque, anarchicamente (e surreal-dadaisticamente) priva di regole prefissate, la mail art contempla essenzialmente lo scambio gratuito e disinteressato, attraverso i canali postali, di materiali grafici, poetici, politici, satirici, pornografici o di qualsiasi altra natura, finalizzati ad un puro e semplice confronto privato di idee ed esperienze oppure ad esposizioni pubbliche a tema (solitamente tenute in spazi non istituzionali, e di cui viene usualmente inviato ad ogni partecipante un catalogo o documentazione gratuita, in cambio dei lavori originali), o anche alla pubblicazione su artigianali rivistine "postali".

Per quanto l'esistenza di riviste di mail art possa a prima vista apparire un controsenso, essendosi l'arte postale sviluppata proprio quale alternativa alla comunicazione impersonale, dogmatica e "a senso unico" dei mass media, la creazione e diffusione quasi sempre gratuita di piccole pubblicazioni fatte in casa è una pratica estremamente diffusa fra i più attivi "networkers". E' difatti oltremodo difficile mantenere in vita una corrispondenza altamente personalizzata, quando il numero dei contatti comincia a passare dall'ordine delle decine a quello delle centinaia se non addirittura delle migliaia (la popolazione globale dei circuiti mailartistici è stata stimata aggirarsi attorno alle centomila unità!): il ricorso alla fanzine permette di evitare una dolorosa selezione dell'indirizzario.

In Italia, dove l'arte per corrispondenza ha iniziato a diffondersi solo nella seconda metà degli anni 70, grazie alle operazioni concettuali di "autostoricizzazione" di Guglielmo Achille Cavellini e alle prime pionieristiche esposizioni curate dal C.D.O. di Parma, si è assistito nel corso degli ultimi due decenni alla nascita (e spesso rapida scomparsa) di almeno un centinaio di testate specificamente mail-artistiche. La capostipite e anche la più longeva fra tali pubblicazioni è Arte Postale! (con punto esclamativo, per rafforzare il senso di "diversità" rispetto alle espressioni artistiche tradizionali), fondata dal sottoscritto nell'Ottobre 1979 e ancora sporadicamente in attività, con 68 numeri usciti in formati e tirature variabili (dalle 100 alle 500 copie). Nelle sue prime cinquanta uscite, Arte Postale! ha adottato la formula dell'assemblaggio di pagine originali fornite dai diversi partecipanti (sull'esempio della storica testata Assembling del critico-poeta newyorkese Richard Kostelanetz), un procedimento largamente impiegato anche da altri, che ben evidenzia la natura collettiva, cooperativa e non competitiva di ogni progetto di mail art che si rispetti. In sintesi, il curatore di una rivista "ad assemblaggio" richiede l'invio di un certo numero di pagine (solitamente fra le 50 e le 100 copie) su di un tema specifico o a soggetto libero, i lavori ricevuti vengono poi raccolti in apposito contenitore o spillati ad una copertina e completati da indirizzario, testo introduttivo e eventuali altri fogli redazionali. Il processo replica, in veste più effimera e meno pretenziosa, alcune modalità del multiplo o portfolio d'autore. Le pagine delle riviste-assemblaggio, in dimensioni che variano dal formato carolina all'A4 della comune fotocopia, sono infatti solitamente ricche di interventi manuali, colorazioni, collages, decollages, timbri, oggettini tridimensionali applicati, ecc.: come una piccola, variopinta ed eterogenea mostra di mail art a domicilio (fra le testate di questo tipo ricordo Mailartspace International di Romano Peli e Michaela Versari, Bambù di Ubaldo Giacomucci, Taccuino Apografo di Giuseppe Denti, Copy Book di Lamberto Lambi Caravita, Sign Post di Serse Luigetti, Rattlestar di Angelo Vitale, Alto di Jean-Paul Morelle, Fuck e Vittorio Baccelli Magazine di V. Baccelli, Original Art Magazine di Giampiero Bini, Mail Art Magazine di Roberto Zito, e anche varie confezioni audio-visive del collettivo Trax).

Altre pubblicazioni, molto più simili per formato e tecniche di stampa alle fanzines circolanti in ambito musicale, si limitano a selezionare e impaginare testi e immagini significative dal flusso quotidiano di corrispondenze (oppure raccolgono, tramite invito, materiali originali su un dato tema), con aggiunta di informazioni su progetti e mostre di mail art, oltre a liste di contatti e recensioni di riviste similari. Fra le testate ormai "storiche", nate perlopiù nei primi anni 80, ricordo Art in Opposition di Alberto Gallingani, The Oxidized Look di Daniele Ciullini, Bela Lugosi Magazine di Lamberto Lambi Caravita (ovviamente a tema horror), Corto Circuito di Bruno Chiarlone, ArtZine di Bruno Capatti, Poplite di Luca Brunori e Alessandro Corsi, Last Exit di Antonio Tregnaghi, Techno Body Way di Enrico Aresu e altri (dedicata al "fumetto postale"), Mail Art Archive di Alessandro Ceccotto, Ah! L'arte postale di Rino De Michele.

In aggiunta alle riviste puramente mailartistiche, possono essere prese in considerazione anche pubblicazioni autoprodotte appartenenti ad aree espressive limitrofe, i cui aderenti hanno fatto proprie modalità e canali dell'arte per corrispondenza. In particolare, svariate pubblicazioni di poesia visiva e ricerca letteraria hanno trovato nuovo slancio e linfa vitale interferendo con operatori del network postale, edite sia come preziosi multipli d'arte, in veste off-set patinata o in semplice fotocopia da poeti affermati come Adriano Spatola (Geiger/Tam Tam) e Eugenio Miccini (i quaderni di Techne), oppure da autori più sotterranei (Theatre du Silence di Giampaolo Guerini, Offerta Speciale di Carla Bertola e Alberto Vitacchio, Fetiche Journal di Walter Gaspari, Dismisura curata da Giovanni Fontana, Colibrì di Franco Cavallo, Poesia Visiva S.O.S. di Alfredo Slang, ecc.). Confluenze di interessi di natura "contro-culturale" hanno indotto a dedicare ampio spazio alla mail art anche ad un certo numero di riviste poetiche, musicali, o politico-letterarie "di movimento", specie a cavallo fra anni 70 e 80 (cito ad esempio Sorbo Rosso, Na, If..., Il Sorriso Verticale, Crash, Adenoidi, quest'ultima uscita anche in versione su floppy disc).

Nonostante l'alta concentrazione di artisti postali presente nel nostro paese, è curioso notare in retrospettiva l'assenza di una testata in grado di raccogliere e sintetizzare, in adeguata formula tipografico-editoriale, il multiforme patrimonio di idee espresso dal network italiano, ovvero di servire quale punto di riferimento per quanti intendono avvicinarsi per la prima volta alla pratica della mail art o per chi, abbandonatala temporaneamente, volesse rapidamente riannodarne le fila. Ovviano oggi solo in parte a tale lacuna i bollettini Arte Atre e Net Informer, prodotti da Andrea Ovcinnicoff con carattere eminentemente informativo (spesso si tratta di un'unica fotocopia dattiloscritta e ripiegata), mentre di particolare utilità, soprattutto per il corposo indirizzario contenuto quasi in ogni numero, è anche il battagliero foglio di grande formato Lo Straniero, stampato da Ignazio Corsaro in edizione bilingue italiano-inglese, così come alcuni numeri speciali a carattere teorico di Arte Postale!.

