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ripreso dal sito www.granbaol.org/archivio/culture_jamming.htm

speciale culture jamming

 

 

Immaginario jamming

DAVIDE LOMBARDI 

Editoriale n. 28 - settegiugnoduemilauno

La cosiddetta globalizzazione non è certo un fenomeno recente. Basta guardarsi un film di qualche anno fa, Mission, per comprendere che già in passato decisioni assunte a Lisbona o Madrid (o qualunque altra capitale dell'Europa del tempo) incidevano radicalmente sulla politica, l'economia, la società di popoli e territori lontani migliaia di kilometri. Globali lo siamo da quando esiste uno straccio di economia di mercato. Per certi versi l'imperialismo economico nell'era informatica di una società come Microsoft è paragonabile all'imperialismo politico della Gran Bretagna di un tempo. Una differenza, forse, risiede nel progressivo svuotamento dell'azione politica classicamente intesa a favore di un disvelamento del netto primato della sola economia per di più nella sua variante strettamente finanziaria.

Nel gioco delle continuità e delle differenze di un processo dinamico ma evidentemente unitario - al di là del fatto che globalizzazione sia parola assurta ai favori della cronaca solo in questi ultimi anni -, mi preme, ai fini di questo numero speciale del GranBa, mettere in evidenza un aspetto che ritengo si sia particolarmente radicalazzato nel decennio appena trascorso. Sto parlando dei loghi aziendali intesi come manifestazione fenomenologica contemporanea dell'imperialismo economico culturale ed economico del nuovo millennio. Di come sia profondamente mutato il significato simbolico dei marchi (e la loro incidenza sulle nostre vite) ne ha scritto con grandissimo acume la giornalista canadese Naomi Klein. Ma come sottolinea la stessa Klein, se da un lato la manifestazione costante di questo potere transnazionale delle industrie attraverso i loro marchi, induce ad "un senso di claustrofobia globale", dall'altro,  "l'omogeneizzazione, ovvero l'idea di masse di persone che mangiano tutte da Burger King, indossano scarpe Nike e guardano i video dei Backstreet Boys, ha fornito pure la base per una comunicazione globale efficace". 

Come si pronunciano nelle diverse lingue le parole "sindacato", "lavoro", "globalizzazione", non lo sappiamo, ma da Treviso a Manila, da Calcutta a New York, quando si parla di Benetton, tutti abbiamo presente, per lo meno, dei maglioni. E inoltre, tutti conosciamo uno slogan tra i più incisivi nell'era del marketing globale: "United Colors of Benetton". Insomma, i maglioni di Benetton come vero collante multiculturale. Io sono bianco e tu nero, ma tutti e due vestiamo un capo Benetton. Un'operazione culturale potentissima, studiata e pianificata a tavolino, l'apoteosi di un marchio e del marketing come scienza.

Ma se il marchio non è più un semplice segno ma, molto oltre, ha assunto valenza simbolica, ha cioè accorpato (dal greco sym ballein, mettere insieme) in sè una pluralità molteplice e multiforme di significati alcuni dei quali rigorosamente inespressi perchè afferenti alla sola sfera emotiva (di qui il marchio come lifestyle, valore in sè), è chiaro che operare una culture jamming, un'interferenza culturale attraverso forme e metodi diversi, significa portare alla luce tutti i significati, anche quelli reconditi, di un marchio. E, nel farlo, si produce un cortocircuito nel simbolo : rivelandolo nell'articolazione delle sue forme, illuminando le sue zone d'ombra, il risultato è la sua pietrificazione, la sua concettualizzazione, la sua morte come simbolo e la sua nascita come segno.

La differenza concettuale tra la rilevanza del segno e quella del simbolo la spiega bene Umberto Galimberti nel suo libro "La terra senza il male" - Feltrinelli :

  "Ottenuto con un processo di astrazione (ab-traho, prescindo) che esclude da sè tutti i dati riportati dall'immagine, il concetto è un segno che sta per molti, un segno rigidamente fissato nella sua identità e non contraddizione, per cui il cavallo è il cavallo e non l'istinto, il desiderio, l'impeto, la fedeltà, il sacrificio, la morte. Fissato nella sua identità e non contraddizione, il cavallo è immediatamente sottratto all'ambivalenza, perchè il concetto che lo esprime non significa "questo" e anche "altro", ma solo "questo". Non "mette insieme", ma divide; la sua funzione non è simbolica ma disgiuntiva. Non così l'immagine che si concede alla fluttuazione dei significati e al loro slittamento in sensi concettualmente diversi, ma per l'immagine adiacenti (cavallo=istinto)".

La culture jamming, pur nelle sue contraddizioni (a volte il rischio è quello di cadere nella semplice parodia, come ci ricorda la denominazione infelice di un sito jamming come parody.organique.com), svolge questa funzione culturale fondamentale di opposizione e lotta alla voracità onnicomprensiva dei simboli inseriti nel circuito comunicativo da parte delle multinazionali e dalla pubblicità in generale. E lo fa, al contrario di una protesta sindacale diretta contro lo sfruttamento degli operai di qualche fabbrica Reebok dell'Asia, operando sullo stesso terreno del marketing : l'immaginario. 

Non si tratta cioè di far semplicemente conoscere al mondo intero che un paio di scarpe che io qui pago 150.000 lire ne costa 1.000 al produttore terzista asiatico (questo compito, più che dei jammers, è un obiettivo mediatico ed etico-politico comune di tutto il movimento antiglobalizzazione nelle sue diverse moltitudini - una definizione del movimento che ho sentito e che mi piace molto -) ma di depauperare il marchio di ogni suo valore simbolico in modo che risulti chiaro che le Nike sono solo un paio di scarpe come le altre, che non hanno niente di cool, che il loro invito ad agire, a fare, non riguarda affatto una qualche aggiunta di senso alla propria esperienza esistenziale ma solo un invito a mettere mano al portafogli. E  questo, non basta dirlo ma bisogna, da jammers, riuscire a farlo immaginare.  

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