La ragione principale della mancata affermazione di una mail art zine italiana articolata e comprensiva è forse da ricercarsi soprattutto nell'estrema riluttanza, da parte di quanti percorrono i canali postali, a mettere mano al portafoglio per acquistare libri, riviste o alcunchè venga posto in vendita nell'ambito del network, rendendo così impossibile il recupero anche parziale delle spese di produzione (e del tutto impraticabile la strada di progetti ambiziosi). Del resto, chi sceglie di utilizzare la rete postale lo fa in gran parte proprio per sottrarsi alla natura commerciale e mercantilistica del sistema dell'arte ufficiale (o dell'informazione massificata), è quindi più che comprensibile che costui consideri con diffidenza le rivistine postali con prezzo di copertina, preferendo praticare le metodologie del baratto e del libero scambio proprie della mail art. Questo non rappresenta comunque un grande ostacolo alla diffusione delle testate, dato che quasi tutte le pubblicazioni hanno tirature ridottissime e sono opera di un'unica persona (che funge contemporaneamente da editore, redattore, grafico, rilegatore, distributore, ecc.), solitamente più che bendisposta allo scambio "in natura".

Per esperienza personale, dopo aver tentato a più riprese di dare ad Arte Postale! una veste tipograficamente più "professionale" (il N.63 ha copertina fustellata a due colori e contiene un disco 45 giri in omaggio), ho dovuto in effetti riconoscere che la dimensione più fertile e appagante della micro-editoria postale è proprio quella del baratto spontaneo, dell'invio a sorpresa abbinato al più libero e completo fai-da-te: libriccini economici assemblati pazientemente a mano, numerati, colorati, ritoccati, firmati e impreziositi copia per copia, prodotti nelle fogge e formati più bizzarri, capaci di stimolare risposte altrettanto insolite e imprevedibili. La funzione più logica e naturale della mail art zine pare essere insomma quella di una ludica (e spesso ironica) riappropriazione di uno spazio mito/mediologico di cui quotidianamente siamo costretti a subire passivamente gli effetti: ognuno finalmente editore di se stesso (e della propria personale visione del mondo), in barba ad ogni considerazione di buon gusto, censura, target, marketing, tiratura, pubblicità, periodicità, scadenze, ecc. Per citare un noto slogan fluxus-situazionista fatto proprio dalla comunità mailartistica: Distruggi la Cultura Seria!

 

 

 

FANZINES

 

(questo articolo del 1992 è apparso in forma ridotta e rimaneggiata sui numeri 7-8 del mensile Rumore e col titolo Fanzirama 2000 é stato incluso nel catalogo di una mostra di fanzines)

 

Definizioni

La biografia di Charles Lutwidge Dodgson, meglio noto con lo pseudonimo di Lewis Carroll e come creatore del celebre Alice nel Paese delle Meraviglie, ci informa che fin da fanciullo lo scrittore era solito produrre rivistine in copia unica, completamente scritte e illustrate a mano, per il divertimento di fratelli e sorelle minori. Sono forse curiosità letterarie come The Rectory Umbrella o The Rectory Magazine del giovane Carroll i più lontani progenitori delle attuali pubblicazioni sotterranee? Difficile stabilirlo, dato che la pratica di una stampa "partigiana", marginale e clandestina, circolante fuori dai binari della cultura ufficiale o fortemente critica nei confronti del potere dominante, si è sviluppata con tutta probabilità fin dai tempi di Gutemberg. Il termine fanzine, contrazione di fans magazine, ovvero "rivista di/per appassionati", è entrato nell'uso corrente soltanto nella seconda metà degli anni '70, per designare una forma spontanea e iconoclasta di giornalismo musicale fai-da-te, sbocciato sull'onda del successo travolgente delle prime formazioni punk (Sex Pistols, Clash, Damned, eccetera) e al pari di queste irrispettoso nel linguaggio e nei contenuti, privo di qualsiasi inibizione. Oggi, viene spesso chiamata  fanzine una qualsiasi pubblicazione autoprodotta, nata senza una motivazione di ordine prettamente commerciale, solitamente dalla periodicità irregolare e dalla vita e circolazione estremamente ridotta, anche se per correttezza filologica la definizione non andrebbe applicata indistintamente a tutta la small press periodica, bensì limitata a quelle riviste amatoriali concepite per categorie specifiche di "fans" (quali gli ascoltatori di un preciso genere musicale, i cultori del fumetto, della fantascienza, dei films horror, ecc.). Il neologismo è stato universalmente adottato probabilmente anche per meglio rimarcare la netta differenza di visione e contenuti, almeno nei primi tempi, fra l'ondata di pubblicazioni post-76 e l'ormai agonizzante underground press internazionale, sviluppatasi nel decennio precedente.

 

prima delle fanzines

The Village Voice, un settimanale con aperture liberali prodotto nel Greenwich Village di New York, ha ospitato fin dal suo apparire verso la metà degli anni '50 le molteplici voci di dissenso dell'avanguardia artistica, della Nuova Sinistra e della cultura beatnik americana. Non meraviglia quindi che sia stato proprio un redattore del Voice, John Wilcock, curatore della seguitissima rubrica "The Village Square", a mettersi alla testa dopo aver lasciato il settimanale di alcuni dei più combattivi progetti editoriali del cosiddetto "underground". Alla Los Angeles Free Press, fondata nel 1964, spetta comunque il titolo di capostipite di un numero sterminato di pubblicazioni indipendenti che, nel volgere di pochi anni, dettero vita ad un vero e proprio "Quinto Potere" alternativo della carta stampata, con una fitta rete di piccole imprese comunitarie di controinformazione che abbracciava ogni angolo del mondo Occidentale (collegate in libere associazioni quali l'Underground Press Syndicate e il Liberation News Service), e che al fianco di istanze politiche radicali più convenzionali diffondevano le rivoluzionarie concezioni di vita della cultura hippie, sovvertendo consapevolmente allo stesso tempo tutte le buone norme della stampa tradizionale. Ortografia, linguaggio, impaginazione, formati, metodi di stampa e colorazione venivano stravolti da concezioni fantasiose di gusto "psichedelico", al punto da rendere perfino difficoltosa in alcuni casi la lettura, per l'avventurosa sovrapposizione di immagini e testo o l'uso di atipici colori pastello. L'establishment ha spesso reagito violentemente, con perquisizioni, censure e condanne, alla diffusione di questa small press priva di briglie, venduta per pochi centesimi agli angoli delle strade da militanti lungocrinuti. Le più note testate statunitensi si chiamano Other Scenes, San Francisco Oracle, Berkeley Barb, Old Mole, Open City, c'è poi l'inglese It  e Oz, più volte sequestrata per oscenità e creata da Richard Neville fra Sydney e Londra, mentre in Italia all'esperimento isolato di Pianeta Fresco, curato da Ettore Sottsass e Fernanda Pivano, sono seguiti dopo qualche anno i libretti di controinformazione di Stampa Alternativa e i vari Fallo!, Re Nudo, Puzz, Tampax, ecc. Stampate a volte con primitivi ciclostile o in eliografia, con interventi manuali, su carta da pacchi o altri materiali "poveri", ma anche in off-set tipografico a più colori e con tirature che hanno superato in alcuni casi le 50.000 copie, le riviste underground dei '60 costituiscono un patrimonio letterario immenso, continuamente ripreso, riciclato e rimaneggiato (grazie anche alla pratica dell'abolizione del copyright) nei decenni successivi, sia in ragione dei personaggi carismatici frequentemente coinvolti (i vari Leary, Ginsberg, Burroughs, Snyder, Kupferberg, ecc.), che per la ricchezza ed eterogeneità degli argomenti trattati (liberazione dai tabù sessuali, cultura della droga, viaggi alternativi a poco prezzo, protesta anti-Vietnam, politica radicale e utopia, misticismo e religioni orientali, musica e arte pop). Dopo le brevi illusioni rivoluzionarie del '68 e le trasfusioni sulle pagine sotterranee, soprattutto in Europa, di idee Situazioniste, il fenomeno si smorza gradualmente nella prima metà dei '70, seguendo lo sfaldarsi del Movimento politico-giovanile internazionale. Oggi, piccole case editrici specializzate hanno perfino iniziato a produrre, per storici e nostalgici, costose ristampe anastatiche dei fogli underground più rappresentativi.

 

Londra in fiamme

La prima, la più influente e anche la più venduta delle fanzines è stata Sniffin' Glue, scritta, impaginata, stampata e distribuita artigianalmente a partire dall'estate del 1976 (grazie anche all'aiuto di Rough Trade e di altre strutture indipendenti) da un giovane disoccupato londinese, Mark Perry. A differenza della conformista stampa musicale ufficiale, dalle pagine della sua rivista Perry incensava o maltrattava senza peli sulla lingua i gruppi punk del momento, che aveva modo di seguire e studiare da vicino, promuovendo fra grezzi collages e montaggi neo-dadaisti efficaci slogan del tipo "eccovi tre accordi, ora formate un gruppo musicale", o incitando i lettori a fondare le loro fanzines (appello che in molti non si fecero ripetere due volte). Nel punk ogni scioccante "rivolta nello stile" si è bruciata e consumata con enorme rapidità, dopo poco più di un anno Perry fondava egli stesso un gruppo rock, gli Alternative TV, il cui singolo di esordio è allegato all'ultimo numero di Sniffin' Glue. Già verso la fine del 1977, la crescita esponenziale del numero di fanzines punk, solo in pochi casi mordaci e innovative come il modello originale (Jolt, These Things, Hangin' Around, Ripped & Torn), aveva prodotto una situazione di saturazione e omologazione del fenomeno, molto simile a quella che simultaneamente interessava i gruppi musicali, assorbiti dalle grandi case discografiche (saranno difatti i responsabili delle fanzines della prim'ora a scrivere e "vendere" all'establishment i primi instant books da cassetta sulla scena punk). Allo stesso tempo però, l'editoria marginale ha continuato a proliferare e frammentarsi in direzioni differenti, espandendosi dall'Inghilterra ad ogni altra nazione civilizzata, con titoli di indirizzo specificamente new wave, mod, ska, dedicati al circuito delle autoproduzioni su cassetta (Cassette Gazette, Fast Forward, Stick it in your ear) o a quello delle etichette musicali indipendenti (OP, Sound Choice), ultrapoliticizzate (come Temporary Hoarding, stampata dall'associazione "Rock against Racism", o Toxic Grafity, prodotta direttamente dal collettivo dei Crass), o con sguardi insoliti sul mondo della moda giovanile (i-D , oggi rivista ufficiale a tutti gli effetti), dell'arte (le tedesche The 80's e Shvantz!, riviste di mail art come Vile e ND), e via dicendo. Siamo però ormai ben addentro agli anni '80, e in epoca di diffuso "riflusso" ideologico la stampa amatoriale ha perso molte delle sue caratteristiche militanti, spesso non si distingue più nettamente nei contenuti dalla stampa overground, dalla ricerca o dalla negazione di valori esistenziali ha virato decisamente verso il gioco e l'effimero, ed ha anche spesso abbandonato la consuetudine del prezzo "politico". Le fanzines più interessanti dell'ultimo decennio sono caratterizzate infatti da una stampa di tipo più professionale, con soluzioni editoriali ricche e raffinate al posto delle fotocopie in bianco e nero spillate a mano, e con cassette, LP o CD allegati in luogo dei tipici flexidisc "pieghevoli" (ZG, Touch, Abstract, RRReport, Total). Solo in rari casi, significativo quello della californiana Re/Search (sorta dalle ceneri dell'influente punk-zine Search & Destroy, più o meno velatamente imitata da altri ottimi progetti qualiVague, Version 90, Vagabond, Sensoria from Censorium), alla cura della veste tipografica si sono abbinati contenuti trasgressivi e ideologici di segno forte (nella fattispecie, le morbose e inquietanti tematiche della cosiddetta "cultura industriale"). Quello che propongono da qualche tempo testate rappresentative come la londinese Encyclopaedia Psychedelica o la veterana Whole Earth Review (in circolazione da almeno vent'anni) è infine un'integrazione e sintesi delle tematiche controculturali comunitarie dei '60 e del fai-da-te individualista e anarchico di epoca punk: una "congiunzione degli opposti" e il superamento dei medesimi, in chiave cibernetica e in ottica di networking (ovvero di contatto diretto senza mediazioni, per sfuggire alla logica delle comunicazioni a senso unico dei Mass Media).

 

dopo le fanzines

L'avvento del word processor e di sofisticati programmi di grafica e impaginazione ormai alla portata di tutti, ovvero l'inizio dell'era del desk-top publishing, con la possibilità di realizzare in casa sul proprio computer e stampante tutti quei passaggi necessari alla produzione di una rivista che un tempo richiedevano l'intervento di diverse maestranze specializzate (fotocomposizione dei testi, impaginazione, pellicole, prove di stampa, ecc.), ha ovviamente prodotto una piccola grande rivoluzione anche nel mondo dell'editoria indipendente. Oggi chiunque senta la necessità di dire la sua su un determinato argomento può inventarsi all'impronta una rivista a propria immagine, con tutti i crismi di una pseudo-ufficialità. Nelle nazioni dove i Personal Computer sono diffusi da maggior tempo, ad esempio USA e Canada, si sta moltiplicando a dismisura il numero di newsheets, bollettini e riviste elettroniche su BBS, prodotte perlopiù da una singola persona, spesso consistenti (al fine di ridurre i costi e massimizzare la diffusione) in opuscoli di pochissime pagine spediti su abbonamento, scambiati per corrispondenza o consultabili per via elettronica. Spulciando i menù telematici o le piccole inserzioni su riviste specializzate è possibile trovare i contatti per questo nuovo tipo di fanzines "mutanti", dedicate agli argomenti più disparati, di interesse generale o ultra-specialistico. Non è certo un caso se il nuovo editore di uno dei più noti progetti sotterranei degli ultimi anni, la fanzine statunitense Factsheet Five, ha deciso di far uscire solo sporadicamente la testata in forma "cartacea", data la difficoltà nel gestire la quantità sempre più elevata di dati (la rivista è infatti essenzialmente una guida alfabetica ragionata per ogni tipo di pubblicazione o materiale controculturale), trasformandola a tutti gli effetti in una rivista elettronica, aggiornata periodicamente e consultabile a distanza. Oggi ci troviamo quindi in una delicata fase di transizione, in cui la small press tende da un lato a compiere appena possibile il salto dai sotterranei alle edicole, dall'altro è in attesa di poter realizzare completamente la trasformazione da prodotto su carta in edizione limitata (dalla distribuzione sempre più macchinosa e frustrante) a notiziario elettronico a diffusione virtualmente illimitata, raggiungibile da ogni punto del pianeta tramite un modem e un codice di accesso. Tali problematiche di segno indubbiamente forte vengono già discusse da angolazioni differenti su nuove fanzines per "pirati telematici" quali HackTick e 2600-The Hackers Quarterly, oppure in pubblicazioni meno dense di termini tecnici per addetti ai lavori come bOING bOING e la patinata Mondo 2000 (battezzata "la Rolling Stone dell'era informatica", ben avviata con la sua aria di snobismo yuppie ad abbandonare i circuiti dell'underground), o ancora le italiane Ario e Decoder. Queste riviste sono contraddistinte dalla pulizia formale di una rigorosa impaginazione computerizzata, funzionale agli argomenti cibernetici affrontati quanto lo erano gli strappi grafici e i testi battuti grossolanamente a macchina nel periodo punk o le arzigogolate calligrafie neo-floreali negli anni '60. E' interessante notare, a riprova di una invisibile continuità fra certi settori della stampa di opposizione di ieri e di oggi, la sopravvivenza in versione desk-top di The Realist, rivistina prodotta fin dagli anni '60 da Paul Krassner, una delle voci più pungenti della controcultura californiana. Krassner si muove abitualmente all'interno dei media tradizionali, ma ha sempre avvertito anche il bisogno di esprimersi con un foglio impaginato personalmente, una sorta di scambio diretto di idee "dal produttore al consumatore". Se la stampa sotterranea può servire da un lato come palestra di allenamento per nuovi autori o come fase di rodaggio per un progetto editoriale, prima che questo raggiunga le edicole (vedi il caso recente della rivista americana di cinema "bizzarro" Film Threat), non bisogna infatti dimenticare come l'autoproduzione risponda anche a profonde necessità interiori di totale autonomia espressiva e a volontà di provocazione spesso sul filo dell'illegalità, tutte libertà che difficilmente la stampa "di regime" può accordare ai suoi collaboratori.

 

sfide e mutamenti                       

La flessibilità e l'imprevedibilità sono fra le caratteristiche più invoglianti della stampa marginale, ma se da un lato i vantaggi del desk-top permettono a questa di darsi una veste hi-tech quale mai ha avuto in passato, anche in progetti a tiratura ridottissima, la grande editoria non rinuncia certo a sfruttare a sua volta le meraviglie delle nuove tecnologie. Grazie alle possibilità offerte dal computer applicato ai procedimenti di stampa tipografica, il settimanale Time è riuscito alcuni mesi fa a spedire a ciascuno dei suoi innumerevoli abbonati una copia con il nome del lettore scritto a caratteri cubitali in copertina. Un semplice scherzetto in confronto a ciò che ci aspetta in un non lontano futuro, ovvero la possibilità di scegliere secondo il nostro gusto personale, nel momento in cui ci abboniamo ad una testata, fra una vasta gamma di combinazioni e approfondimenti (ovvero potremo decidere di ricevere, ad esempio, una rivista con più pagine di sport, politica o musica). Newsweek ed alcuni altri periodici statunitensi hanno già iniziato a servirsi di questa possibilità di "rilegatura differenziata", al fine di offrire qualcosa di inedito che possa riconquistare le fasce sempre più ampie di pubblico disaffezionato alla lettura. E' insomma quantomai interessante notare una bizzarra inversione di tendenza, mentre comincia a delinearsi il volto dell'editoria del ventunesimo secolo: ad una small press sempre più agguerritamente professionale si contrappone una grande editoria che aspira ad offrire un servizio sempre più personalizzato, ovvero che mira a recuperare quell'interscambio diretto con il lettore fino ad ora prerogativa fondamentale della stampa sotterranea (nelle riviste elettroniche, l'interattività si applica quasi indistintamente a progetti di tipo alternativo e no). E' su questo terreno altamente tecnologicizzato che si giocherà la battaglia decisiva fra colossi dell'informazione e outsiders indipendenti, certi comunque che, fintanto che si avvertirà l'esigenza di un'informazione del tutto libera e priva di censure, appassionata e disinteressata paladina di nuovi valori, ci sarà sempre un nuovo John Wilcock, un Richard Neville, un Mark Perry o un Tom Vague che si ingegnerà rocambolescamente per fornircela.

 

                                          bibliografia minima

Lewis Carroll The Unknown Lewis Carroll (Dover, New York, 1961)

AA. VV. a cura di Jerry Hopkins Le voci degli Hippies (Laterza, Bari, 1969)

Jeff Nuttall Bomb Culture (Paladin, Londra, 1970)

AA. VV. a cura di Fernanda Pivano L'altra America negli anni sessanta (Officina Edizioni, Roma, 1971)

Richard Neville Play Power (Milano Libri, Milano, 1971)

Walter Hollstein Underground - sociologia della contestazione giovanile (Sansoni, Firenze, 1971)

Mario Maffi La cultura underground (Laterza, Bari, 1972)

AA. VV. a cura di Pinni Galante Dalle alpi alle piramidi (Arcana, Milano, 1975)

Ferdinanda Pivano C'era una volta un beat (Arcana, Milano, 1976)

Luis Racionero Filosofie dell'underground (Savelli, Roma, 1978)

Julie Burchill-Tony Parsons "The Boy Looked at Johnny". (Pluto Press, Londra, 1978)

AA. VV. a cura di Pasquale Alferj e Giacomo Mazzone I Fiori di Gutemberg (Arcana, Milano, 1979)

A. Noah Underground Press (Embryo, Amsterdam, 1980)

AA. VV. a cura di Bruno Richard e altri Graphic Production (Autrement, Parigi, 1983)

Vernon Joynson The Acid Trip (Babylon Books, Todmorden, 1984)

AA. VV. a cura di Matteo Guarnaccia 1968-1988 Arte Psichedelica e Controcultura in Italia (Stampa Alternativa, Roma, 1988)

Greil Marcus Lipstick Traces (Secker & Warburg, Londra, 1989)

AA. VV. a cura di Tommaso Tozzi Opposizioni '80 (Amen Prod., Milano, 1991)

 

 

 

TAPE NETWORK

(da Vittore Baroni, Arte Postale - Guida al network della corrispondenza creativa, AAA Editrice 1997)

 

Un musicista che produce cassette duplicate in casa non avrà forse la possibilità di diventare ricco e famoso, ma può ugualmente entrar a far parte di una informale rete internazionale di persone che si scambiano lavori ed esperienze, creando da soli o in collaborazioni a distanza opere spesso incredibilmente inusuali (comunque cancellabili e riciclabili!). Il cosiddetto tape network è un vasto campo di intervento che spesso deborda dai confini sotterranei, mailartistici e no, da cui prende le mosse. Quando, attorno alla metà dei ’70, è esploso partendo dall’Inghilterra il fenomeno delle etichette discografiche indipendenti, hanno preso vigore anche innumerevoli piccole imprese le cui produzioni su nastro, recensite da rivistine specializzate come la belga Cassette Gazette e fatte circolare perlopiù via posta, hanno finito in modo del tutto naturale con l’incrociare esperienze di mail art (VEC, Trax, ND, ecc.). Nel mondo delle cassette autoprodotte, esaminato al meglio nell’antologia di saggi e interviste Cassette Mythos (Autonomedia, New York 1992) a cura di Robin James, l’immaginazione è del resto il limite non solo per i suoni da produrre ma anche per l’involucro che li contiene: autori ed etichette si sono sbizzarriti nel creare le confezioni più strane e improbabili, con lo stesso estro lunatico che caratterizza tante pubblicazioni postali.

Le cassette (più raramente i dischi) che circolano in rete sono solo raramente strutturate seguendo tradizionali generi musicali: si va da semplici lettere “parlate” in copia unica ad esperimenti di audio arte, poesie lineari e fonetiche, canzoncine conviviali o componimenti seriosi su temi postali (ricordo l’Art Strike Mantra di Crackerjack Kid, che fonde in un’unico coro voci di decine di networkers) e ovviamente cataloghi di rassegne (come la cassetta con covers di Dylan per l’International Bob Dylan Mail Art Exhibition curata da Alex Igloo e disloKate Klammer nell’83). Mark Bloch, Eric Finlay, Klaus Groh, Minoy, Mogens Otto Nielsen, Barry Pilcher, David Zack, si sono tutti più volte cimentati in opere sonore, ma è il canadese Gerald Jupitter-Larsen il personaggio che più a lungo ha spartito interessi per ricerche sonore e postali: per un programma radio ha trasmesso tutta la notte “audiosculture” inviate da networkers e organizzato happenings di phone art, col suo gruppo fantasma The Haters ha stimolato performances a domicilio (vinili senza solchi da incidere con oggetti appuntiti prima di ascoltarli, ecc.), producendo una lunga serie di dischi e CD che spingono il concetto di audio arte verso nuove frontiere di minimalismo rumorista. Lo stesso dicasi per Masami Akita alias Merzbow, oggi uno dei più prolifici esponenti della non-musica “noise” giapponese, partito negli ’80 producendo cassette e rivistine di collages erotico-apocalittici per il network.

Tre altri progetti degni di nota sono stati portati casualmente a compimento nello stesso anno, il 1983: il polacco Henryk Gajewski ha presentato in performance e documentato su cassetta la raccolta Audio Child, piccoli brani adatti ad essere ascoltati da un pubblico infantile richiesti a vari autori internazionali; Nicola Frangione ha completato a Monza il primo LP di Mail Music, realizzato sfumando uno sull’altro, secondo l’ordine postale di arrivo, frammenti di contributi che spaziano dalla poesia sonora alla musica elettronico-concreta a registrazioni audio verité; infine, resta tuttora il più ampio progetto sonoro scaturito dalla rete postale la mostra-installazione collettiva Audio organizzata al prestigioso Moderna Museet di Stoccolma da Peter R. Meyer, curatore di programmi per la radio e TV svedese che ha in seguito più volte professionalmente utilizzato i contatti della mail art, mettendola anche in pratica (mi ha inviato ad esempio un disco fuso, ridotto ad una colata informe di vinile, con un biglietto che dice “questa era sound art, ora è soltanto arte”).

 

 

CULTURA DI RETE

(da Vittore Baroni, Arte Postale - Guida al network della corrispondenza creativa, AAA Editrice 1997)

 

Le comunicazioni dei mass media sono strutturate in sistemi dogmatici ed unidirezionali. Il networking è un'attività bidirezionale, personalizzata e anti-dogmatica. La possibilità di risposta è ciò che rende la realtà un fenomeno complesso e multidimensionale. Coloro che governano hanno un preciso interesse nel mantenere gli individui separati e i loro contatti di natura puramente meccanica ed utilitaristica. Il networking rappresenta una sfida allo status quo, in quanto permette una libera circolazione interattiva di idee non filtrate e diluite dalla saturazione dei media.

(da Arte Postale! n.60, Viareggio, Near the Edge Editions 1989)

 

Se network significa letteralmente "rete", l'accezione da dizionario del termine che meglio si adatta all'arte postale è quella di "un gruppo, sistema, ecc. di individui interconnessi e cooperanti". Esistono al mondo un'infinità di strutture "a rete" con le più diverse finalità, nobili e meno nobili, dai circoli filantropico-umanitari fino alle logge massoniche, ma com'è facile intuire quello che ci interessa qui è un uso creativo e libertario di una pratica di rete (o networking) in cui i più diversi interessi culturali possono incrociarsi e fertilizzarsi a vicenda. Caratteristiche essenziali di una simile concezione sono:

- la comunicazione diretta, senza filtri o censure, funzionante nei due sensi

- la totale apertura (nessuna selezione dei partecipanti)

- l'orizzontalità (ovvero struttura anti-gerarchica e dialogo a livello paritario)

- la non competitività (e assenza di fini di lucro)

- l'anti-dogmatismo (refrattarietà a regole e codici)

Proprio la mancanza di regole fisse e uniformità metodologica o ideologica rendono il networking imprevedibile e incontrollabile. Alcune delle condizioni appena elencate possono a volte essere eluse o non rispettate, col risultato però di sminuire l'impatto e la rilevanza dell'esperienza comunicativa.

Ho sempre ritenuto che le singole opere prodotte nell'ambito dell'arte per corrispondenza siano meno importanti del processo da cui esse nascono e dei benefici che da questo derivano ai vari partecipanti. La possibilità di sperimentare con nuovi occhi (o per la prima volta) il momento della creazione artistico-poetico-musicale-ecc., la trasformazione da passivi ricettori di notizie preconfezionate a interlocutori attivi in un dialogo allargato e (potenzialmente) planetario, l'opportunità di confrontare esperienze di prima mano con persone che vivono in aree geografiche e situazioni socio-ambientali totalmente differenti, sono certamente gli elementi che quotidianamente stimolano nuove persone a compiere il tuffo nella "rete eterna", fra lingue, dialetti e codici espressivi diversi.

Occorre chiarire bene che la comunicazione "di rete" non è di per se stessa "migliore" o "peggiore" di quella veicolata dai mass media tradizionali: si tratta semplicemente di un'esperienza diversa, di una possibilità di arricchire le nostre conoscenze che si somma, senza escluderli, agli altri canali di informazione. Il confronto fra dati ottenuti con differenti metodologie non può essere altro che vantaggioso e illuminante, ma il networking non vuole e non può essere una panacea universale, anche perché la sua pratica non è esente da difficoltà e limiti pratici (quali il tempo e i mezzi necessari per mantenere un contatto diretto con un numero elevato di corrispondenti). Il fatto stesso però che a livello planetario siano emerse contemporaneamente e autonomamente in questi ultimi decenni differenti "reti aperte", che sfruttano ingegnosamente tutti i canali comunicativi disponibili e appropriabili, testimonia che esiste una effettiva e diffusa esigenza, proveniente "dal basso", di ritrovare una verginità di comunicazione che funzioni da antidoto all'effetto di assuefazione e saturazione prodotto dai mass media (anche rispetto alle immagini terrificanti di una guerra o di un'apocalisse ambientale). In una situazione di Nuovo (dis)Ordine Mondiale, dove alla trasformazione della geografia politica in senso (nominalmente) democratico si accompagnano striscianti o palesi tendenze autoritarie e rigurgiti reazionari, il networking, quale che sia il grado di coinvolgimento del singolo operatore, tende a scavalcare la fissità della cultura dominante, a rimuovere consuetudini congenite, a farsi scuola di tolleranza, a sfaldare vecchie certezze e aprire la mente a nuove libere configurazioni, ad una realtà diversa da quella promossa dal Grande Fratello di turno. Ciò non toglie che il valore di ogni comunicazione, frivola o seria che sia, dipende interamente dalle capacità di elaborazione del singolo operatore. L'emergenza di una diffusa "cultura del network" (dalla mail art a Internet) rappresenta quindi certamente un fenomeno di vaste implicazioni, che potrà anche rivelarsi una delle strategie determinanti per la vita culturale del ventunesimo secolo, ma non dobbiamo semplicisticamente prender per buono lo slogan lo scambio è il messaggio, illudendoci che sia sufficiente essere "in rete" per sortire dei risultati. Occorre anche riempiere di senso, muscoli e cuore la nostra presenza.

 

 

GUGLIELMO ACHILLE CAVELLINI

 

G.A. Cavellini (o GAC, classe 1914), fondatore di una personale tendenza artistica, l’autostoricizzazione, é un personaggio centrale per l’intera storia dell’arte postale. Ambizione e arrivismo, culto dell’ego e del genio individuale, poco si attagliano alla cultura di rete, dove l’invenzione del singolo diviene spesso patrimonio comune. Atipico è però il caso dell’artista bresciano, per il quale l’ossessiva esaltazione della propria persona rientra in un ambizioso disegno concettual-creativo. Già uno dei più noti collezionisti d’arte moderna italiani, amico dei maggiori talenti della sua generazione, egli coltiva anche nel tempo una fervida attività pittorica ma è solo nel 1971 che, sentendosi ingiustamente trascurato dalla critica, decide di “fare da solo”, rendendo oggetto stesso della sua arte una serie di fantasiose strategie autopromozionali.

Alcuni artisti concettuali hanno creato mostre “su catalogo” ma senza portare l’idea alle sue logiche conseguenze: la spedizione di migliaia di “mostre a domicilio” a musei, biblioteche, critici, artisti, curiosi, addirittura con inserzioni su riviste che invitano a richiedere gratuitamente le pubblicazioni. Con una ventina di tali “cataloghi” pubblicati a ritmo serrato fra il ’71 e l’89, tutti finalizzati con impertinenza marinettiana a conclamare Cavellini il più grande artista contemporaneo, questi porta l’ambiente artistico internazionale a conoscenza del suo peculiare caso: vi troviamo manifesti di mostre dedicate a GAC dai principali musei del mondo per il suo centenario nel 2014, autoritratti in forma di grandi francobolli commemorativi, copertine di libri scritti per lui dai Grandi (tipo Il Divino Cavellini di Dante Alighieri), polemici diari autobiografici (come 1946-1976 incontri/scontri nella giungla dell’arte, Shakespeare & Company, Brescia 1977), ecc. Se già i cataloghi possono essere considerati il cardine dell’autostoricizzazione, va aggiunto che a ciascun lavoro riprodotto sulle loro pagine corrisponde anche una vera opera di grandi dimensioni e squisita fattura tecnica, su tela, legno o altri supporti.

Non è però solo per distribuire volumi in quantità industriali (grazie all’ingente patrimonio di famiglia, aggiungono gli invidiosi) che l’artista fa uso delle poste, anzi egli si prodiga nel rispondere personalmente a tutti coloro che gli scrivono, nella elegante calligrafia che è parte integrante di molti suoi lavori. Entrato inevitabilmente in collisione fin dai primi ’70 con l’universo della mail art, l’artista diviene un assiduo frequentatore di progetti, mostre e scambi privati, inviando in giro un numero spropositato di adesivi promozionali (oltre ai popolari tondi tricolori, una lista di artisti celebri culminanti nel suo nome, foto di performances con abiti bianchi su cui ha scritto la sua intera storia, ecc.), francobolli (ritratti commissionati ad artisti quali Warhol, Mimmo Rotella, James Collins, o autoritratti accostati a quelli in pose analoghe di artisti famosi, ecc.), cartoline (quali il Decalogo di Cavellini che inizia con “NON autostoricizzatevi” e i Dieci modi per diventare famosi con “Uccidere Cavellini, o farsi uccidere da Cavellini” al primo punto...) e poi autorizzazioni a celebrare in un museo il suo centenario, lettere manoscritte con calligrafia tanto fitta da risultare illeggibile, soprattutto migliaia di “operazioni andata-ritorno”, ovvero buste ricevute e ritornate al mittente ricoperte di francobolli e timbri cavelliniani.

Non sono pochi i mailartisti che hanno stigmatizzato l’opera di Cavellini scambiandola per puro egocentrismo, senza tener conto della sua ironia paradossale (in un appello ai popoli del mondo, chiede la fine di tutte le guerre al solo fine di evitare che la sua produzione vada distrutta!), della critica implicita ai meccanismi corrotti dell’arte e della sua perspicace consapevolezza (al pari di Ray Johnson) di trovarsi a vivere la fine di una concezione tradizionale dell’artista demiurgo, quale “anello di congiunzione” con un nuovo modo di intendere e praticare l’attività artistica. Altri networkers hanno di contro elevato GAC al rango di guru, inondandolo di opere in suo omaggio (incorniciate a centinaia, riprodotte in catalogo ed esposte come parte del Museo Cavelliniano), organizzandogli mostre o invitandolo a festivals a lui dedicati (in California, Ungheria, Belgio, Giappone). Dopo la scomparsa dell’autore nel 1990, il figlio Piero, noto gallerista, ha annunciato la creazione a Brescia di un Archivio GAC e ha concesso opere per esposizioni in Italia e all’estero. L’impressione è comunque che molto possa e debba ancora esser fatto per preservare e studiare l’eredità di questo artista che, definendosi il più grande di tutti, forse non andava poi così lontano dal vero.

 

(da Vittore Baroni, Arte Postale - Guida al network della corrispondenza creativa, AAA Editrice 1997)

 

 

CULTURA PSICHEDELICA

 

La cultura dell'allargamento della coscienza tramite l'uso di sostanze allucinogene, giunta ad un primo apice di notorietà sul finire dei '60, non è mai realmente morta o scomparsa. Si è anzi andata rafforzando e diffondendo capillarmente negli anni, seppur in maniera sotterranea, fino a dar corpo a veri e propri "circuiti" di natura scientifica, letteraria, artistica e musicale, la cui maggiore o minore visibilità all'interno dei media e della vita sociale è dipesa, oltre che dalle mutazioni del costume, dal variabile grado di tolleranza delle istituzioni repressive. Per buona parte dei '70 e '80, soprattutto in corrispondenza con la caccia alle streghe Reaganiana (e Craxiana) verso ogni tipo di droga, il movimento neo-psichedelico ha mantenuto un profilo piuttosto basso, ai limiti della clandestinità, ma nei '90 si è assistito ad un vero e proprio graduale ribaltamento della situazione. Del resto, quelli che ieri erano giovani hippie squattrinati, sono oggi in molti casi rispettati cinquantenni, con sufficienti mezzi a disposizione per sovvenzionare studi, fondare case editrici o aprire gallerie d'arte.

Ecco dunque che tornano a circolare in libreria opere vecchie e nuove di personaggi come Albert Hofmann (lo scopritore dell'LSD, da noi intervistato nel lontano N.3, suoi scritti nel cofanetto Psichedelica di Stampa Alternativa) e Timothy Leary (Caos e Cibercultura, per Urra, è il suo magmatico manuale di sopravvivenza psichica per il nuovo millennio), affiancate da quelle dall'etnobotanico visionario Terence McKenna (Vere allucinazioni, Shake e Il nutrimento degli dei, Urra: lo sapevate che anche zucchero e cacao sono delle droghe?) e di numerosi altri famosi o sconosciuti "psiconauti" (la bella antologia The Drug User per la Blast Books di NY; Dalla psichedelia alla telepatica, Synergon, e Elementi di psiconautica, Castelvecchi, entrambi a cura di Franco Berardi "Bifo"; Funghetti di Silvio Pagani e Rospi psichedelici, per le edizioni Nautilis di Torino, ecc.). Sul fronte divulgativo e scientifico, a riviste ormai leggendarie come le americane High Times e Psychedelic Monographs and Essays o alla londinese e non più attiva Encyclopaedia Psychedelica, è succeduta una fioritura di nuove fanzines e testate semi-accademiche. Dalle nostre parti, basterà ricordare la curatissima rivista Altrove (Nautilus) promossa dalla "Società italiana per lo studio degli stati di coscienza", lo speciale numero 17 "Cervello mente coscienza" di Cyber e la terza uscita del foglio sotterraneo Power On Off (c/o Sandro Bergamo, Via Lamarmora 13/a, 70011 Alberobello, BA), con svariati interventi sul tema e una nutrita bibliografia degli studi reperibili nella nostra lingua. Una sorta di collettivo che si è dato parecchio da fare per la diffusione della psichedelia in Italia è anche quello formatosi attorno alle attività del critico Franco Bolelli e del disegnatore Matteo Guarnaccia (organizzatori di convegni-eventi milanesi), comprendente il computer-artista Andrea Zingoni, il redivivo Claudio Rocchi e il già citato Bifo. Mitologie Felici per Mudima, Le Nuove Droghe e Starship per Castelvecchi sono solo alcuni dei volumi a più mani in cui Bolelli e amici ripercorrono con cognizione di causa le diverse tappe dell'avventura psichedelica: peccato solo per la fastidiosa tendenza del gruppo a scriversi addosso e ad utilizzare toni utopico-messianici al limite dell'umorismo involontario (con cuori che insomma, nonostante le teorizzazioni futuribili e i frettolosi riferimenti alla cultura dei ravers, battono ancora un po' troppo imparzialmente sul versante dei '60).

Di lampante evidenza è in particolare la maturazione qualitativa e quantitativa delle arti visive di impronta psichedelica. Gli inventivi poster multicolori venduti per pochi dollari o strappati dai muri dopo i concerti trent'anni fa, sono oggi materia di commercio per un ampio circuito di gallerie specializzate, e vengono pagati dai collezionisti a quotazioni da multiplo d'autore, non solo nel caso di classici del genere (i vari Griffin, Mouse, Kelley, ecc.), ma anche di giovani autori come Hess, Emek, T.A.Z., Arminski, R.K. Sloane. In splendide riviste patinate quali Juxtapoz (High Speed Productions, 1303 Underwood Ave., San Francisco, CA 94125 USA), diretta dal fuoriclasse del pennello Robert Williams, si può trovare il meglio della produzione lisergica passata e presente, finalmente analizzata nel dettaglio, lasciando emergere le storie umane e artistiche dietro a potenti icone contemporanee, da noi apprezzate anche dalle pagine di comix, su t-shirts e copertine di dischi. Certo non meno rilevante è poi il peso dell'eredità psichedelica in ambito musicale (e video), dove al riciclaggio di forme già ampiamente canonizzate fin dai tempi dei primi Grateful Dead, si sono affiancate innumerevoli espressioni di sciamanismo elettronico, in una mutazione informatica già preconizzata nell'88 dall'acid house di Psychic TV, The Grid e simili. Una musica volta in senso evolutivo all'espansione dell'anima è insomma da rintracciarsi oggi dalle parti di Zuvuya e Shamen (collaboratori di McKenna), Banco de Gaia e Loop Guru, Material e PWOG, o della trance-techno più radicale (su etichette come Silent, Waveform, En-Trance), piuttosto che nei tanti epigoni e revivalisti dell'acid-rock chitarristico. Non è certo casuale che il monumento postumo a Dark Star del Capitan Jerry Garcia, lo spettacolare montaggio creativo di Greyfolded, sia stato affidato alle cure del "plagiarista" John Oswald.

 

(di Vittore Baroni. Apparso in Rumore, Marzo 1995)

 

 

RAY JOHNSON

 

Nessuno serio studio sull’argomento ha mai messo in discussione la consolidata e ben meritata reputazione di Ray Johnson quale principale originatore (o “padre”) dell’arte postale nella sua attuale accezione, anche se egli non è stato affatto, come Marinetti e Breton, un leader in senso gerarchico e “politico”, oppure, come Maciunas e Friedman, un teorico e coordinatore razionale: non ha redatto manifesti bensì ha elevato il frammento e il pettegolezzo a forma d’arte, le “espulsioni” dal suo giro di corrispondenti non erano vere epurazioni ma piuttosto parodie delle lotte interne alle avanguardie storiche. La sua è stata sempre una presenza enigmatica e defilata: un eremita che pareva conoscere tutto di tutti, un convinto individualista capace di imprevedibili atti di generosità, una figura mitologica già al suo primo apparire sulla scena artistica, una leggenda da tramandare piuttosto che un maestro da riverire.

Nato a Detroit nel 1927, Raymond Edward Johnson ha studiato negli anni ’40, con insegnanti come Josef Albers e Robert Motherwell, al celebre Black Mountain College nel North Carolina, un laboratorio che ha partorito nomi di spicco dell’avanguardia americana di questo secolo, da Merce Cunningham a John Cage. Nel ’48, l’artista si è trasferito a New York, dove ha messo a punto, dopo alcune esperienze astratto-espressionistiche, le sue originalissime strategie operative, nel loro piccolo capaci di ribaltare assunti fondamentali del sistema dell’arte, oltre ad anticipare diverse tendenze, dalla Pop Art (è fra i primi ad integrare nei collages volti di celebrità come Elvis Presley e James Dean) al graffitismo (i messaggi visivi lasciati su mura urbane e i vignettistici animali onnipresenti nella sua opera - il coniglietto una sorta di marchio di fabbrica - precorrono di trent’anni gli omini di Keith Haring). Johnson ha però sempre preferito lavorare in copia unica e su piccoli formati, precludendosi così l’appoggio del grande mercato dell’arte, verso cui nutre comunque sentimenti contrastanti (rifiuta spesso di esporre o vendere i propri lavori). A volte associato a Fluxus per il carattere minimal-concettuale dei suoi progetti, egli è stato in realtà un talento unico facente scuola a se stante, un collagista e disegnatore dal tratto elegante ed essenziale, un artista “vecchia maniera” che ha saputo vedere ben oltre la propria formazione accademica, presagendo e svelando con le sue liste di contatti epistolari l’importanza di una nuova figura culturale: l’operatore di rete, una sorta di “animatore” che crea contesti per l’espressione collettiva. L’arte intesa insomma, pur senza alcun palese intento socio-rivoluzionario, come processo attivo e in progress di scambi tra individui e non come operazione commerciale, scavalcando le figure istituzionalizzate del critico e del gallerista.

Già nella metà dei ’50 Johnson crea i moticos, piccoli cartoncini sagomati con incollati disegni e ritagli di giornale ritoccati, esposti sui marciapiedi o nelle stazioni ferroviarie oppure, secondo l’estro del momento, spediti per posta ad amici, conoscenti, personaggi noti e perfetti sconosciuti (scelti dall’elenco telefonico, in base al suono del nome o altri criteri sibillini), accompagnati da messaggi criptici, giochi di parole, richieste all’apparenza assurde, inviti a “incontri” reali o fittizi (i cosiddetti nothings in cui, rovesciando il concetto di happening, non accade assolutamente nulla!). I contatti postali assumono gradualmente per l’artista, il quale per inciso ama utilizzare creativamente anche il telefono e altri mezzi di comunicazione, un’importanza sempre maggiore, ramificandosi in una vasta rete con centinaia di corrispondenti “abituali”, battezzata nei primi ’60 (pare dall’artista Fluxus Ed M. Plunkett) con il nome ironico di New York Correspondence School: un ibrido fra la pittorica New York School creata dai critici e le “scuole per corrispondenza” pubblicizzate all’epoca su riviste. La sigla conosce poi negli anni infinite ludiche variazioni, tutte segnalate da appositi timbri: New York Correspondance School, NY Gymnastic School, Buddha University, ecc., a cui occorre aggiungere le decine di “fan clubs” scherzosamente creati e coordinati da Johnson, dedicati a stars del cinema e altre celebrità che questi tenta, spesso con successo, anche di coinvolgere nelle sue corrispondanze. L’intera attività postale dell’artista si basa in realtà, e in questa semplice rivelazione sta tutta la sua grandezza, su un unico pun macroscopico (proprio per questo invisibile ai più): nella corrispondenza egli cerca sempre e solo delle corrispondenze, con un carosello infinito di riferimenti (immagini, citazioni, anagrammi, ecc.) capaci di mettere in relazione tra di loro due concetti (e/o due persone: mittente e destinatario) a prima vista senza nulla in comune.

“I giochi di parole non sono solo un gioco”, scriveva Alfred Jarry. La considerazione si attaglia perfettamente al lavoro di Johnson, in apparenza effimero e frammentario, ma osservato nel suo insieme (migliaia di comunicazioni ad altrettanti corrispondenti) orchestrato come una complessa sinfonia, in una fitta e geniale trama di temi ricorrenti, variazioni, gags, coincidenze e doppisensi: nelle parole dell’autore, “un fantastico, gigantesco mobile di Calder... costantemente in movimento”. Esistono fortunatamente, oltre a ispirati saggi di alcuni fedeli amici-critici (William S. Wilson su tutti), alcuni cataloghi in cui sono state radunate corpose raccolte private di lettere, che riescono a darci un’idea precisa della poetica globale dell’artista (ad esempio, Correspondence - An Exhibition of the Letters of Ray Johnson al North Carolina Museum of Art di Raleigh nel ’76), oppure cataloghi di mostre non “postali” (quale Works by Ray Johnson al Nassau County Museum di Roslyn Harbor nell’84, a cura di David Bourdon) che documentano la qualità eccelsa di collages realizzati con tecniche e supporti “poveri” quali pezzetti di cartone dipinti e poi scartavetrati, sempre strettamente connessi nel riciclo di temi e materiali ai lavori circolati per posta.

Soltanto una ventina di mostre personali in quasi cinquant’anni di attività, più un paio di retrospettive in musei pubblici, non sono forse gran cosa, ma non ci è dato sapere se è stata una forma depressiva, indotta dal mancato riconoscimento della propria statura artistica, che ha spinto Johnson a togliersi la vita in un’ultima (triste) performance che ha profondamente impressionato quanti lo conoscevano e stimavano. La data del 13 Gennaio 1995, il giorno in cui l’artista si è gettato vestito di tutto punto dal ponte di Sag Harbor a Long Island (forse non casualmente: “to sag” significa “cedere, andare alla deriva”), allontanandosi nuotando sul dorso, come riferito da alcuni bambini impotenti testimoni, e lasciandosi affogare nell’acqua gelida, assume un involontario valore simbolico, marcando in qualche modo la fine del “periodo aureo” dell’arte per corrispondenza.

 

(da Vittore Baroni, Arte Postale - Guida al network della corrispondenza creativa, AAA Editrice 1997)